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L’ADDIO DEL GIGANTE

Publie le venerdì 24 novembre 2006 par Open-Publishing

Qual è il motore d’un film? L’idea, la sceneggiatura, l’interpretazione, la regia, la fotografia? Tutto. Perché il set è quel perfetto carillon, quella grande famiglia che Truffaut ricordava ne “La nuit américaine”. Talvolta però esistono ruoli incarnati da giganti e questi lasciano segni indelebili. Nel caso dell’attore Philippe Noiret, scomparso dopo una lunga malattia, ci troviamo a ripetere il sostantivo usato da Jacques Chirac ed essere per una volta in sintonia col gran conservatore di Francia.
Un gigante sprigiona energia, attira su di sé tutta l’attenzione possibile e riesce a sopperire ad altre mancanze. Prendiamo alcuni indimenticabili momenti di celluloide lasciati da quest’attore che, forte d’un’interpretazione assolutamente naturale, riusciva a sostenere l’intera storia narrata. C’importava qualcosa della scenografia - tutta interni o dehors d’una villa - ne “La grande abbuffata” di Ferreri? Personalmente direi di no. Era la psicologia dei protagonisti (con Noiret c’erano altri giganti come Mastroianni, Tognazzi, Piccoli) a dare corpo all’assurda - ma neanche tanto - vicenda di suicidarsi con cibo e sesso. Degna metafora lanciata da Ferreri contro una società putrescente da decadenza trimalcioniana.

Ricordiamo per caso la fotografia di “Amici miei”? Nient’affatto. Eppure le “zingarate” dei protagonisti e il cinismo del caporedattore Perozzi, cui Noiret dava faccia e animo beatamente oscuro, offrivano nerbo a uno degli ultimi lazzi di commedia all’italiana.
Italiano era Noiret come francese poteva essere Mastroianni. Due attori e uomini di gran fascino che vestivano i panni di personaggi sospesi fra realtà e incanto. Intrisi di vizi e pregi, tristi o ironici, distaccati eppure non indifferenti, cinici ma per nulla canaglie. E sognatori. Come l’Alfredo, maturo cineoperatore che trasmette al bambino Cascio di “Nuovo Cinema Paradiso”, la passione per il mito della settima arte. Gli fa da padre putativo in quello spicchio di vita che è il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, età dell’oro per imparare ogni cosa e soprattutto per introiettare l’utopia e serbare nell’uomo che verrà il ‘bimbo nerudiano’. Con quell’interpretazione anche l’untuosa retorica di Tornatore diventa digeribile.

E che dire del Noiret-Neruda de “Il postino” che mostra anche i limiti narcisi del personaggio famoso? Capace comunque fa comprendere con limpida semplicità all’umile e affascinato Mario (Massimo Troisi) cos’è la poesia “La poesia non si spiega, per afferrarla bisogna dare spazio alle emozioni“. Pagine talvolta oleografiche che l’attore di Lille riusciva a stemperare con una recitazione talmente naturale da apparire perfetta. E l’unica possibile.
Alla formazione teatrale aveva aggiunto la scuola di René Clair (“Tout l’or du monde”) e Louis Malle (“Zazie dans le métro”) fino a stabilire con Tavernier (“L’horloger de Saint-Paul”, “Le juge et l’assassin”, “Coup de torchon”), Claude Chabrol (”Volto segreto“), Patrice Leconte (“Tango” e “Les grands ducs”) ottimi connubi per raccontare storie di soggetti bonari la cui esistenza viene stravolta da vicende esterne o da ambiguità interiori. Continuamente il cinema rigenera se stesso, nascono nuovi attori però la dipartita di figure nobili di questo mondo è uno di quei lutti che creano voragini difficilmente colmabili. Come la scomparsa del gigante Philippe.

Enrico Campofreda, 24 novembre 2006