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L’ambasciatore dei canestri

Publie le martedì 13 febbraio 2007 par Open-Publishing

L’ambasciatore dei canestri
Garth Joseph è uno dei venti cestisti americani che giocano in Iran, dove il basket fa proseliti tra scuolee università. Gli ultrà del Saba Battery di Tehran impazziscono per lui, il Dipartimento di stato statunitense no
Michele Giorgio
La persona che più si avvicina al ruolo di possibile ambasciatore statunitense a Teheran è un newyorkese alto 2 metri e 17 centrimetri, noto in Iran come il «re dei tabelloni» perché vanta una media di 14 rimbalzi catturati a partita. Ex studente del College of Saint Rose di Albany, con una breve apparizione in Nba (qualche spicciolo di partita giocata con i Denver Nuggets e i Toronto Raptors), Garth Joseph è il più noto cestista americano tra quelli che giocano in Iran. Con la sua presenza in quel paese, crea non pochi imbarazzi agli Stati Uniti che, come ci ha ricordato anche la candidata democratica Hillary Clinton, non esclude di poter attaccare le centrali nucleari iraniane e di spazzare via a suon di bombe la Repubblica islamica. Nessun imbarazzo invece per i caldissimi giovani tifosi della sua squadra, il Saba Battery di Teheran, in testa al girone B della SuperLega iraniana con un record invidiabile di 14 vittorie su altrettanti incontri: durante le manifestazioni politiche scandiscono «Morte a Bush», «L’energia atomica è un nostro diritto» e, invece, dopo la palla a due urlano «Ambasciatore Garth, ambasciatore Garth» per incitare il gigante Usa a tenere lontani dal canestro i centri avversari. «Quando giochi all’estero cambia tutto - ha raccontato Garth a un giornale americano - non contano più la nazionalità, la razza, la religione, sei solo una stella, un campione e tutti ti ammirano».
Gli iraniani amano lo sport e sono pazzi per il calcio, la lotta e ora anche il basket, discipline dove raccolgono qualche soddisfazione in campo internazionale. La pallacanestro in particolare è sempre più popolare tra i giovani e i successi ottenuti di recente dai club locali nei tornei mediorientali (simili alla Eurolega) stanno contribuendo a diffonderla nelle scuole e nelle università. Qualche settimana fa erano tutti davanti alla tv ad ammirare le 7 bombe da tre del neozelandese Pero Cameron, stella del Mahram, che hanno fatto saltare la zona tre-due dei siriani del Jalaa, avanti per quasi tutto l’incontro ma incapaci nell’ultimo quarto di bloccare la scatenata guardia avversaria. Per avere una prova dell’entusiasmo che la palla a spicchi genera tra gli iraniani è sufficiente seguire il match dell’anno al palazzo dello sport «Azadeh» di Teheran tra il Saba e gli storici rivali del Peykan, team nel quale non militano giocatori americani ma che qualche anno fa fu il primo club iraniano ad ingaggiare stranieri. «E’ una passione crescente, incontenibile che attira atleti di vari paesi, soprattutto americani, che sanno di trovare nella Superlega iraniana un ingaggio interessante e compagni di squadra di buon livello», spiega Mahin Gorgy, giornalista sportiva e massima esperta di basket in Iran. Anche quest’anno una ventina di cestisti americani hanno trovato un posto nelle squadre iraniane. Alcuni guadagnano fino 20mila dollari al mese. Molto meno dei 400mila dollari garantiti ad un rookie della Nba ma molto di più di quelli che otterrebbero in gran parte delle squadre europee o in altri paesi del Medio Oriente. Qualche tempo fa è circolata la voce di un possibile trasferimento in Iran anche di colui che è considerato il più forte talento arabo di tutti i tempi, la guardia libanese Fadi Khatib, che ai mondiali dello scorso anno ha messo a segno una media di 19 punti, ricevendo gli applausi del più grande di tutti, Michael Jordan, che lo ha definito un giocatore da Nba per le sue penetrazioni incontenibili nelle difese avversarie. Khatib alla fine ha rifiutato, perché ha altre ambizioni e perché non è facile lasciare una città piacevole come Beirut.
Invece Joseph Garth che talento non è - discreto difensore, ottimo rimbalzista ma mano piatta in attacco - in Iran ha trovato la sua dimensione dopo aver girato i campionati di mezzo mondo per garantire un buon livello di vita a moglie e figli lasciati a New York. Poco nostalgico di pub e party, interessato alla lettura e a conoscere cultura e tradizioni persiane, ha subito conquistato gli ultras del Saba. Il suo tono di voce pacato e il suo desiderio di «confrontarsi» con gli altri, lo hanno consacrato «ambasciatore» statunitense a Teheran. «Alla gente e ai miei compagni di squadra cerco di chiarire che ci sono troppi stereotipi sugli americani e che bisogna conoscere l’altro prima di giudicarlo, questo naturalmente vale anche per chi vive negli Usa - ha spiegato - in ogni caso non sono qui per combattere una battaglia politica. Tutti abbiamo problemi, anche in America. Nessuno è totalmente libero, persino in una democrazia». Il suo amico e collega John Carter (Iowa College), che la lasciato l’Iran nelle scorse settimane, non aveva lo stesso spirito di adattamento. In interviste a vari giornali stutunitensi aveva dichiarato di passare la vita tra la palestra e il suo appartamento ben rifornito di alcol (ottenuto illegalmente e pagando cifre astronomiche).
I funzionari del Dipartimento di stato Usa in ogni caso non hanno tempo e voglia di leggere storie di cestiti bocciati in patria e che ora si guadagnano da vivere collaborando con «l’asse del male». Alla fine del 2006 le autorità federali hanno avviato una indagine sulla violazione da parte di questi giocatori dell’embargo in atto contro l’Iran e che impone ad ogni cittadino americano di chiedere un permesso speciale prima di poter «offrire servizi» di qualsiasi tipo in quel paese. Non è chiaro se gli accertamenti siano ancora in corso ma la minaccia di sanzioni fino a 50mila dollari ha scoraggiato non pochi dal seguire la strada intrapresa da Garth. Alcuni hanno scelto di non rinnovare i contratti. «Poi, quando le acque si sono calmate, gli agenti hanno ricominciato a proporre ai loro clienti statunitensi un contratto in Iran e molti sono tornati, merito anche degli ingaggi relativamente elevati per questa parte del mondo», spiega Mahin Gorgy. Garth in ogni caso non aveva fatto una piega di fronte alle minacce del Dipartimento di stato. Lui in Iran ci sta bene e, forse, non rifiuterebbe un invito a cena di Ahmadinejad.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/10-Febbraio-2007/art58.html