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L’obiezione di coscienza nel mondo

Publie le giovedì 6 marzo 2008 par Open-Publishing

Obiettori in divisa
Pur arruolati nell’esercito, di fronte agli orrori della guerra rifiutano di
combattere: il fenomeno dei soldati obiettori è in espansione ed è
trasversale a culture, religioni e scelte politiche. Di solito finiscono in
carcere, ma in alcuni casi il destino è più cruento

http://www.refusingtokill.net/
«A me non è lecito prestare il servizio militare, poiché sono cristiano. Non
posso fare del male». Siamo nel 295 d.C. e a parlare, davanti al tribunale
di Roma, è Massimiliano, poi condannato alla decapitazione per il suo
rifiuto di fare il soldato (e per questo canonizzato dalla Chiesa). Se da
allora le guerre non hanno mai smesso di insanguinare il mondo, anche quel
«no» ha continuato a risuonare nella storia. Fino ai giorni nostri. Molte le
motivazioni, religiose o laiche, ma sempre legate al primato irriducibile
della propria coscienza sulle follie del «sistema».

Nel marzo 2006 il Pentagono ha registrato almeno 8mila disertori per motivi
di coscienza tra le fila dell’esercito Usa dall’inizio della guerra in Iraq.
Ma il fenomeno è esteso in molti altri Paesi, dalla Russia alla Turchia, da
Israele all’Europa fino alla Cina. Ed è spesso sottostimato.

Diversi i tempi e le modalità del rifiuto della guerra: ci sono gli
obiettori di coscienza, i renitenti alla leva, i disertori. Tutti rischiano
pene che, a seconda dei Paesi, possono arrivare anche a qualche anno di
carcere o addirittura alla pena capitale nei regimi più oppressivi. Lo
stesso Regno Unito ha cominciato a stringere le maglie della giustizia con
l’Armed Forces Act del 2006, che minaccia l’ergastolo per i cosiddetti
refusnik (termine entrato nel linguaggio corrente, in Israele e non solo,
per indicare i soldati che, per motivi di coscienza, rifiutano di obbedire
agli ordini), anche se per ora i provvedimenti sono più blandi: un tenente
medico della Raf, Malcolm Kendall- Smith, è stato condannato a otto mesi per
il suo rifiuto di recarsi in Iraq.

SEGNALI DI INSOFFERENZA
Fatto sta che, dopo il sostegno britannico alla «guerra infinita»
nordamericana, i segnali di insofferenza sono aumentati, tanto che in Scozia
(regione di radicate tradizioni militari) il tasso di reclutamento è calato
del 30%. Dall’altra parte dell’oceano, dopo l’invasione irachena, centinaia
di soldati Usa sono fuggiti in Canada e non si contano i rifiuti a
imbracciare il fucile, come spiega Giorgio Riva, attivista di Payday, rete
internazionale a sostegno dei refusnik. «Ehren Watada è stato il primo
ufficiale a finire davanti alla corte marziale, nel febbraio 2007, per
essersi rifiutato di partire. Dopo una campagna internazionale in cui ha
svolto un ruolo determinante la madre, Carolyn Ho, con il nostro supporto,
il processo è stato dichiarato nullo. Ma ora Watada rischia un secondo
processo e una condanna a sei anni di carcere. A fine novembre sono 2.077 i
militari in servizio che hanno firmato l’Appeal to Redress, per il ritiro di
tutte le truppe e delle basi americane dall’Iraq».

Secondo un rapporto del settembre 2007 del Government Accountability Office,
fra il 2002 e il 2006 negli Usa sono state presentate 425 domande di
obiezione di coscienza. «Il numero basso può essere spiegato con l’iter
procedurale lungo e complesso - rivela Stephanie Westbrook, attivista di Us
Citizens for Peace & Justice, associazione di cittadini americani con base a
Roma -, che ha una probabilità non superiore al 50% di essere approvato. Il
risultato è che molti soldati scelgono di disertare. Si tratta di un
fenomeno in crescita, probabilmente superiore a quanto viene dichiarato,
grazie anche all’esempio di coloro che si sono mostrati pubblicamente e
all’appoggio della società civile. Quest’ultima ha un ruolo fondamentale,
sia per dare coraggio ad altri militari che stanno pensando di intraprendere
la stessa strada, sia per attirare l’attenzione della stampa, con la
speranza che sotto i riflettori dei media i soldati vengano trattati meglio.
Anche il gruppo Iraq Veterans Against the War ha deciso di fare del sostegno
agli obiettori una sua priorità».

DAL CURDO AL CINESE
Tra i militari obiettori sparsi per il mondo ci sono cristiani di varie
confessioni, testimoni di Geova, musulmani e anche molti non credenti che
non condividono gli obiettivi della guerra o che semplicemente si rifiutano
di uccidere, soprattutto se si tratta della propria gente. È il caso di
Halil Savda, turco di etnia curda, che ha deciso di non servire in un
esercito che non esita ad attaccare il suo popolo torturando, stuprando e
uccidendo intere famiglie, o a sgomberare villaggi per far posto a
megaprogetti idroelettrici.

