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L’origine della crisi economica attuale?

Publie le giovedì 9 ottobre 2008 par Open-Publishing
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L’origine della crisi economica attuale? Per esempio nell’ineguale distribuzione dei redditi

di Bruno Steri, direzione nazionale Prc

Le regolamentazioni del sistema bancario? Una iattura: «Il rischio è essenziale per la crescita economica (…). Una restrizione della libertà d’azione, essenza delle regolamentazioni economiche statali, o una pesante tassazione degli investimenti di successo, porta all’annullamento della volontà di agire degli operatori di mercato» (p. 302). Controllo del flusso dei capitali? Un residuo dirigista: «Durante i primi anni del dopoguerra, i flussi internazionali di capitale erano controllati (…), la pianificazione centrale era diffusa sia nel mondo sviluppato sia in quello in via di sviluppo, compresi alcuni rimasugli di dirigismo economico allora ancora preminente in Europa» (p. 16). La salvaguardia dell’industria nazionale?

Un virus ai danni di una sana attitudine competitiva: «Proteggere "tesori nazionali" dalle aggressioni della distruzione creativa o, peggio, della proprietà estera: si tratta di una pericolosa restrizione della concorrenza internazionale» (p. 303). Hedge fund ? Una speranza per il futuro: «Di grande rilievo è la rinascita del settore degli hedge fund (…). Gli hedge fund e i fondi di private equity sembrano rappresentare la finanza del futuro» (p. 408). Il credit default swap (Cds)? Una benedizione: «Il Cds è un contratto che trasferisce il rischio di credito verso terzi, a un determinato prezzo. Riuscire a ricavare profitti dalle transazioni dei prestiti e allo stesso tempo trasferire il rischio di credito è una benedizione per le banche e per gli altri intermediari finanziari. (…) Il vantaggio di maggiori regolamentazioni statali mi sfugge».

Chi volesse trovare ulteriori giudizi, tutti formulati sulla medesima lunghezza d’onda, può consultare il ponderoso volume L’era della turbolenza di Alan Greenspan, uscito nella sua versione originale all’inizio del 2007. Un libro non certo fortunato, almeno per quanto riguarda i suoi obiettivi di orientamento ideologico: una così clamorosa e repentina smentita da parte dei fatti non è cosa che capiti tutti i giorni. Ciò è tanto più degno di nota, in quanto l’autore non è uno qualsiasi, ma colui che ha retto le sorti del più potente istituto economico pubblico del pianeta, la Federal Reserve: dal 1987, anno in cui Ronald Reagan lo nomina a capo della suddetta banca centrale, fino al 2006.

Venti anni di governo del sistema finanziario statunitense (e mondiale) all’insegna dei principi del laisser faire , della convinzione che le istituzioni preposte a tale governo siano, debbano essere la concretizzazione della "mano invisibile" di Adam Smith e, quindi, ispirarsi alla massima secondo cui «Individui che commerciano liberamente l’uno con l’altro, seguendo i propri interessi, danno luogo a un economia in crescita e stabile» (p. 406). D’altra parte, una tale fiducia liberista è l’espressione dello spirito del tempo che ha soffiato forte negli ultimi due decenni, quello stesso che - alla fine del 2006 - faceva scrivere in un fondo dell’ Economist che «l’economia mondiale è a buon punto per registrare il suo miglior decennio in assoluto. Se continua a procedere di questo passo, batterà gli idilliaci anni Cinquanta e Sessanta.

Il capitalismo di mercato sembra funzionare bene».
Non è così: ora, anche i più riottosi non possono nasconderlo. L’autoregolazione del mercato non c’è (e non c’è mai stata); e chi ha teorizzato e messo in pratica lo smantellamento degli organismi di controllo sulle transazioni finanziarie è messo davanti al proprio fallimento. Negli ultimi anni, le autorità monetarie Usa hanno posto alcune delle premesse dell’odierno tracollo: a novembre del 1999, Clinton ratificava il Gramm-Leach-Bliley Act, con cui veniva drasticamente limitato il potere di controllo su banche di investimento e istituti di credito ipotecario; poco dopo, un emendamento alla finanziaria del 2000, il Commodity Futures Modernization Act, deregolamentava la compravendita di derivati (tra cui appunto quei Cds che Greenspan definiva una benedizione).

