Home > Intervista con un ex-prigionero del DHKP-C
Liberazione, 25 Gennaio 2005
«Mi chiamo Halil Ibrahim Sahin e sono kurdo».
«Mi chiamo Halil Ibrahim Sahin e sono kurdo». Parla guardando fisso negli occhi, gesticolando, riesce anche a ironizzare mentre racconta. Halil ha folti baffi, sui capelli neri è già sceso un poco di grigio, difficile capire se per l’età o se per quanto ha subito. Uno degli slogan più spesso urlati nelle carceri turche in cui ha trascorso 11 anni da prigioniero politico, dice pressappoco: «La dignità umana vincerà la tortura». I lineamenti di Halil ne sono la prova.
«Negli anni Settanta mi sono avvicinato alla sinistra, ero interessato a cogliere i nessi fra marxismo e questione nazionale. Ben presto sono arrivato a comprendere due cose semplici: la lotta di liberazione in Turchia riguarda tutte le minoranze presenti nel paese, non solo noi kurdi; secondo, le condizioni di sfruttamento dei lavoratori coinvolgono tutti i turchi».
Sono gli anni in cui emerge una figura di intellettuale militante come Mahir Cayan. Halil aderisce al gruppo che all’epoca viene chiamato Dev Sol e che nel 1994 diviene Dhkpc. Alla fine del 1990 partecipa a manifestazioni contro la "guerra imperialista" all’Iraq, viene arrestato e si fa i primi sei mesi di galera. Quando esce, nell’aprile del 1991, va a vivere nella piana del Ciukurova. «Ho cominciato a fare lavoro di propaganda nei quartieri, tutto alla luce del sole. Nel 1993, sulla strada per Istanbul, ci hanno fermati per un controllo ed hanno trovato armi nel portabagagli. Non avevano alcuna prova contro di me ma avevo precedenti. Mi hanno rinchiuso nel carcere di Bursa, in isolamento. Ad ogni trasferimento per le udienze venivo regolarmente pestato». La condanna arriva nel 1995: 15 anni per appartenenza a gruppo clandestino. «Bastava aver appeso uno striscione per essere considerati terroristi. A celebrare i processi c’era la Dgm (la Corte per la Sicurezza dello Stato, ndr) composta solo da militari. È stato in quel periodo che si è cominciato a voler isolare i detenuti».
A Bursa, Halil comincia ad attuare forme di disobbedienza: lo sciopero della fame, il silenzio durante l’appello, il blocco della porta della cella. Gli obbiettivi: rompere l’isolamento e tornare ad Istanbul. E’ iniziata già la politica delle stragi per fiaccare la resistenza dei detenuti. «Dopo il processo sono finito a Umranie. Dal 24 novembre del ’95 iniziò un pestaggio quotidiano operato dai militari. A dicembre l’assalto. Ci siamo difesi alzando barricate, 4 compagni sono morti. Nel 96 molti iniziano uno sciopero della fame, dopo 69 giorni ne muoiono 12».
La situazione precipita: il 26 settembre ’99 avvenne una strage nel carcere di Ulucanlar (vicino Ankara), poi a Burdur (nell’ovest). Una foto terribile di quei giorni mostra un cane con in bocca il braccio di un prigioniero. A quel punto il governo inizia a costruire nuovi penitenziari, e siccome è l’Ue a finanziarli al 70%, hanno anche standard più vicini agli occidentali.
«L’isolamento in cui ci si vuole portare serve a distruggere i nostri rapporti, non è vero che le ragioni vanno ricercate in una presunta umanizzazione o nel bisogno di riportare i penitenziari sotto il controllo dello Stato».
«Nell’ottobre del 2000 abbiamo iniziato lo sciopero della fame ad oltranza, il 19 dicembre l’esercito ha fatto irruzione a Umranie. Uno dei nostri, Hamet, si è dato fuoco, poi è corso fuori in segno di resa, lo hanno abbattuto con due colpi alla testa». Il bilancio è tragico, 32 morti.
«A febbraio un altro trasferimento, nel carcere di Tekirdag. Rifiutavo il cibo e non obbedivo, ho visto morire un mio amico per le torture. Ci siamo organizzati: alcuni scelsero lo sciopero fino alla morte, altri, come me, alternarono 45 giorni di digiuno a 10 di nutrizione, per resistere più a lungo».
Halil è uscito nel luglio del 2004 e non crede al volto nuovo del governo: «Il prossimo anno approveranno una legge sulla detenzione che permette di sottrarre al periodo della pena i giorni trascorsi in ospedale. Chi solidarizzerà con gli scioperanti sarà accusabile di istigazione. Ma la Costituzione dice che se un detenuto rimane in silenzio al processo commette un reato. È questa l’umanizzazione?». La "legge sul pentimento" fatta passare come amnistia, è servita a liberare i detenuti della destra, gli integralisti e quelli che avevano abbandonato la lotta. Secondo Halil si è dimostrata un fallimento. Nel frattempo nelle nuove carceri continua l’isolamento: «Hanno anche messo delle grate sul soffitto per impedire che ci potessimo mandare biglietti da una cella all’altra».
Halil adesso è libero ma sempre sotto stretto controllo: «Hanno arrestato anche il mio avvocato perché parlavo troppo spesso con lui. Non conviene girare insieme a me - dice ridendo - Berlusconi ed Erdogan sono amici e potresti passare dei guai anche tu». L’ingresso in Europa può essere un’occasione? Halil scuote la testa: «Ora no. Può solo servire a garantire il potere. Il popolo turco deve ancora fare passi in avanti, da noi non c’è mai stata una rivoluzione borghese e è impossibile impiantare un sistema dall’alto. Dobbiamo imparare a camminare con le nostre gambe, continuando a lottare. Poi si vedrà».
Stefano Galieni




