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L’Ultimo apra la porta

Publie le sabato 18 febbraio 2006 par Open-Publishing

15 Febbraio 2006

L’Ultimo apra la porta

Marco Travaglio

Ragion di Stato» e «altre sedi». Sono le parole chiave della requisitoria dei pm di Palermo che l’altroieri hanno messo la parola fine, per quanto riguarda l’accusa, al processo al generale Mori e al capitano De Caprio (alias «Ultimo») per la mancata perquisizione del covo di Riina poche ore dopo l’arresto del boss il 15 gennaio 1993.

Un processo che è un caso di scuola per distinguere le responsabilità penali da quelle morali, politiche e istituzionali.

Sul piano penale, i pm Ingroia e Prestipino hanno chiesto al Tribunale di assolvere i due ufficiali dal favoreggiamento a Cosa Nostra e di dichiarare commesso ma prescritto l’altro favoreggiamento: quello che consentì ai mafiosi della famiglia Sansone, che avevano in carico la latitanza di Riina, di portar via la moglie e i 4 figli del capomafia, di svuotare l’appartamento da cima a fondo, di farlo ritinteggiare e ristrutturare, il tutto nella certezza di non esser arrestati, né filmati, nè osservati.

Ma a ben guardare, sul piano penale, il processo nasceva morto: quando i primi pentiti parlarono dei torbidi retroscena di quella clamorosa defaillance del Ros era già il 1997 e non c’era più tempo per celebrare tre gradi di giudizio prima che scattasse la prescrizione per il favoreggiamento semplice. Salvo dimostrare che Mori e Ultimo non perquisirono il covo per fare un favore alla mafia. Il che è indimostrabile. Anzi, come han detto i pm, quella scelta non fu fatta per «ragion di mafia», ma per «ragion di Stato». Traduzione: un possibile servizio reso a quei pezzi di Stato che avevano «trattato» con Cosa Nostra durante e dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, dunque potevano temere che il blitz portasse alla luce qualche traccia di quell’inconfessabile trattativa. Titolo del film: «Non aprite quella porta».

Giornalisticamente, ci sono elementi sufficienti per avanzare questo sospetto. Si sa che le trattative ci furono. Ma, penalmente, non possono essere attribuite con certezza a questo o quell’imputato. Bene han fatto i pm a tener fuori dal tribunale ciò che non è documentalmente dimostrato, limitandosi a evocare la «ragion di Stato».

Ma, mentre si chiude la questione penale, il caso non si chiude, anzi si apre sul piano politico, istituzionale e anche morale. Non ci sono solo le aule di giustizia per accertare la verità, come ha ricordato Antonio Ingroia evocando le «altre sedi» che, 13 anni dopo, dovrebbero finalmente fare chiarezza. O almeno liberare gli ufficiali dall’imbarazzante consegna del silenzio che li ha costretti per anni ad arrampicarsi sugli specchi con versioni risibili o fasulle, che han reso quella scelta investigativa vieppiù incomprensibile e sospetta.

È assurdo sostenere, come fanno Mori e Ultimo, che mantenere il servizio di osservazione e di teleripresa dinanzi al covo dopo la cattura di Riina era ormai «impossibile» e comunque «non sarebbe servito a nulla». Anche perché le due affermazioni si contraddicono l’una con l’altra. Se davvero era impossibile restare lì davanti a osservare e filmare quel che avveniva nella casa del boss appena arrestato, anche un bambino imbranato l’avrebbe subito perquisita, prima di andarsene.

E oggi, se Riina teneva carte importanti in cassaforte, queste sarebbero in mano allo Stato, anziché alla mafia di Bernardo Provenzano, che potrebbe usarle come assicurazione sulla vita. Se invece l’appostamento fu annullato perché ritenuto inutile, chi prese quella decisione meriterebbe una perizia psichiatrica, visto che restando lì si sarebbero potuti avvistare, e dunque catturare, i fratelli Sansone e i loro uomini, cioè i favoreggiatori di Riina. I quali invece agirono indisturbati, svuotando la casa e scampando all’arresto.

Se il tribunale accoglierà la richiesta dell’accusa, non sarà un’assoluzione, come immancabilmente racconteranno tg e gran parte dei giornali. Ma conterrà una prescrizione per un reato commesso. E, chiuso il processo, bisognerà chieder conto non più ai due ufficiali, che presumibilmente obbedirono a ordini superiori.

Ma a chi (le «altre sedi») quegli ordini impartì e poi nascose la mano. La «ragion di Stato», se può essere un’attenuante per i due ufficiali, è un’aggravante per lo Stato. Da quello Stato (che nel ’92-’93 non si chiamava ancora Berlusconi) i parenti delle vittime delle stragi attendono da 13 anni una risposta. Semprechè esista ancora uno Stato.

BANANAS