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Israele avanza. Vuole impedire ogni iniziativa di pace

Publie le venerdì 4 agosto 2006 par Open-Publishing

di Anubi D’Avossa Lussurgiu

L’attacco di Israele al Libano diventa minaccia d’invasione, pronunciata dal ministro laburista della difesa Peretz che comunica d’aver ordinato ai soldati di Tsahal, già attestatisi in 10mila su una striscia fino a 7 chilometri oltre il confine, di «prepararsi» ad arrivare al fiume Litani, a nord di Tiro. Hezbollah risponde comunicando per bocca dello stesso sceicco Hassan Nasrallah in un discorso trasmesso dalla tv Al Manar d’essere pronta, di fronte a nuovi bombardamenti di Beirut già annunciati dallo Stato ebraico, a giocare la carta finora tenuta in serbo: il raid missilistico su Tel Aviv. Il portavoce di Peretz risponde immediatamente sul Canale 10 israeliano che in questo caso verranno «distrutte le infrastrutture libanesi»; la televisione spiega che con ciò si avverte il governo di Beirut che verrà colpito.

Questi annunci incrociatisi ieri sera si trasformeranno, se avverati, in un’accelerazione irreversibile dell’escalation di guerra. Quel che potrebbe avvenire concretamente in queste ore significa una cosa sola: la vanificazione degli sforzi politici e diplomatici che erano sembrati, nella giornata di ieri, premettere ad un congruo consenso intorno ad un nuovo progetto di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, presentato dalla Francia.

Se alle minacce seguiranno i fatti, l’aggressione israeliana al Paese dei Cedri, in atto da oltre tre settimane ed evolutasi in penetrazione sul territorio, muterebbe in occupazione. Precisamente di quasi tutto il Libano Meridionale e, così, di gran parte della più vasta zona a maggioranza sciita. Se il “Partito di Dio” risponderà colpendo la capitale economica dello Stato ebraico, la risposta sarà evidentemente esponenziale. E se coinvolgerà davvero le strutture politiche della sovranità del Libano, ogni idea di soluzione, non equivalente ad una resa, sottoscritta dal governo di Siniora sarà impraticabile.

In verità, l’Amministrazione Bush sembra essere in serie difficoltà nel mantenere la sua linea di temporeggiamento a favore del consolidamento di una “soluzione militare” sul terreno da parte di Israele in Libano. E l’escalation annunciata nelle ultime ore della giornata di ieri potrebbe suscitare un mutamento repentino di atteggiamento. Che però, finora, non si è manifestato. Se non per l’intensificazione dei contatti di John Bolton, l’ambasciatore ultra neocon al Palazzo di Vetro, con il presidente di turno del Consiglio di Sicurezza, il francese de la Sabliere, auspice il rappresentante della Gran Bretagna sempre più premuta in Europa a smarcarsi dalla posizione di pura fedeltà bushiana che ormai pesa anche a Blair.

Le pedine, effettivamente, si sono in qualche modo mosse. Ne avevano testimoniato, nel primo pomeriggio di ieri, l’annuncio del ministro degli Esteri francese, Philippe Douste-Blazy, che un nuovo testo di Parigi era stato presentato come possibile risoluzione urgente; e la simultanea conferma da parte di Bolton prima, e di McCormack per il Dipartimento di Stato Usa poi, che anche Washington prevedeva già per oggi una possibile deliberazione del Consiglio di Sicurezza.

Poi, però, con il trascorrere delle ore, dallo stesso Dipartimento di Stato si è ricominciato a parlare di «prossimi giorni». Ed è arrivata anche la notizia che per domenica è previsto un summit alla Casa Bianca fra la segretaria di Stato, Condoleezza Rice, e il presidente George W. Bush «per fare il punto sulla crisi». Realmente, è successo che sono arrivate le comunicazioni ufficiali dei vertici militari israeliani: prima, sull’avvenuta realizzazione di una «fascia di sicurezza» di «circa 7 chilometri in profondità» nel territorio libanese, da parte delle 6 brigate di Tsahal impegnate da tre giorni in furiosi combattimenti nei villaggi sciiti (e cristiani) della zona di confine; poi, da parte del comandante del fronte settentrionale, il generale Golan, dell’intenzione di più che raddoppiare questa stessa «fascia», e che lo stato maggiore era in attesa dell’autorizzazione del governo ad un aumento delle unità ingaggiate. Nel frattempo, il portavoce di Hezbollah faceva sapere che «nessun cessate il fuoco potrà interessare il Libano fino a che anche un solo soldato israeliano sarà sul suo territorio»; e che dunque la milizia del movimento, Resistenza Islamica, avrebbe continuato a combattere fino ad un completo “pull-out” di Tsahal.