Successivamente, nel giugno 2002, George W. Bush annunciava l’intenzione di allargare il mercato dell’acquisto di case ai redditi bassi, ovviamente tramite il credito: di qui, il diffondersi di tassi-civetta (e variabili) e mutui no-doc (stipulati senza alcuna documentazione), nonché l’esplosione delle cartolarizzazioni di questi stessi mutui. Ora che il libero dispiegarsi del rischio speculativo ha prodotto i suoi frutti avvelenati, è gioco forza riscoprire le virtù dell’intervento statale. Non è una novità: lo Stato è sempre intervenuto a supporto del capitale. Come raccontava Pietro Grifone nel suo classico Il capitale finanziario in Italia, quel che chiamiamo "socializzazione delle perdite", attivata a fronte di un’avvenuta "privatizzazione dei profitti", è una formula coniata dall’antifascismo negli anni ’30 del secolo scorso, in polemica con l’interventismo statalista fascista.

Sull’ "analisi delle cause" il Prc e la sinistra anticapitalista nel suo complesso hanno dunque molto da dire (e da rivendicare). Non è da ieri che i fondi di Galapagos su il manifesto individuano nell’ineguale distribuzione del reddito l’origine strutturale dell’attuale crisi (non a caso approfonditasi a partire dallo scoppio della "bolla" sulle abitazioni). Su questo in buona sostanza concordano gli economisti della sinistra e di ispirazione marxista. In un contesto sociale caratterizzato da bassi salari, gli Stati Uniti hanno innescato una "bomba a tempo" (Brancaccio) lasciando che si estendesse in dimensioni abnormi il debito delle famiglie: un sostegno al consumo drogato, che ha finito per dare luogo ad insolvenze e pignoramenti. Ora il contagio finanziario va diffondendosi verso il nostro continente e si teme per la stessa economia reale: ovviamente, ad esser minacciati da un ulteriore ridimensionamento di quest’ultima, sono i soliti noti (lavoratrici e lavoratori, pensionati ecc).
Resta l’interrogativo sul che fare. Recentemente ( il manifesto , 3 ottobre 2008), il sociologo pacifista Johan Galtung ha proposto un piano in 10 punti, alternativo ai piani di salvataggio pagati a suon di centinaia di miliardi di dollari dalle tasche dei contribuenti.

Tra le misure suggerite figurano: un consistente intervento "keynesiano" per finanziare infrastrutture (scuole, ospedali ecc) e creare posti di lavoro; una massiccia redistribuzione del reddito attraverso la leva fiscale, che aumenti il prelievo ai ricchi e lo diminuisca ai meno abbienti; uno stop ai pignoramenti di case e un sostegno ai debitori insolventi per il pagamento dei mutui abitativi; l’abbandono al loro destino degli istituti bancari più esposti; la dichiarazione di illegalità della maggior parte dei nuovi prodotti finanziari; il taglio deciso delle spese militari. Si tratta di proposte condivisibili, ma - temo - difficilmente realizzabili nell’immediato: alla luce dello stato di debolezza delle sinistre, dubitiamo che una tale terapia d’urto possa ora vedere la luce e che si possa andare oltre il conseguimento di elementi di tutela sociale all’interno dell’impostazione prevalente.

Tuttavia anche l’enunciazione del piano suddetto può tornare utile, perché serve a tener presente che un’alternativa di sistema esiste ed è sollecitata dallo sprofondare del sistema vigente. Ma occorre aggiungere un undicesimo punto, rivolto ai nostri soggetti di riferimento: dare consenso alle forze anticapitalistiche, a cominciare - per l’Italia - da Rifondazione Comunista, se non si vuole che proposte come quelle sopra esposte restino, in tutto o in parte, lettera morta.