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L’orrore iracheno - Non è lecito il silenzio di fronte alla forca

Publie le lunedì 22 gennaio 2007 par Open-Publishing

di Pietro Ingrao

Il 30 dicembre del 2006, mentre stava per chiudersi l’anno feroce che aveva visto dilagare la guerra in Iraq, attorno all’alba, è stato impiccato Saddam Hussein, dittatore in Iraq, caduto nelle mani degli invasori americani nel corso del conflitto scatenato da Bush.

Vi fu un fantasma di processo e al termine il dittatore era stato condannato a morte. Mentre sembrava che l’esecuzione del reo fosse rimandata ad altro tempo, improvvisamente alla fine del dicembre 2006 il dittatore ora in manette era finito sulla forca con una esecuzione che era parsa una tregenda. Le scene grottesche dell’esecuzione avevano suscitato dubbi e nausea anche nell’Occidente lontano da Saddam.

Ci furono riserve sul disgustoso balletto che fu intrecciato intorno a quel tiranno smarrito e col cappio alla gola. Poi venne il secondo atto meno rumoroso ma altrettanto nauseante. Stavolta gli schiamazzi degli sbirri filo-americani furono meno rumorosi. La forca non ebbe quell’evidenza crudele che aveva assunto attorno al collo di Saddam. Gli sbirri furono meno rumorosi, il rotolare delle teste fu meno macabro. Ma pur sempre la forca dominava la scena, e l’annullarsi dei corpi. Qualche lagrima di pietà fu versata nel cauto Occidente, mentre persino nell’America di Bush montava un interrogativo, sempre più amaro. Eppure si può dire ci sia stata emozione: persino nell’Italia a suo modo a maggioranza - come dire? - progressista, e con forti nuclei pacifisti?

No. Non si può dire. Andando lontano con la memoria, quando uscivo dall’adolescenza e cercavo di distaccarmi dal marciume fascista la forca era simbolo di oppressione infame. E il capo che penzola, la schiena che si spezza, gli occhi, la mente che precipitano nell’assenza, il corpo che si affloscia, come uno straccio.

Questo disfarsi del corpo pensante era l’agire spietato della forca. Perciò la forca come momento della politica è di più che l’evocazione dell’uccidere: è la lotta all’avversario come umiliazione dell’umano. Mandare sulla forca è di più, assai di più che uccidere, è indicare al ludibrio l’Altro: è identificarlo come Bestia: e la guerra non solo come uccidere ma come annullamento dell’umano che è anche nell’avversario.
Forse anche per questo la guerra in Iraq si sta sempre più caricando di simboli. E porta sulla scena quella parola bruciante: la forca. Non la guardiamo riapparire sulla scena troppo tranquilli? E’ lecito il silenzio?