«Gli obiettori veri e propri non sono tanti - continua Riva -: attualmente
sono poco più di 60. In Turchia è molto pericoloso dichiararsi tali, ma
quelli che lo hanno fatto hanno esercitato un’enorme influenza, nel Paese e
a livello internazionale. Abbiamo partecipato a campagne internazionali in
difesa di Mehmet Tarhan, Osman Murat Ülke e lo stesso Halil Savda. Ma gli
obiettori sono solo la punta di un iceberg antimilitarista: si valuta che
oggi circa 350mila uomini rifiutino la leva».

A registrare una massiccia renitenza alla leva è anche lo Stato di Israele,
che negli ultimi anni ha inasprito la repressione verso i refusnik. Una
prima ondata si ebbe nel 2001, quando venne diffusa una lettera aperta di
500 studenti delle scuole superiori, che dichiararono apertamente di non
voler fare il militare nei territori occupati. A quella lettera seguirono
oltre mille rifiuti sia all’arruolamento sia al combattimento. Due anni dopo
fece scalpore il caso dei «Cinque»: Haggai Matar, Noam Bahat, Adam Maor,
Shimri Zameret e Matan Kaminer. «Vennero ripetutamente incarcerati, per un
totale di due anni ciascuno, ma l’esercito fu costretto a congedarli nel
2004 - racconta Riva -. Ora l’esercito ha cominciato a mettere in prigione
anche alcune donne, come Laura Milo nel 2004 e Hadas Amit nel 2006, poi
entrambe congedate dall’esercito ».

Di segno decisamente diverso, ma comunque significativo, è il caso di una
ventina di militari israeliani politicamente vicini alla destra religiosa
che, nell’estate 2005, si sono rifiutati di eseguire lo sgombero della
colonia di Gaza ordinato dal governo di Ariel Sharon.

Spostandoci a Est, la feroce repressione del popolo ceceno registra tuttora
non poche defezioni tra le fila dell’esercito russo. Un articolo
dell’International Herald Tribune, del giugno 2005, rivela come nella patria
di Tolstoj non siano più del 10% gli uomini in età di leva a fare il
servizio militare. Si stimano a migliaia anche i disertori, che rischiano
fino a sei anni di carcere.

Minori informazioni vengono invece da regimi oppressivi come la Cina e il
Sudan, dove il rifiuto di sparare può essere punito anche con la morte. Voci
non confermate rivelano che l’ufficiale al comando del carro armato che si
fermò davanti al famoso manifestante solitario a Tienanmen, nel 1989, venne
poi giustiziato. In Sudan, da quando è al potere il governo islamico, uomini
tra i 18 e i 35 anni vengono reclutati con la forza e inviati nel sud del
Paese per massacrare la popolazione civile, come racconta un ex colonnello
dell’esercito sudanese: «Molti fuggono in Europa e negli Usa, pur di non
combattere. Ma chi disobbedisce agli ordini può essere ucciso
immediatamente».

Osman, il primo obiettore turco
Osman Murat Ülke (nella foto) è stato il primo obiettore turco a essere
incarcerato, dopo che nel 1995 bruciò la cartolina di leva. Venne
ripetutamente arrestato, condannato e incarcerato fino al 9 marzo 1999,
quando venne rilasciato con l’ordine di presentarsi al corpo. Ma nemmeno
stavolta obbedì. Dichiarato disertore, fu costretto a una vita
semi-clandestina, ma non fu nuovamente arrestato. Nel gennaio 2006 ha vinto
la sua causa contro lo Stato turco presso il Tribunale europeo per i diritti
umani, che ha accusato il Paese di averlo condannato a una «morte civile».
Il 6 giugno 2007 le autorità turche hanno dichiarato al Consiglio d’Europa
che avrebbero presentato in parlamento un disegno di legge per meglio
tutelare gli obiettori. Ma ciò non è servito a proteggere Ülke, che il 14
giugno ha ricevuto dal pubblico ministero dell’esercito turco l’ordine di
recarsi in prigione per 17 mesi. Attualmente è ancora libero. Attraverso il
sito www.refusingtokill.net è stata effettuata una raccolta di firme per
inviare una petizione al parlamento europeo e alle autorità turche, per
cessare la persecuzione degli obiettori in Turchia.
r.c.

L’odissea di Agustín
Dopo circa un anno di servizio nell’esercito statunitense, Agustín Aguayo,
immigrato messicano con cittadinanza a stelle e strisce, ha deciso di non
partecipare più ad azioni di guerra. Nel febbraio 2004 ha fatto domanda per
essere riconosciuto obiettore di coscienza ma, mentre aspettava l’esito, è
stato assegnato alla missione in Iraq dalla sua base in Germania. La sua
richiesta e il successivo appello sono stati respinti. Aguayo (nella foto)
si è però sempre rifiutato di partire per l’Iraq, pronto ad affrontare la
corte marziale e il carcere. Ma nel settembre 2006 il comandante militare ha
ordinato il suo immediato invio in terra irachena, anche in manette se
necessario. Il soldato ha deciso allora di fuggire dalla base e costituirsi
nuovamente alle autorità militari, questa volta in California, dove è stato
arrestato, ammanettato e rispedito in Germania. Aguayo è stato poi
condannato a 8 mesi di carcere, che ha scontato presso la base statunitense
di Mannheim, in Germania. È stato rilasciato il 18 aprile 2007 e da allora è
impegnato contro la guerra e contro il reclutamento dei giovani. r.c.