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Intervista di Samir Amin sulla Palestina, il Medioriente, etc.
Publie le sabato 15 luglio 2006 par Open-PublishingQuella che segue è un’intervista che Samir Amin ha rilasciato al Corriere della Sera, ma poi non pubblicata. E’ indicativo del poco rispetto che i media italiani, diversamente da giornali anche a larga diffusione stranieri, hanno per le opinioni che divergono dalle posizioni ufficiali o ritenute accettabili dall’establishment. I temi sono la Palestina, il Medioriente, il cosiddetto dialogo euro-mediterraneo.
Associazione Culturale Punto Rosso
Il governo dell’Autorità Palestinese guidato da Hamas sembra essere sempre più isolato. Quale dovrebbe essere l’attitudine della comunità internazionale per favorire la ripresa del dialogo tra Israeliani e Palestinesi?
Gli accordi di Oslo lasciavano pensare che in Palestina fosse possibile una pace definitiva. Disgraziatamente Israele non ha rinunciato alle sue ambizioni di espansione coloniale con conseguente pulizia etnica e annullamento dei diritti del popolo palestinese; dopo che Rabin ebbe violato quegli accordi, Sharon ne ha ufficializzato l’abbandono. La soluzione del problema non passa attraverso l’esercizio di pressioni sulla vittima e il rifiuto di cooperare con l’autorità palestinese eletta - anche quando si tratti di Hamas - ma attraverso le pressioni sull’aggressore. L’appoggio praticamente incondizionato degli Stati Uniti e quindi dell’Europa alla politica espansionistica di Israele è all’origine dell’impasse in cui ci troviamo.
E’ notizia di questi giorni l’intensificazione della crisi nucleare iraniana. Teme di più il riarmo di Teheran o la possibilità di un intervento armato preventivo americano?
Non si vede perché l’Iran - come ogni altro paese - non dovrebbe avere il diritto di accedere al nucleare, riservandolo solo a pochi. La “non proliferazione” degli armamenti nucleari è accettabile solo se viene imposto a tutti nello stesso modo, quindi in particolare a Israele, e se gli Stati Uniti rinunciano alle “guerre preventive” e a usare l’arma nucleare, il che non succede. La crisi in corso è evidentemente pericolosa, Washington non ha rinunciato al suo progetto di controllo militare del “grande medio oriente” petrolifero, il che comporta l’aggressione militare contro l’Iran. L’Europa, ancora una volta allineata su Washington, e accettando quindi di dipendere integralmente dalle decisioni USA per le forniture di petrolio, sarà anch’essa vittima di questa politica insensata.
E in tutto questo, cosa pensa della posizione dell’Europa?
Fino al 1945 ogni potenza europea ha avuto una propria politica mediterranea, il più delle volte in conflitto l’una con l’altra. Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati d’Europa occidentale non hanno praticamente più alcuna politica mediterranea e araba, né comune né specifica, tranne la posizione di allineamento sugli Stati Uniti, anche se Francia e Gran Bretagna, che avevano posizioni coloniali nella regione, hanno sferrato delle battaglie di retroguardia per mantenere il loro vantaggio. La costruzione europea non ha sostituito al ritiro delle potenze coloniali una politica comune operante in questo settore. Ricordiamo tutti che quando in seguito alla guerra arabo-israeliana del 1973 ci fu un aggiustamento dei prezzi del petrolio, l’Europa comunitaria, sorpresa nel sonno più profondo, scoperse che anch’essa aveva degli “interessi” nella regione. Ma quel risveglio non ha suscitato alcuna iniziativa importante, per esempio sul problema palestinese.
Però forse questo non è del tutto vero per un paese come la Francia.
La Francia, paese nel contempo atlantico e mediterraneo, erede di un impero coloniale, non ha mai rinunciato a esprimersi da grande potenza. I successivi governi nel dopoguerra avevano tentato di mantenere le posizioni coloniali francesi con una politica spinta di atlantismo antisovietico. De Gaulle aveva fatto cessare quelle illusioni e aveva concepito il triplice progetto ambizioso di modernizzare l’economia francese, di guidare un processo di decolonizzazione che permettesse di introdurre un neocolonialismo più agile in luogo delle formule vecchie e ormai sorpassate, e infine di compensare le debolezze tipiche di ogni paese di taglia media come la Francia con l’integrazione europea. In questa ultima prospettiva De Gaulle progettava un’Europa capace di rendersi autonoma rispetto agli Stati Uniti non solo sul piano economico e finanziario, ma anche politico e a tempo debito militare. Così come progettava di associare l’Unione Sovietica alla costruzione europea (“l’Europa dall’Atlantico agli Urali”). Ma il gollismo non è sopravvissuto al suo fondatore e dopo il 1968 le forze politiche francesi sia di destra che di sinistra sono progressivamente ritornate a una visione della costruzione europea ridotta alle dimensioni di “mercato comune”, il che comportava l’abbandono di ogni politica araba da parte della Francia. Questo allineamento atlantico è stato forse rimesso in discussione dopo l’occupazione militare dell’Iraq da parte degli Stati Uniti.
