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Io cattolico vi spiego perché sono a favore dell’eutanasia
Publie le venerdì 12 gennaio 2007 par Open-Publishingdi Giovanni Franzoni
La nobile e ferma richiesta di Welby perché
avesserofineletorturesulsuocorpoperpetrateinossequioadunprincipioideologicocheprivilegia
in assoluto la quantità della vita nei confronti
della qualità e dell’accettazione del dono della vita
da parte del soggetto, ha posto il problema dell’eutanasia.
Ma, in realtà, a questo problema si sfugge,
riducendolo alla liceità della cessazione dell’accanimento
terapeutico: nozione questa, più accetta
dal punto di vista formale, per coloro che si attengono
alla linea della Chiesa cattolica ufficiale.
Si sta quindi aprendo una questione infinita su
quando e come la terapia per un malato terminale
o anche solo gli interventi di mantenimento in vita,
si configurino come accanimento terapeutico.
Ignorandoperaltrol’altraquestionefondamentale
se il soggetto in causa consideri o no, quel trattamento,
come un accanimento terapeutico e una
terapia soggettivamente sostenibile e bene accetta.
E’ quindi importante tornare a chiarire i linguaggi
e togliere dalla condizione di demonizzazione
la nozione stessa di eutanasia. Il primo suggerimento
viene dalla felice espressione di Epicuro:
«Chi esorta il giovane ad una vita bella, il vecchio ad una bella morte, ha poco senno, non solo
per il gradevole della vita, ma anche perché una
sola è la meditazione e l’arte di ben vivere e di ben
morire» (A Meneceo). La parola morte, anche ai
nostri giorni, andrebbe sostituita con l’infinito sostantivato
morire.
La morte infatti è una condizione statica e irreversibile.
La risurrezione appartiene alla fede e si sottrae
alla constatazione. La morte anche se prevedibile
e prevista non c’è finché un medico legale
non la constata e non la dichiara. E quando è constatata
e dichiarata, salvo errore del medico, è irreversibile.
Il morire invece si intesse fin dalla nascita
col nostro crescere e col nostro stesso vivere. Non è
uno sconosciuto e non giunge come un ladro. Salvo
naturalmente il caso di morte violenta e incidentale:
l’esplosione di una mina, messa ad arte,
sulcigliodiunastradapercorsadaveicolicivilièun
furto.
Il morire, invece, sotto forma di pigrizia, di rassegnazione,
di torpore o di melanconia, si è spesso
affacciato fra le pieghe del nostro vivere. E’ una
vecchia conoscenza. Non è un ladro.
Al morire abbiamo opposto resistenza, solitaria o
comune, e quando ha superato il limite della sostenibilità
cercando di sopraffare il vivere, abbiamo
invocato la risurrezione.
Talvolta una voce di amico ci ha sottratti
al dolciastro sapore del morire e ci ha
fatto riprendere la fatica del vivere. Questa
distinzione è fondamentale per affrontare
il problema dell’eutanasia. Quando i
medici constatano che, nella cura di un
malato, non vi è più nulla da fare per la loro
scienza, abbandonano il malato agli
infermieri, ai familiari e al prete. La morte
non si cura. Molto spesso abbiamo sentito
questo refrain. Ed è per questo che,
appellandosi al ben noto giuramento di
Ippocrate, la deontologia medica oppone
alla pratica dell’eutanasia, un rifiuto etico,
apparentemente nobile: «Il medico cura la
vita e non può dare la morte». In realtà si
tratta di una fuga. Perché non proporre ai
medici la cura del morire, presentando il
morire come una fase inevitabile e delicata
del vivere?
L’attivazione delle risorse, la
sedazione del dolore, il conforto della
presenza non appartengono forse ad una
vicenda che in quella soggettività c’è
sempre stata fino a che è giunta ad una
fase critica e risolutiva? Non è giunto il
momento di incentivare la libertà del
soggetto bisognevole di cura favorendo la
sua opzione o per il prolungamento
quantitativo della vita biologica o per la
qualità del suo morire con la coscienza
vigile e l’affettività compensata? Una
seconda fondamentale distinzione va fatta
sulle motivazioni di una richiesta di
suicidio assistito, o meglio, senza paura
della parola, di eutanasia. Si nomina in
genere la sofferenza, fisica o psicologica,
talmente insostenibile da rendere nonvita,
la vita.
