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L’INFILTRAZIONE NEOFASCISTA DELLE CURVE

Publie le giovedì 15 febbraio 2007 par Open-Publishing
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L’INFILTRAZIONE NEOFASCISTA DELLE CURVE - II parte
Dalle "guerre tribali" all’inimicizia verso la polizia

L’enfasi riservata all’arresto del militante di Forza Nuova per gli scontri allo stadio di Catania culminati nella morte dell’ispettore di polizia rischia di essere fuorviante. Negli ultimi anni si è continuato a morire di calcio ma la polarizzazione politica sembra rivestire un ruolo calante rispetto ad altre dinamiche. Certo, la curva etnea è una delle più nere di Italia – nella città in cui già il Msi negli anni ’70 superava il 20% – e gli ultrà rossoblu un’altra volta si erano resi responsabili (Messina 2001) di una “morte da stadio”.

Numerose le coincidenze significative: anche in quel caso si trattava di un derby (come ad Avellino: dove a restare vittima degli scontri con la polizia fu un giovane napoletano, nell’autunno 2003), ci fu l’uso di bombe carta, ad essere accusato del delitto fu un minore. L’osservatorio della polizia sottolinea come le curve più violente siano oggi al Sud: Catania, appunto, ma anche Napoli e Salerno. E in uno nei numerosi blitz che si sono succeduti in questi giorni contro altre tifoserie responabili di comportamenti violenti è emerso un interessante spaccato della nuova realtà ultrà: nei Niss (Niente incontri solo scontri) ci sono anche figli della buona borghesia e non solo gli emarginati dei quartieri della morte quotidiana. Il gruppo è nato dall’aggregazione di dissidenti dai vari gruppi storici. L’inchiesta è uno sviluppo della precedente retata che nel giugno 2005 mandò in galera nove ultrà della Sanità (alcuni già condannati con i riti alternativi). Ma le violenze sono continuate, come il lancio di petardi durante la partita con il Frosinone nello scorso dicembre, che portò alla squalifica del San Paolo. Bene, nelle perquisizioni ai 13 ultrà del Niss, con il solito armamentario di mazze e botti sono stati sequestrati come cimeli le foto che immortalano numerosi scontri con le forze dell’ordine, dal lancio di petardi contro i poliziotti all’incendio di una gazzella dei carabinieri. Ed è questa la nuova frontiera del calcio ultrà: il poliziotto primo nemico. Ma almeno a Napoli questa scelta non si colora di “nero” né è immediatamente riconducibile a una volontà politica della “camorra” di estendere il fronte di scontro con le forze dell’ordine. Infatti, quando nei giorni scorsi, i giovani dei centri sociali che animano il movimento di lotta per il lavoro hanno tentato di promuovere un coordinamento unitario contro le nuove misure repressive che colpiscono la presenza organizzata negli stadi quanto nellle manifestazioni di piazza, si sono sentiti rispondere da un esponente dei Mastiff, un gruppo storico nato e cresciuto nella periferia settentrionale ad altissima densità camorristica, che “ognuno si fa le sue”.
Minor attenzione ha meritato, invece, sull’onda securitaria che ha travolto il Paese e il sistema calcio per lo choc emotivo del primo poliziotto ammazzato allo stadio da un ultrà (mentre era già successo il contrario a Cremona e a Trieste ma nessuno sembra ricordarsene) un dato più significativo: che le violenze sono in calo, già prima del decreto Pisanu.
Anche nelle politiche di ordine pubblico – dopo l’incapacità manifestata a mettere mano allo smantellamento delle più odiose leggi del centrodestra – il governo Prodi si dimostra assai riottoso a fare qualcosa di sinistra. Probabilmente non c’è proprio un lucido disegno ma sicuramente la spinta alla “privatizzazione” della security è un segnale inquietante della pervasività crescente del controllo sociale mentre la improvvida decisione della “serrata” degli stadi accentua la spinta alla definitiva trasformazione del calcio in un “prodotto televisivo”.
Sia chiara una cosa: la “fascisteria” ha sempre un peso rilevante in alcune delle curve più importanti di Italia ma a comprendere quello che di interessante sta succedendo nel movimento ultrà ci aiuta piuttosto il ricorso ad altri strumenti dell’analisi sociale, come l’uso della categoria della concorrenza mimetica e delle dinamiche di ricambio della leadership in movimenti carismatici e poco strutturati.
