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L’Erba del vicino…
di Michele Bono
Quel pranzo da Mc Donald. Me lo immagino. Nel luogo della mattanza delle bestie, le bestie. Se la realtà è sempre più violenta del cinema, “Pulp Fiction” in confronto sembra un documentario sulle giovani marmotte, una scampagnata nei meandri della crudeltà, il sottile confine tra il verosimile e la fantasia. Un horror che solo i coniugi Romano hanno potuto strappare dalla geniale mente di Quentin Tarantino e trasporlo nell’insospettabile quotidianità della provincia italiana.
Immagino la scelta dei menù. Big mac king size per lo spazzino paffutello, mac chiken normale per “l’isterichella”, quella che non apriva nemmeno le finestre per non far entrare la polvere. Immagino il chiacchiericcio insopportabile di fondo del fast food, la confusione che si aggrovigliava ai ricordi sbiaditi, il sorriso complice di chi si era riconquistato una tranquillità dovuta. Essenziale.
Immagino i discorsi fatti a letto prima di prendere la fatidica decisione, la scelta delle armi da usare. Immagino la rampa di scale fatta col cuore in gola, la martellata in testa ad una donna che stramazza a terra esanime, la coltellata in gola ad un bambino che sarebbe dovuto morire bruciato vivo, non soffocato dal proprio sangue dopo mezz’ora di agonia, senza nemmeno uno strillo.
Immagino tutto il tempo passato a ripulire la scena del delitto con quella meticolosità con cui Rosi lucidava ogni giorno il suo piccolo regno fatto di ordine ed isolamento, le mani gonfie di Olindo che ammassavano i peluche del bambino per dare fuoco alla casa, le fiamme che divampavano diabolicamente oltraggiando ulteriormente i cadaveri fracassati da una pazzia pura come l’acqua di una sorgente d’alta montagna.
Immagino tutto. Non il dolore. Non le palpitazioni del cuore di Azouz e Carlo, marito e padre l’uno, padre e nonno l’altro. Non immagino le espressioni dei loro volti dopo aver ricevuto la notizia né gli incubi che li hanno rivoltati come marionette, di notte, nei rispettivi letti d’insonnia. Mentre il mondo, indifferente, continuava ad andare avanti. Mentre le emozioni schiacciavano il torace nella morsa della rassegnazione.
Ciò che è successo quella mattina dell’11 dicembre in un paesino sperduto in provincia di Como è la sintesi di una folle normalità. Fatta di liti condominiali, di paranoie da casalinghe alienate, di bambini che fanno rumore, strani vicini, discriminazioni razziali, complicità coniugali, pregiudizi, incomprensioni, problemi con la droga, solitudine, depressione, manie, proiezioni metafisiche della felicità. Vite normali.
La strage di Erba è la fotocopia rovinata della nostra società contemporanea. Fuori confusione, competizione, precarietà, insicurezza, frenesia, stress. Dentro, nelle anime degli individui, solitudine, disillusione, frustrazione, schizofrenie latenti, stanchezza, estenuazione. La compensazione della vertigine esistenziale è tutta nelle mani del singolo, che in qualche modo deve farcela. Deve.
Rosi aveva sopperito con l’ordine. Una perfezione estetica maniacale che racchiudeva un microcosmo di follia. Una bolla di sapone asettica, sterile, lontano dal caos. Quel caos che le dava alla testa, che la faceva diventare matta. E allora piegava il copri divano fino a levigarlo come il marmo; serrava le tapparelle per cacciare quegli acari che lei immaginava al microscopio, grandi come un bambino; lucidava il pavimento fino a cancellarlo.
Olindo invece la amava mestamente. Lui, il sempliciotto con le guance rosse ed il sorriso ebete. Il galeotto del proprio matrimonio, quello che per accontentare la moglie farebbe di tutto. Anche una strage. E allora ha scelto le armi adatte, il momento giusto; ha tranquillizzato la sua dolce metà fino a farla addormentare; le ha lasciato il ruolo più gratificante: uccidere quel bambino che tanto la angustiava.