Ma bisogna tenere conto di un
altro fattore che sta stretto nella nozione di
“sofferenza”: il non riconoscersi più, sul
piano etico ed esistenziale, in una certa
condizione. Un caso classico è quello
citato da sant’Agostino delle vergini
cristiane (ma perché, oggi, non
considerare anche le non vergini e le non
cristiane?) che per evitare l’esposizione al
postribolo si gettarono nel fuoco e furono
considerate sante e martiri. Nell’area del
pensiero etico e degli esempi storici,
bisogna ricordare il pensiero stoico per
cui, quando una persona si trova in
obiettiva e inamovibile contraddizione
con se stessa, ha come unica soluzione il
suicidio.
Dante (dell’ortodossia del quale
nessuno ha mai dubitato) affida la
custodia del Purgatorio a Catone
l’Uticense che si tolse la vita per non
accettare l’insopportabile
comportamento politico di Cesare:
«Libertà va cercando che sì cara/ come sa
chi per lei vita rifiuta». E qui Dante
pronuncia la parola fatidica “libertà” che è
nel cuore del nostro discorso. Ho avuto
occasione di dare un certo spazio alla
pratica dei monaci giainisti che praticano
il “digiuno estremo” (fino alla morte)
quando le circostanze impediscono loro di
vivere secondo la disciplina che hanno
adottato (si veda La morte condivisa, pp.
43-47).
Gandhi, che era giainista, adottò
una volta questa decisione – era stata
finalmente emanata in India una legge che
concedeva il voto politico agli “intoccabili”
ma in collegi separati, cosa accettata dalle
organizzazioni dei paria ma
insopportabile per il Mahatma – e poi la
revocò quando ritenne, ma lo ritenne lui,
che le circostanze fossero mutate.
Nuovamente a regnare sovrana è la libertà
che si sottomette solo quando la coscienza
la orienta verso un fine – secolare o
religioso – che le consente di esprimersi
non in forma capricciosa ma secondo
modalità condivisibili e condivise.
Si potrebbero citare infiniti casi di persone,
molto spesso medici, che conoscono bene
il decorso del loro caso clinico, che,
prevedendo di trovarsi prigionieri di una
vita solo vegetativa, hanno lasciato nel loro
testamento biologico la volontà di non
essere alimentati artificialmente perché,
da quel momento, non si sarebbero
riconosciuti nella condizione di totale
dipendenza. Sia pur priva di dolore fisico o
psicologico. Ultima distinzione, infine,
forse la più delicata, è circa la vita come
dono. In particolare, come osserva
Flamigni in un recente fondo sul
Manifesto, per i credenti è “dono di Dio” e
pertanto sacra; disporne a proprio
piacimento sarebbe irriverente e blasfemo.
Altro discorso per i non credenti che non
facendo riferimento a Dio, potrebbero
essere liberi di disporre della propria vita.
In realtà la difficoltà c’è anche per l’etica
laica. Immanuel Kant considera la vita un
bene «non disponibile» dal momento che
non ce la siamo dati da soli e quindi
considera negativamente il suicidio. E’
necessario approfondire il concetto di
“dono”. La donazione, nel diritto, è definita
un contratto e quindi suppone delle regole
di accettazione, come in tutti i contratti.
Nel pensiero filosofico come in quello
religioso la donazione potrebbe essere
considerata in modo diverso: quando il
rapporto è gratuito e quindi il donatore
non accampa diritti di dipendenza su
coloro che ricevono il dono, si suppone
una responsabilità connessa al ricettore
del dono.
Questo vale soprattutto quando
il dono è la vita umana che ha come dna
specifico di essere libera. Che il donatore
sia il Creatore o che sia il popolo o i genitori
da cui nasci, essi ti donano la libertà e si
attendono solo che tu la eserciti con
responsabilità e non con stoltezza e
leggerezza. La maturità della coscienza
resta l’arbitro di questa suprema ed
esaltante sfida.