Alcuni dei leader delle “curve nere” negli anni ’90 hanno oggi compiti importanti di direzione politica nei principali gruppi della destra radicale: in Forza nuova il patavino Caratossidis è il coordinatore nazionale, l’interista Canu il segretario lombardo, nella Fiamma Tricolore Castellino e Chiavenato sono segretari provinciali rispettivamente a Roma e a Verona. Ma dal basso nuovi gruppi emergenti spingono. Per una sigla prestigiosa come la giallorosa Distinzione e tradizione che si scioglie decimata dai Daspo (il divieto amministrativo di accesso alle manifestazioni sportive) si vanno a formare piccoli aggregati più o meno spontanei che si caratterizzano per un più basso tasso di affermazione ideologica e un uso esplicito della violenza (le “lame”) per occupare lo spazio liberato. Canu è rimasto invece vittima di una duplice, contrapposta pressione. Da una parte dagli altri leader della curva nerazzurra, preoccupati dagli effetti di un eccesso di caratterizzazione politica e della conseguente visibilità, come ostacolo agli “affari” milionari che il controllo di una curva assicura (il giro dei biglietti omaggio oggi è gestito da Franchino Caravita, inquisito negli anni ’80 per un accoltellamento ma poi divenuto socio con un leader della curva rossonera nell’affare del merchandising), dall’altra dalla nascita di una nuova formazione di skin, gli Irriducibili, che si erano aggregati a “Spazio libero”, anomalo centro sociale della zona Bovisa, smantellati dopo le indagini per un raid nella zona dei Navigli concluso con l’accoltellamento di alcuni giovani del centro sociale Conchetta: le ammissioni di qualche indagato e l’uso massiccio delle intercettazioni ambientali e delle analisi tecniche sui cellulari hanno permesso di ricostruire l’operatività di una banda di strada, dedita allo scontro con gli avversari, tanto politici (autonomi, anarchici) quanto di stile (punk, grabber) o di curva (milanisti). Che anche quando portano le “mazzate” a casa – come è successo a Bergamo – vedono i compagni che li hanno picchiati non menarsene vanto per non incorrere nei rigori giudiziari: e così se la possono prendere solo con i camerati meno coraggiosi che non hanno saputo reggere la durezza dello scontro.
Il ruolo “d’ordine” degli altri leader della curva nerazzurra emerge in diversi episodi: dal lancio di fumogeni contro il portiere del Milan (il “negro” Dida) nel derby del 2005 alla comparsa di una croce celtica in curva durante la partita con il Livorno, la squadra “rossa” per eccellenza che si è rivelata la cartina di tornasole per verificare il tasso di “fascisteria” delle curve avversarie. E del resto è un antico sapere poliziesco (Liborio Romano che all’arrivo di Garibaldi arruola la camorra nella Guardia nazionale per assicurarsi il controllo della piazza) che in certe situazioni è meglio coinvolgere i “capi” per il controllo delle “truppe”.
Da tutt’altri problemi è attraversata la curva rossonera: dopo lo scioglimento della Fossa dei Leoni (l’unica sigla di “sinistra”) una nuova aggregazione di destra, i Guerrieri ultras, sgomita per guadagnare spazio. E in questo contesto sotto tiro sembrano essere finiti i gruppi storici: a ottobre un esponente dei Commandos è stato gambizzato in un supermercato a Sesto San Giovanni mentre un leader delle Brigate Rossonere è da due settimane in prognosi riservata dopo un pestaggio in curva. I primi due arrestati hanno tentato di buttarla su “questioni di donne”, ma le indagini si sono indirizzate sulla “guerra” per il controllo del business della curva. E ora ci sono sei latitanti per tentato omicidio. Ma già in precedenza era affiorato l’intreccio tra ambienti malavitosi e ultrà rossoneri. Uno degli arrestati per la rissa di Genova in cui è ammazzato “Spagna” paga duramente la circostanza sfortunata di essere stato l’ultimo a vedere in vita Alessandro Alvares, il militante dell’area politica rosso-nera (era fuoriuscito dal Fronte Nazionale di Tilgher con il gruppo che ha dato vita all’Associazione Limes): accusato dell’omicidio dell’amico sarà assolto al processo. Resta sullo sfondo – come ipotesi di movente – un traffico d’armi mentre il coinvolgimento nell’inchiesta dello storico leader militare di Avanguardia nazionale, Mimmo Magnetta, conferma la continuità dell’ambiente. Già nel 1997, nei pressi del ristorante Maya, gestito da Nico Azzi (condannato per la mancata strage sul treno nel 1973) un gruppo di ultrà milanisti aveva accoltellato un consigliere comunale di Rifondazione. Poiché tutte queste vicende giudiziarie non hanno esito è opportuno non arrivare a conclusioni definitive, ma al di là del rilievo penale è evidente la contiguità ambientale tra vecchia guardia delle destra radicale milanese e giovani leoni della curva rossonera.

