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Iran, la storia si ripete...

Publie le mercoledì 13 aprile 2005 par Open-Publishing

di Massimo Ragnedda

Ci risiamo. La storia si ripete sempre due volte, diceva il vecchio Marx. Forse approssimava per difetto. La storia si ripete, eccome se si ripete. Guardate cosa sta succedendo ora sulla stampa statunitense circa l’Iran. È esattamente quanto successe tre anni fa sulla questione irachena. Cominciano le prime “soffiate” o leaks come si dice in gergo americano. Sappiamo come la stampa americana viva di questo, dello scoop da mettere in prima pagina e da approfondire i giorni successivi. Prima i leaks che facevano titolo era quelli sulle armi di distruzione di massa di Saddam o dei suoi presunti contatti con al-Qaeda.

L’amministrazione Bush ha per mesi fornito alla stampa, in esclusiva, ex-membri del regime, ex-fedelissimi di Saddam, tutte persone “ben informate” che avevano qualche notizia sulle Weapons of Mass Deception (WMD), notizie che poi l’anonimo del Pentagono o della CIA confermava, per dare più valore e peso allo scoop. Facevano notizia, aumentavano la tiratura e soprattutto stimolavano la concorrenza a cercare altre notizie da aggiungere a questo, in una continua corsa al rialzo e al conformismo.

Questo ha prodotto, da agosto 2002 sino a marzo 2003, ben 140 articoli in prima pagina del Washington Posto, per citarne uno, schierate sulle posizioni di Bush. Ancora peggio sulle televisioni: dei 1761 ospiti ed esperti invitati dai principali networks televisivi, l’80% era favorevole alla guerra e il rapporto aumentava sino a diventare di 25 a 1, se si prende in considerazione solo gli ospiti statunitensi, quelli che hanno maggior presa sul pubblico di casa. Solo 4 ospiti americani su 100 era contrario alla guerra. Questa è par condicio, signori.

Con quale esito sulla popolazione statunitense? A gennaio del 2003, secondo il sondaggio della PIPA/Knowledge Networks Polls, il 68% degli statunitensi crede che esistano delle evidenti e chiari prove di collegamento tra Saddam e al-Qaeda, cifra che scende al 52% a giugno del 2003, cioè a guerra conclusa. Un po’ meglio sulle armi di distruzione di massa: a giugno 2003 “solo” il 23% degli statunitensi crede che siano state trovate le armi. Per intenderci, un americano su quattro non solo crede che le armi vi fossero, ma che addirittura siano state trovate, nonostante gli ispettori dell’ONU abbiano dichiarato il contrario e nonostante l’evidenza dei fatti dimostri l’opposto. Potenza dei media o credulità della gente? A voi la riflessione.

Certo pare che, anche questa volta, il balletto delle soffiate, la rincorsa della notizia del nucleare iraniano si accompagni, proprio come allora, allo spostamento di navi da guerra, alle operazioni degli aerei invisibili, alle incursioni di truppe speciali sul territorio. Si dice che Bush abbia cambiato politica; pare che ora voglia collaborare con la “vecchia Europa”, ma nel frattempo ha mandato all’ONU John Bolton, membro del Jewish Institute for Nation Security Affaire (JINSA), già sottosegretario per gli armamenti del primo governo Bush, il mastino di Cheney e il pugno di ferro dell’amministrazione.

Persona non abituata a negoziare, che già nell’ormai famosa lettera del 26 gennaio del 1998, scriveva a Clinton, assieme a Rumsfeld, Cheney, Wolfowitz (quest’ultimo mandato alla Banca Mondiale....) incalzando sulla necessità di attaccare Saddam senza dover essere “paralizzati insistendo per l’unanimità del Consiglio di Sicurezza dell’ONU”. Come in questo caso Bolton ha più volte disprezzato le organizzazioni internazionali e il multilateralismo e ha sempre lottato per quella che ritiene una causa superiore: la supremazia statunitense nel mondo. Supremazia non solo militare, ma anche culturale ed energetica. In quella lettera nel 1998, e poi in pratica nel 2003, considerava Saddam, “un pericolo per una significativa porzione dei rifornimenti mondiali di petrolio”.

Oggi l’Iran rappresenta un altrettanto pericolo, vista la volatilità del mercato petrolifero, vista l’instabilità del dollaro, visti i tassi di interesse che cominciano a lievitare e vista la difficoltà che l’economia irachena sta incontrando per decollare. Ostacolo che oggi come allora deve essere rimosso, senza essere “paralizzati insistendo per l’unanimità del Consiglio di Sicurezza dell’ONU”. E lui come rappresentante statunitense all’ONU, avrà questo compito: imporre la linea statunitense. Ma la strategia militare, quella si che pare diversa.

Mahnaimi, in uno “scoop” sulle colonne del Times (13 marzo 2005) ha parlato di un progetto israeliano, già firmato da Sharon, per un attacco strategico sull’Iran, per porre “democraticamente” fine alla questione nucleare iraniana. La risposta militare iraniana sarebbe scontata, anche attraverso il Sud del Libano, dove operano gli Hezbollah sostenuti da iraniani ma anche siriani. Questi ultimi stanno però abbandonando il Libano dopo la strumentalizzazione dell’attentato ad Hariri. Ad essere dietrologi ci verrebbe da pensare che quell’attentato non fu casuale e non fu opera siriana.

Come non ci pare casuale la nomina di Bolton come nuovo rappresentante statunitense all’ONU, come non ci paiono casuali gli scoop che cominciano a trapelare e che servono per rinforzare l’idea che la guerra sia oramai inevitabile. Non ci pare neanche casuale l’affermazione di Cheney sulla necessità di un’azione “concreta” nel caso in cui Teheran non ottemperasse ai propri obblighi internazionali. Quando i giornali e i telegiornali statunitensi cominciano a parlare e a discutere di strategia militare, di vari piani fatti trapelare da qualche ufficiale anonimo, di operazioni segrete sul campo, danno per scontato che la guerra ci sarà: consolidano la necessità della guerra, ce la presentano come ordinaria amministrazione. Potrà arrivare, da Nord o da Sud, sarà fatta con tante truppe o con poche, ma ci sarà.

Quando i banner dei telegiornali (i titoli che appaiono in basso e che servono per raggruppare le notizie) nel presentare le notizie sull’Iran, parlano di “crisi iraniana” o di “corsa iraniana al nucleare” ecc..., significa che la guerra mediatica è iniziata. L’obiettivo di questa prima offensiva è quello di rendere inevitabile ed imminente la guerra.

Si potranno discutere i metodi, con l’ONU o senza, a bassa o ad alta intensità, con mille soldati o centomila. Di questo si può discutere e facendolo si rafforza l’idea che la guerra sia oramai inevitabile. La preparazione della guerra è iniziata.

Prepariamoci...

Massimo Ragnedda
redazione@reporterassociati.org

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