Sarebbe troppo facile limitarsi a condannare due mostri degenerati come loro. Troppo facile. Scrivere bigliettini di condanna sulla porta d’ingresso delle vittime, invocare la vendetta dei detenuti del carcere che accoglieranno i due sanguinari, inneggiare alla pena di morte, lasciare un nuovo peluche a Youssef davanti casa. Quel peluche con cui non giocherà mai.
Mi chiedo quante persone, invece, abbiano riflettuto veramente sulla vicenda. Quanti si siano soffermati a pensare, accantonando gli istinti e usando la ragione. Quella ragione che ci rende diversi dalle bestie, non da Rosi e Olindo, che per quanto ne vogliano i più intransigenti sono esseri umani. Talmente umani da far accapponare la pelle, da suscitare disgusto.
Prima di tutto vorrei soffermarmi sul luogo. La benestante Como, nella Brianza produttiva, laboriosa. La Brianza che ce l’ha duro, che odia i terroni ignoranti ed invadenti, i musulmani infami, i rumeni rapinatori, gli zingari delinquenti e ladri, Roma ladrona, l’Italia oltre il Po, la mafia tipica del sud. Quella Brianza che odia tutti. Che a forza di odiare coltiva odio. E raccoglie odio. Morte.
Non voglio generalizzare, ma il fatto che negli ultimi anni le stragi più atroci, compiute nella freddezza più malata, siano state compiute al nord, deve far riflettere. Cosa si nasconde dietro quel benessere, quell’orgoglio silente, isolato, individualista, freddo, tipico della Padania? Credo solitudine, ignoranza, intolleranza verso la diversità, frustrazione, alienazione, stanchezza. Di vivere, forse.
In secondo luogo, “La Padania”. Il giornale. L’organo di stampa di un partito italiano che offende la costituzione, che ha tra i suoi principali obiettivi quello di dividere fisicamente il paese, che non riconosce la bandiera. Un quotidiano che semina ogni giorno odio ed intolleranza, che non ha esitato ad accusare della strage il classico “islamico di media età, corporatura ed altezza”. Il classico dei classici. Parola di Borghezio.
È inaccettabile che un manipolo di politicanti mentalmente balbuzienti continui ad avere il diritto di poter dire ciò che vuole, sempre e comunque, contro tutto e tutti, impunemente. Inaccettabile che tali insulsi individui usufruiscano di fondi statali per finanziare una miserrima attività propagandistica. Soldi di tutti. Ma poi mi si dirà che in fondo hanno una rappresentanza politica reale, che rispecchiano il volere di una parte degli italiani. Italiani che non vogliono essere italiani. Quelli che…io l’Italia gliela dividerei veramente…
Infine la vergogna più grande. L’ansia da speculazione del dolore. Senza rispetto né per chi muore né per chi resta. L’atteggiamento speculare di chi, comune mortale, si ammassa davanti ai cancelli del famigerato condominio di via Diaz per rubare una lacrima, una smorfia di dolore, un urlo…e quello di chi, potente della comunicazione di massa, punta le telecamere contro una tragedia. La stessa tragedia di cui fra qualche giorno non si parlerà più, ma che ora fa audience…
Si parla tanto del diritto dei politici a non essere intercettati, in modo che possano portare tranquillamente avanti i loro loschi affarucci da furbetti del quartiere. Si parla del diritto alla privacy, del rispetto delle diversità, dei diritti individuali. Si parla di tutto. E di niente. Mentre i soliti sciacalli fanno finta di commuoversi, chiedono arrogantemente, suppongono. Suppongono di supporre. In nome del diritto all’informazione. Ah…che buon sapore.
Poi mi volto. Il rumore di sottofondo mi dà fastidio. Mi toglie la concentrazione. Faccio per abbassare il volume senza alzare lo sguardo, ma cedo alla tentazione. C’è Mentana. Intervista Azouz. Si parla di perdono. Perdono per chi?
“Due cose mi sorprendono: l’intelligenza delle bestie e la bestialita’ degli uomini”
Bernard Berenson (1865-1959, storico dell’arte)