(2-continua)

http://www.carmillaonline.com/archives/2007/02/002143.html#002143

Messaggi

  • L’INFILTRAZIONE NEOFASCISTA DELLE CURVE - I parte: 1995-2000

    di Ugo Maria Tassinari*

    [Questo testo è tratto dalle pp. 430-444 di FASCISTERIA. I protagonisti, i movimenti e i misteri dell’eversione nera in Italia (1945-2000) (ed. Castelvecchi, 2001). Nelle prossime puntate Tassinari lo aggiornerà fino ad oggi.]

    [...] È proprio il movimento ultrà l’altro luogo di riaggregazione dei naziskin, anche se forse è più semplice parlare di un gruppo umano polimorfo, le cui vicende si intrecciano tra violenza politica, devianza sociale e criminalità comune. Pochi giorni prima del fermo del leader dei naziskin per l’attacchinaggio pro Priebke, il pm di Brescia Paola De Martiis aveva concluso l’inchiesta per il raid squadristico al margine dell’incontro calcisticio Brescia–Roma del 20 novembre 1994, segnata da ben 19 arresti, chiedendo il rinvio a giudizio di “Boccacci+26” per reati che comportano pene fino a un massimo di 15 anni e che vanno dall’apologia di fascismo alle lesioni gravissime e alla resistenza aggravata, dalla detenzione e dal porto d’arma all’attentato alla pubblica sicurezza.

