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Israele riapra i negoziati

Publie le venerdì 29 ottobre 2004 par Open-Publishing

di Luisa Morgantini

Ariel Sharon, ieri, nel giorno della commemorazione dell’assassinio di Yitshak Rabin (ucciso il 4 novembre, corrispondente a ieri, nella data ebraica), si è scusato per avere usato toni duri durante il governo di Rabin, anche se ha sostenuto che, malgrado le differenze, sia durante la vita politica che militare, tra loro ci fosse rispetto ed amicizia.

I familiari di Rabin, tra cui la figlia Dalia, hanno detto di sentirsi vicino e di comprendere "Arik Sharon" perchè «oggi stiamo riascoltando le voci dell’incitamento all’odio: i rabbini non sono cambiati e sui muri riappaiono i graffiti che chiamano sangue». E, infatti, nelle strade di Gerusalemme, martedì notte sono apparse scritte che dicevano: «Abbiamo assasinato Rabin, assassineremo anche Sharon». Non c’è dubbio che la popolazione israeliana è divisa ed impaurita dal grande spettro della lotta intestina. Quando Rabin venne ucciso, Lea Rabin, la vedova, non esitò a dire che Ygal Amir non era solo e incolpò Sharon per aver aizzato i coloni di cui è stato "il padre" ( anche se bisogna pur dire che chi inaugurò il primo insediamento nei territori occupati del ’67 fu Shimon Peres).

Oggi la minaccia è contro Sharon che propone l’evacuazione di 21 colonie a Gaza e il ritiro delle truppe nel 2005. Nel 1995, Peres e i laburisti, di fronte alle possibilità di uno scontro interno e violento tra israeliani, optarono per il patto di unità con il Likud, mettendo in primo piano l’unità interna rispetto alla scelta di continuare il processo di pace iniziato con gli accordi di Oslo. Con l’assassinio di Rabin e l’unità tra le forze laiche e religiose israeliane si mise termine a quella che era stata una sfida per la quale sarebbero state necessarie tutte le cure e le volontà politiche per portare a termine le varie fasi dell’accordo di Oslo. Anche per fare in modo che così, come previsto, nel 1999 si discutesse e si trovasse l’accordo per la realizzazione dello Stato palestinese con Gerusalemme capitale condivisa da due popoli e due stati, ma anche per il futuro degli insediamenti e il ritorno dei profughi.

Nulla di tutto questo accadde. La realtà, durante i diversi governi succedutisi da quelli di unità nazionale ai laburisti o del Likud, fu la crescita degli insediamenti e della confisca delle terre palestinesi, la chiusura degli abitanti della Cisgiordania e Gaza tra i vari check point, l’impedimento di entrare a Gerusalemme insieme ad una politica di "deportazione silenziosa" dei palestinesi di Gerusalemme Est.

Il ritiro da Gaza, se avvenisse, non sarebbe una cosa negativa: meglio non avere soldati intorno che bombardano e uccidono. Ma lasciamo la retorica di Sharon generale ed ora uomo di pace, una narrativa che si sposa con quella che dice che le destre hanno sempre fatto gli accordi, Sharon come Begin. Stampa e tv in questo sono penosi: quasi nello stesso tempo in cui Sharon faceva il suo discorso alla Knesset, a Khan Younis venivano uccisi 17 palestinesi - tra di loro bambini - le case continuavano ad essere demolite. Non a caso nell’area a sud di Gaza, dove al confine di Rafah con l’Egitto l’esercito continua la sua opera di pulizia etnica, i palestinesi non avranno nessuna sovranità sul confine e, per potersi muovere da Gaza, resteranno alla mercè degli umori dei soldati israeliani. Da una parte Sharon dice di ritirarsi da Gaza, con la menzogna delle «concessioni coraggiose» facendo dimenticare a tutti che occupare militarmente un popolo ed una terra è totalmente illegale e criminale, dall’altra continua imperterrito a costruire, nella Cisgiordania, il muro, mentre la Corte di giustizia dell’Onu ne ha sentenziato la demolizione.

Ma ciò che è fondamentale è che la sorte dei palestinesi viene decisa da altri, senza la loro partecipazione. Quello di Sharon è un ritiro unilaterale: è vero che nel suo discorso alla Knesset ha sostenuto che ciò non è alternativo ai negoziati, ma intanto non fa negoziati ed oltre a tenere incarcerato Arafat dice che da parte palestinese non vi sono interlocutori per la pace. L’autorità palestinese invoca la ripresa dei negoziati.

In tutto ciò i grandi colpevoli sono i responsabili internazionali. Il quartetto che ha lanciato la Road Map - un vuoto involucro che palestinesi ed israeliani, come Yossi Beilin e Yaser Abed Rabbo insieme ad altri, hanno riempito con l’iniziativa di Ginevra - è totalmente assente. Sempre di più voci israeliane e palestinesi per la pace dicono che la soluzione può essere offerta da un intervento esterno, perchè non vi è parità tra occupati ed occupanti. Naturalmente si aspettano i risultati delle elezioni Usa il 3 novembre, Clinton a nome di Kerry ha già rassicurato che la politica di appoggio ad Israele non cambierà. Ma come dice Jonathan Shapira, il pilota israeliano che ha detto "No", amare Israele significa finirla con l’occupazione militare israeliana.

Noi dobbiamo fare assumere all’Unione Europea una posizione decisa, si riaprano i negoziati, si sospendano gli accordi di associazione con Israele. I movimenti, i partiti, tutti devono avere al centro la soluzione di questo conflitto e la fine di 37 anni di occupazione militare. Almeno un po’ di giustizia è possibile e necessaria.

http://www.liberazione.it/giornale/041028/archdef.asp