Tutto questo, prima ancora degli annunci incrociati serali di Peretz e Nasrallah, non poteva che costituire un’ipoteca sulle prescrizioni previste nel progetto di risoluzione dell’Onu oggetto di trattativa. In esso si indica infatti, anzitutto, «una immediata cessazione delle ostilita», precondizione per un cessate il fuoco permanente e per una «soluzione duratura» fra «tutte le parti coinvolte», tale da «garantire la sovranità» sia del Libano che di Israele.

Ma, a questo fine, la «cessazione delle ostilità» quale situazione deve lasciare sul campo? Quanta parte della sovranità libanese deve restare, nel frattempo, violata? E come preservare, in questa condizione, la stessa Israele dagli attacchi missilistici di Hezbollah, intensificatisi come mai nelle ultime 48 ore e che ieri hanno fatto ben otto morti in poche ore tra i civili in Galilea? Questi nodi premettono ad altri, più decisivi sul lungo periodo: quelli, cioè, dell’attuazione delle «condizioni» previste per un cessate il fuoco definitivo, mutuate dal “piano di pace” presentato dal premier libanese Fuad Siniora ispirato a sua volta dai “sette punti” proposti dal presidente del Parlamento, Nabih Berri, due settimane fa. Tra queste, il rilascio dei due soldati israeliani presi prigionieri da Hezbollah all’inizio della crisi, e una «soluzione» per i detenuti libanesi in mano ad Israele. Condizioni rese già più complicate dalla cattura di ufficiali della milizia sciita da parte dei parà di Tsahal tre giorni fa nel blitz Baalbek.

Ma, soprattutto, la bozza di risoluzione ha raccolto consenso fino ad un’ultima parte: quella riguardante la futura «forza di stabilizzazione», di natura «internazionale» e sotto «mandato delle Nazioni Unite», da dispiegare nel Libano del Sud. Questa zona, si dice nel testo, dovrebbe essere «disarmata» nel frattempo, ad eccezione dell’esercito libanese. Che lo stesso primo ministro Siniora ha garantito ieri essere pronto a schierarsi fino al confine, sostituendo dunque le linee di Hezbolaah: ma a condizione di un «ritiro completo» israeliano, e dell’«immediato» cessate il fuoco.

Ora, questo quadro al momento è assai difficile da delineare sul campo. Soprattutto, il governo libanese medesimo, nella sua articolata composizione che vede forti le presenze filo-siriane e ben tre i ministri dello stesso “Partito di Dio”, non ha sciolto le riserve sul consenso ad accogliere un contingente multinazionale. Intanto, resta il problema della qualità, della missione e delle regole d’ingaggio di questa forza eventuale. Ed è proprio su questo punto che, ancora ieri sera, le posizioni francese e statunitense non avevano trovato accordo. Perché gli Usa cercavano ancora di contemperare l’esigenza di un compromesso con i diktat del premier israeliano Olmert: che aveva chiesto per la terza volta in due giorni una «forza di combattimento», e «sufficientemente robusta e deterrente». Ed a questo stadio della discussione, restìo a sottoscrivere soluzioni ambigue si è manifestato invece il presidente francese Jacques Chirac: che pone come condizione di fondo per il varo della risoluzione, ma ancora più per la forza di stabilizzazione in cui Parigi è pronta a inviare 5mila uomini e ad assumere i compiti di comando, un «accordo politico fra tutte le parti».

Così, benché la Cnn abbia anticipato un’intervista a Rice in onda nella notta in cui la segretaria di Stato parla di «stretta collaborazione con la Francia e con altri paesi del Consiglio di Sicurezza» non che di «necessità» di arrivare «alla fine delle ostilità», questo traguardo resta indeterminato nel tempo. In termini di differenza tra ore e giorni, Che però, adesso, diventa decisiva.

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