    La maggior parte degli elementi di prova a carico degli ultrà è costituita da fotografie e riprese televisive, che l’accusa usa con criterio estensivo: ogni partecipante all’assalto è stato ritenuto ugualmente responsabile senza valutare il grado di effettiva partecipazione. Il saluto romano, gli inni cantati, lo schieramento a falange non appena la banda è scesa dal pullman costituiscono per il pm manifestazioni usuali del disciolto partito fascista. Un’applicazione estensiva di questa valutazione giuridica porterebbe a denunciare ogni domenica alcune decine di migliaia di persone per violazione della legge Scelba. L’intero comando della spedizione punitiva, programmata da mesi, è costituito da militanti neofascisti: con Maurizio Boccacci figurano Alfredo Quondamstefano, Corrado Ovidi, Paolo Consorti, Massimiliano D’Alessandro e Giuseppe Meloni. Due di questi, Meloni e D’Alessandro, sono riconosciuti come leader di una “ciurma” ultrà, l’Opposta fazione, un centinaio di “duri e puri”, slogan preferito “meno calcio e più calci”. Meloni detto “pinuccio la rana” ha trentun anni e un passato militante. Ex consigliere circoscrizionale del MSI nel centro storico, supervotato ma costretto a dimettersi per i precedenti di violenza politica. Opposta fazione fa base nella sua pizzeria al Tiburtino, “Mezzanotte e dintorni” da cui parte la spedizione punitiva, condotta da lui e Boccacci. Accusato di aver accoltellato Selmin nega e rivendica l’amicizia con il sottosegretario agli Interni Gasparri (che due anni prima aveva organizzato il convegno Una patria chiamata curva). A Radio Incontro Bruno Ripepi detto “il comandante” il giorno dopo gli scontri di Brescia informa gli ultrà che “Pinuccio la rana” è stato ferito alla testa con 30 punti di sutura. Quando la magistratura allarga l’indagine ai rapporti tra società e capi ultrà il centravanti Andrea Carnevale racconta che la sua presenza a Trigoria era abituale. Massimiliano D’Alessandro, detto “er polpetta”, ha 25 anni ed è un ex di MP. Tra i suoi precedenti una rissa allo stadio nel 1990 ma anche l’arresto nel 1994 per diverse rapine col taglierino a banche e uffici postali. Lo accusano di aver bastonato per primo Selmin. Nega di essere fascista e di avere partecipato agli scontri. Si difende: sono cardiopatico. Giuseppe Meloni quando si è sposato ha rinunciato alla militanza politica ma non alla leadership di Opposta fazione. Le prime condanne per il raid di Brescia arrivano nel marzo 1996: Armando Sagrestani (20 mesi) Alfonso Argentino (18 mesi) Luigi Falchi (un anno) patteggiano la pena e godono di un sostanzioso sconto, visti i capi di imputazione (lesioni, resistenza, detenzione di armi ed esplosivo ma anche apologia di fascismo). Un mese dopo due giovanissimi tifosi calabresi della Juve sono accoltellati dopo la partita da quattro ultrà giallorossi, all’uscita della curva Nord.
    La repressione non piega gli irriducibili ultrà giallorossi che – del tutto indifferenti alle ragioni del tifo anche più esasperato – si distinguono nei festeggiamenti per la promozione del Bologna partecipando a un raid nel capoluogo emiliano che si conclude con l’accoltellamento di un algerino e l’aggressione di altri otto extracomunitari e di un italiano. Sono 11 i bolognesi arrestati per tentato omicidio e lesioni aggravate da motivi razzisti. Allo stadio spicca uno striscione giallorosso, marchiato con un simbolo di destra: Una grande amicizia, un grande ritorno: onore. Dopo la partita si scatena la caccia al nero. La vittima più grave, Jachine Sabi, 26 anni, aveva la bandiera rossoblù addosso: un rene bucato da una coltellata, la faccia gonfia di botte. L’esistenza di un piano preordinato è evidente: le aggressioni ai danni degli extracomunitari si consumano in quattro distinti punti della città. L’allenatore del Bologna Ulivieri, fama di rosso, un milione donato ai carabinieri per risarcire un auto sfasciata dagli ultrà sbotta: «Meglio chiudere la curva». A fine luglio scattano le manette per quattro ultras di Opposta fazione: Giulio Moretti, 23 anni, figlio di un ingegnere con lussuosissima casa, il già noto Corradetti, Fabio “Sudo” Giglio, disoccupato di 25 anni, Roberto “Robertino” Fuligni, barista di 28 anni. Nel corso delle perquisizioni sono sequestrati fumogeni, bombe carte e pallottole calibro 9. I quattro erano già stati coinvolti nelle indagini sul raid di Brescia e membri di Opposta fazione erano stati identificati dalla polizia in occasione della partita Bologna– Brescia, a conferma di una organica alleanza con i Mods emiliani, un’altra banda di ultras fascisteggianti e di un conto aperto con i bresciani. La curva bolognese è un’altra tifoseria con una spiccata attitudine violenta: quando alla tradizionale carica data dai derby si aggiunge l’odio politico per gli ultrà rivali, la miscela esplode. E’ il caso dei rapporti con i modenesi, uno dei pochi club in cui il tifo è ancora egemonizzato dagli “autonomi”. Gravissimi gli scontri nel derby dell’aprile 