E l’Italia che dovrebbe essere portata quantomeno dalla sua posizione geopolitica ad avere una politica mediterranea?
L’Italia malgrado la sua posizione geografica non ha una politica araba efficace o quanto meno autonoma. L’Italia, rimasta a lungo ai margini dello sviluppo capitalistico, è stata costretta a limitare le sue ambizioni mediterranee entro il solco di un’alleanza obbligata con altre potenze europee, più decisive.
L’atlantismo, nella scia degli Stati Uniti, ha dominato le scelte dei governi italiani che si sono succeduti dopo il 1947. Nel partito della Democrazia cristiana, è stato temperato dalla pressione dell’universalismo della tradizione cattolica. E’ significativo che il papato, rispetto ai popoli arabi (in particolare nella questione palestinese) e a quelli del terzo mondo, abbia preso spesso delle posizioni meno retrograde di quelle di vari governi italiani e occidentali in generale. La corrente mitteleuropea sprofonda le sue radici nel XIX secolo italiano e nella frattura fra Nord e Sud che l’unità italiana non ha ricomposto. Rispecchiando gli interessi del grande capitale milanese, essa suggerisce di dare priorità all’espansione economica dell’Italia verso l’Est europeo, in stretta associazione con la Germania. La destra italiana, riunificata sotto la direzione di Berlusconi al potere, ha scelto di inserirsi nella scia dell’asse atlantico.
USA: quali sono gli interessi strategici americani nell’area?
Il Medio Oriente, con le sue propaggini verso il Caucaso e l’Asia centrale ex sovietica, occupa una posizione particolarmente importante nella geostrategia/geopolitica del progetto egemonico degli Stati Uniti. Questo per tre fattori: l’accesso al petrolio relativamente a buon mercato è vitale per l’economia della triade; e la maniera migliore per garantirsi questo accesso consiste naturalmente nell’assicurarsi il controllo politico della regione. Ma la regione ha anche una grande importanza per la sua posizione geografica, al centro del mondo antico, e insediandosi là gli Stati Uniti riusciranno a rendere vassalla l’Europa, che ne dipende per le forniture energetiche, e a tenere la Russia, la Cina e l’India sotto un ricatto permanente, rafforzato da minacce di intervento militare, se necessario. Gli sforzi dispiegati con continuità e costanza da Washington fin dal 1945 per assicurarsi il controllo della regione -ed escluderne inglesi e francesi - non erano stati finora coronati dal successo, per la semplice ragione che il progetto del populismo nazionalista arabo (e iraniano) entrava clamorosamente in conflitto con gli obiettivi di tale egemonia. Ma quel momento è passato e i poteri nazionalisti sono sprofondati in dittature prive di ogni programma. Il vuoto creatosi con questa deriva ha aperto la strada all’Islam politico e agli autocrati oscurantisti del Golfo, che sono gli alleati preferenziali di Washington.
Di fronte alle iniziative degli Stati Uniti, l’Europa riesce a immaginare un’alternativa?
Il controllo del Medio Oriente è una pietra di volta del progetto egemonico mondiale di Washington. Già circa dieci anni fa Washington aveva preso l’iniziativa di avanzare il progetto di un “mercato comune del Medio Oriente”, in cui i paesi del Golfo avrebbero fornito il capitale, gli altri paesi arabi la manodopera a buon mercato, riservando a Israele il controllo tecnologico e le funzioni di intermediario obbligato. I paesi del Golfo e l’Egitto lo avevano accettato, ma il progetto si scontrava con il rifiuto della Siria, dell’Iraq e dell’Iran. Per andare avanti bisognava abbattere quei tre regimi. La cosa è fatta oggi per l’Iraq.
A questo punto la questione è di sapere che tipo di regime politico si deve instaurare per sostenere il progetto. I discorsi propagandistici di Washington parlano di “democrazia”. Di fatto gli Stati Uniti tentano solo di sostituire alle logore autocrazie del vecchio populismo delle nuove autocrazie oscurantiste pretesamente “islamiche” (il rispetto della specificità culturale delle “comunità” oblige). La rinnovata alleanza con un Islam politico cosiddetto “moderato” (cioè capace di dominare la situazione con efficacia sufficiente a impedire le derive “terroristiche” - quelle dirette contro gli Stati Uniti e quelle sole, naturalmente) costituisce l’asse dell’opzione politica di Washington. In questa prospettiva sarà perseguita una riconciliazione con l’arcaica autocrazia del sistema saudita.
Di fronte al progredire del progetto statunitense, gli europei hanno inventato un loro progetto, chiamato “partenariato euro-mediterraneo”. Un progetto assai poco ardito, con tante chiacchiere senza seguito, ma che si propone anch’esso di “riconciliare i paesi arabi con Israele”, mentre escludendo i paesi del Golfo dal “dialogo euro-mediterraneo” gli stessi europei riconoscono implicitamente che la gestione di quei paesi resta di esclusiva pertinenza di Washington.