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L’attacco al lavoro ovvero la morte della mente
di Marvelli Lorenzo
Finalmente i governi Prodi e Berlusconi hanno gettato la maschera.
Sottoposti alla pressione del capitale hanno cercato di far credere di rappresentare gli interessi di tutti; ci sono riusciti a fatica per un bel po’, spesso chiedendo agli stessi sindacati ed ai partiti di sinistra di reggere il gioco.
Hanno sostenuto coraggiosamente che la trasformazione del lavoro ovvero il passaggio dal fordismo al postfordismo, dall’operaio massa al lavoratore della conoscenza, almeno in questa fase di crisi globale, avrebbe dato vantaggi all’impresa e svantaggi ai lavoratori ma poi...
Poi invece nulla!
Tutti indistintamente hanno avuto la faccia tosta di chiederci sacrifici perché ci hanno detto che solo dal nostro sangue si sarebbe potuto ripartire.
Ci hanno chiesto di firmare in definitiva una cambiale in bianco educandoci al consumo sfrenato allo scopo di distogliere i nostri pensieri dal bisogno e dai desideri per indirizzarli invece verso la futilità di una vacanza in un centro Alpitour, dell’acquisto di un videofonino, di uno schermo al plasma
E’ su questa menzogna che siamo stati governati, o meglio, addomesticati e resi docili, costretti al lavoro senza più riposo mentre i salari, come in una lenta e irreversibile emorragia, perdevano il loro potere d’acquisto ma non il loro potere simbolico presso banche ed agenzie finanziarie che, sicure d’essere risarcite, ci hanno gonfiato le tasche di soldi facendoci credere ricchi per un attimo per poi passare al riscatto facendoci sentire dei poveri cristi pieni di debiti.
Questa menzogna che negli ultimi anni ha preso il nome di rappresentanza ci ha raccontato che la soluzione dei nostri problemi risiedeva assolutamente ed esclusivamente nel politico e nelle sue forme istituzionali e non invece nel sociale, direttamente lì nel basso ed in maniera autonoma ed autodeterminata.
Piano piano ci siamo sentiti un masnada di mentecatti incapaci di una pur minima organizzazione: alla solidarietà, al collettivo, alla possibilità di fare insieme, abbiamo presto sostituito l’individualismo che nei luoghi di lavoro si chiama meritocrazia, concorrenza, carrierismo ma anche gabbie salariali, premi di produzione legati alla produttività, straordinari...
Gli abbiamo creduto e per questo ci siamo divisi credendoci ognuno nemico dell’altro, credendoci in perenne competizione.
Con la benedizione dei sindacati, con le capriole della sinistra di governo nel tentativo di raccontarcela utilizzando la terminologia trascendente dalla finanza come fosse una sorta di religione indiscutibile.
Dovevamo essere lavoratori disciplinati e docili, lavoratori più poveri e più solerti per concorrere al superamento delle crisi economiche che si sono succedute una dietro l’altra mentre, di pari passo, il profitto delle imprese cresceva esponenzialmente anche se questo, nessuno ce lo stava dicendo.
Ora però, la verità sopravanza la menzogna: il capitalismo finalmente maturo non ha più bisogno di spacciarsi per quello che non è e il capitale chiede ai governi che lo hanno fino ad oggi promosso dappertutto e sostenuto a spada tratta anche con la guerra preventiva e duratura, di calare la maschera e di presentarsi per quello che sono realmente.
L’attuale governo, l’ultimo dell’ era berlusconiana, inserisce nella finanziaria la sanatoria sulle cause di lavoro precario, un provvedimento che impedisce alla magistratura di chiedere la stabilizzazione per quei lavoratori precari nei confronti dei quali, le aziende hanno avuto comportamenti illegittimi. I lavoratori non stabilizzati si dovranno così accontentare d’ essere risarciti dall’azienda con un modesto indennizzo e quindi tagliare la corda.
Questo vuol dire che se fino a poco tempo fa la precarietà aveva un limite, ora non sarà più così realizzandosi il sogno dell’impresa ovvero quello di poter disporre di lavoratori precari in eterno, poco o per nulla sindacalizzati, molto ricattabili e sottopagati.
Cosa succederà nelle fabbriche, nei call center, nelle aziende della grande distribuzione, nella scuola, nell’Università?
Cosa succederà negli ospedali, agli infermieri assunti a tempo determinato ed in attesa di una qualche stabilizzazione?
Oggi le ASL, con la nuova norma del governo, potranno evitare di organizzare concorsi tenendo personale precario a vita, sostituendolo ed indennizzandolo via via ed in pratica mantenendo un esercito di schiavi a servizio nelle corsie.
La differenza tra un infermiere precario ed uno stabilizzato non è solo una manciata di euro alla fine del mese. Ci mancherebbe altro!
La differenza sta nell’impossibilità per i precari, proprio per il fatto d’essere lavoratori della conoscenza, di immaginare il nursing liberamente mettendo al centro di questo processo mentale il paziente ovvero un corpo-di-bisogni e non altro.
E’ proprio intervenendo su questo potenziale di immaginazione della mente infermieristica che si riporta il lavoro, da opera d’ingegno, a semplice servizio.
L’assalto alle forme di lavoro libero e creativo nasconde proprio la necessità, direi l’ossessione, di dominarlo in tutti i suoi aspetti, di controllarlo, di impedirgli ogni possibile collocazione al di fuori dei binari prestabiliti che sono quelli dettati dal capitale.
E’ questo il punto: fare degli infermieri dei lavoratori asserviti al capitale sterilizzando la loro capacità creativa di cura.
Questo nuovo proletariato della conoscenza ha quindi l’obbligo di riappropriarsi delle proprie risorse mentali se vuole smettere di servire, se vuole continuare ad immaginare processi assistenziali lontano dai dispositivi di potere sulla sanità e sui corpi.
Di fronte a quest’ultima iniziativa del governo sulla precarietà, la riappropriazione dell’intelletto infermieristico può realizzarsi non soltanto dentro gli ambiti istituzionali e attraverso l’azione dei collegi, delle organizzazioni sindacali, dei circoli di cultura infermieristica e delle riviste ma anche e soprattutto forse, data l’urgenza, attraverso la mobilitazione spontanea, l’azione diretta, la diffusione di materiale informativo e tutte quelle pratiche che mettono in gioco la propria responsabilità, il proprio coraggio, il proprio desiderio di trasformare l’esistente.