1995, in serie C: gli ultrà calano su Modena in assetto di guerra. Alle 11 i Mods assaltano il centro sociale 22 aprile, nei pressi dello stadio: una rissa che coinvolge 100 persone ed è già finita quando arriva la polizia «Cretini, fascisti e cretini – commentano i giovani autonomi – Tutte le volte la stessa cosa. I bolognesi vengono prima per fare a botte. Ma stamattina sono arrivati con le spranghe e i coltelli. Ci hanno sparato con le pistole lanciarazzi, tirato i sassi e le pile. Che cosa volessero non si sa. Il Bologna è oltretutto già in B». I modenesi non si limitano al lamento ma replicano attaccando il corteo dei bolognesi arrivati con il treno delle 15, nonostante le forze dell’ordine abbiano mobilitato un uomo per ogni dieci spettatori (240 contro 2500, compresi vecchi e bambini: è come se per il derby romano si schierassero 7–8mila agenti). Bilancio finale: due poliziotti feriti, 5 ultrà finiti in ospedale e 8 arrestati (tre minorenni denunciati) per la solita sfilza di reati da scontro di piazza. Per tutti scatta il divieto per due anni di frequentare gli stadi. Lungo è anche il contenzioso con la tifoseria fiorentina, considerata “rossa”, da quando un lancio di molotov contro il treno, all’ingresso della stazione di Firenze, ridusse in fin di vita un quatordicenne bolognese, Ivan Dell’Olio, nel giugno 1989. Nell’ottobre 1996 il presidente del Bologna, Giuseppe Gazzoni Frasca, confortato dal presidente di AN, Gianfranco Fini, tifoso rossoblù, protesta con la polizia: come mai nello stadio blindato gli ultrà viola in trasferta hanno potuto introdurre e lanciare una decina di razzi contro la curva rossoblù dopo il gol di Batistuta? Il questore parla di razzi folcloristici ma una dozzina di spettatori finiscono in ospedale feriti da oggetti lanciati e alcuni tifosi fiorentini sono denunciati per porto di mazze e coltelli. Nel giugno 1995 il collettivo autonomo viola Valdarno, 17 ultrà tra i 20 e i 29 anni, operai e disoccupati, sono denunciati per associazione a delinquere. Il disegno criminoso unitario si era manifestato in una lunga catena di episodi: incidenti fuori e dentro lo stadio, l’incendio dell’auto di un calciatore, la lettera di condanna a morte a un ultrà juventino, una rissa selvaggia nel grill di Montepulciano, in 50 contro una trentina di romanisti. I pullman viaggiavano su corsie opposte e il luogo dello scontro è la galleria prensile che congiunge le due stazioni di servizio. La maxirissa è registrata dall’impianto di sicurezza. Sei i romanisti leggermente feriti, fermati tutti i partecipanti: e per i tifosi viola salta la trasferta a Foggia. Nel marzo 1996 il pm Fleury ordina un’altra serie di perquisizioni nelle sedi di Collettivo viola e di Viola korps. A un ultrà di San Giovanni Valdarno è sequestrato un machete. La fama di sinistra non preclude una forte pulsione securitaria: nel marzo 1996 due spacciatori sorpresi in servizio sotto la curva, alla fine di Fiorentina– Sampdoria, sono pestati a sangue. Uno, italiano, aveva appena scontato il divieto di accesso allo stadio: col socio libanese chiede soccorso alle volanti ma i giustizieri circondano i poliziotti per continuare il pestaggio. L’attitudine violenta dei tifosi viola sarà punita con cattiveria dagli ultrà della Salernitana, nell’ottobre 1998: inferociti dai pestaggi subiti a Firenze dopo una partita senza storia (finita 4 a 0 per la Fiorentina) approfittano di una clamorosa svista regolamentare per vendicarsi. A brevissima distanza dagli incidenti, infatti, è previsto che la Fiorentina, campo squalificato per le intemperanze dei tifosi, giochi la partita di ritorno di Coppa Uefa a Salerno. La sede non può essere cambiata nonostante gli evidenti rischi di ordine pubblico. L’esito agonistico è scontato: la squadra toscana ha già vinto in Svizzera e conduce alla fine del primo tempo ma il lancio dal settore dei tifosi locali di una bomba carta contro il quarto uomo determina la perdita della partita a tavolino e la beffarda eliminazione dei viola, puniti da un’interpretazione ottusamente letterale del principio della responsabilità oggettiva del club ospitante. La polizia, sotto accusa per gli insufficienti controlli, individua dai filmati 5 presunti responsabili, entrati allo stadio forzando il varco disabili e denuncia un parcheggiatore abusivo di 24 anni, senza precedenti penali. Il questore si giustifica: avevamo disposto gli agenti per scongiurare risse tra ultrà (e infatti ai viola erano stati sequestrati coltelli, bastoni e uno striscione offensivo: Ma che gemellaggio, terroni di merda e non sono mancate scaramucce, con 4 salernitani feriti). Pochi giorni dopo, riconosciuto in fotografia, è arrestato un liceale diciottenne, Antonio Avossa: si difende sostenendo che lui non è mancino, come il lanciatore e che poi l’ordigno è stato scagliato dall’anello superiore della tribuna, cinque o sei metri più in alto di dove si trovava con i suoi amici.

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