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L’ultimo Berlusconi:la P2,a suo tempo,ha fatto un buon lavoro
Publie le domenica 15 gennaio 2006 par Open-Publishingdi Furio Colombo
La storia del giorno è Berlusconi che va spontaneamente in Procura. Vuole denunciare «i rossi» come modo di aprire la campagna elettorale.
La commedia del giorno è la conferenza stampa convocata all’improvviso, di sabato, da un uomo abbandonato dai suoi alleati e spaventato da se stesso, che tenta concitatamente di cancellare un clamoroso errore minacciando e mentendo.
Il dramma del giorno è che l’Italia stremata e ormai priva di rispetto nel mondo è condannata a subire un triste varietà senza fine, una cartella clinica ingigantita e moltiplicata, in forma di notizia politica, su tutti gli schermi tv del Paese.
Occorre riconoscere che, a suo tempo, la P2 ha fatto un buon lavoro. Ha scelto con cura le persone che avrebbero continuato a danneggiare la vita pubblica italiana per un lungo periodo. Guai a citarli, perché si offendono a morte, e minacciano querele che, per prudenza, non presenteranno.
Il fatto che i telegiornali (salvo l’eroica resistenza del Tg3) continuino ad essere montati in modo da ripetere per sei-sette volte al giorno «le rivelazioni di Consorte» relegando in coda rade notizie delle confessioni di Fiorani e dei conti all’estero di comuni amici della maggioranza, serve per esporre - nella veste tragicomica di accusatori - persone che il Presidente Pertini si era impegnato a non ricevere mai più al Quirinale. Tocca ad essi una missione affidata loro sin dall’inizio dalla consorteria i cui piani stanno ancora svelandosi: diffondere, come una predicazione incessante, l’idea che siamo tutti corrotti, e che nessuno può vantare alcuna integrità morale.
È chiaro che chi non è corrotto non può stare al gioco, non può accettare di subirlo, neppure in nome delle buone maniere.
Non può, prima di tutto perché i corrotti, che altrove non potrebbero governare a causa del gigantesco conflitto di interessi che cresce di legge in legge, non possono chiamare in causa altri, prima di avere affrontato il loro passato o le loro imputazioni di fronte ai regolari tribunali della Repubblica.
C’è chi chiama questa legittima richiesta “giustizialismo”. Prima del governo Berlusconi e dello scempio perpetrato dalla sua succube maggioranza, si chiamava Costituzione Italiana.
Poi c’è la pensosa finzione della pretesa di superiorità, quando invece la parola detestata dal regime berlusconiano è “normalità” intesa come comportamento legale e conforme alle leggi.
Il fenomeno italiano, di cui il mondo è attonito testimone, non è che qualcuno si senta o si dichiari superiore, ma che un padrone-primo ministro che doveva rispondere di questioni personali e pre-politiche con la giustizia, sia diventato il capo di un attacco alla giustizia, giungendo alla accusa di anomalia mentale a carico di tutti i magistrati. E ha costretto la sua maggioranza (e dunque anche persone per bene) a scendere insieme a lui il gradino della illegalità. Non è protervia segnalare in tutti i modi la vasta illegalità in un Paese che vive sotto censura mediatica. È dovere morale e politico di cui ciascuno di noi dovrà rispondere a chi viene dopo. Che cosa avete fatto per impedire lo scempio di leggi “ad personam”, la devastazione di norme fondamentali della convivenza democratica sancite dalla Costituzione, la gestione affiancata di proprietà personali e di responsabilità di governo, il controllo delle notizie e dei giornalisti da parte del più vasto proprietario europeo di centri di distribuzione di notizie?
Avremo fatto poco, dovremo riconoscere alla fine, perché il potere mediatico del primo ministro-padrone non solo è forte, ma viene gestito senza scrupoli e circondato da ossequio. Come prova di ciò che stiamo dicendo è bene leggere Il libro nero dell’Italia di Berlusconi, di Felice Froio, straordinario e documentato atto d’accusa. Almeno potremo dire con orgoglio di avere denunciato la stagione illegale con la poca voce che resta a disposizione di chi è tagliato fuori sistematicamente da ogni canale di comunicazione di massa.
Non c’è superiorità morale di nessuno, certo. Ma c’è - e nessun Paese civile l’ha mai negato - l’inferiorità di chi stravolge la legge e ne abusa, profittando del potere, per fini e interessi personali. E di coloro che, anche in ossequio a vecchi legami e affiliazioni, si fanno avanti per denunciare chi denuncia, in modo da diffondere quanta più intimidazione è possibile.
Dopo la Direzione Ds di mercoledì 11 gennaio, che si è svolta con chiarezza, si è conclusa con fermezza e ha rivelato una esemplare compattezza morale e politica, molti penseranno che il petardo velenoso lanciato fra i cittadini all’inizio della campagna elettorale più drammatica, per l’Italia, dal 1945, abbia perso la forza del suo contagio.
Non ci conterei, perché i telegiornali continueranno, ora dopo ora, a tornare da capo, come se fosse accaduto solo ciò che il governo d’affari mediatico desidera isolare e ripetere ogni volta in modo che continui a diffondersi la predicazione: «Siamo tutti uguali, siamo tutti corrotti».
E tuttavia il ferreo controllo mediatico (il regime che impone di «prendere a calci in culo» persone libere e non assoldabili come Enzo Biagi, Michele Santoro, Daniele Luttazzi o Sabina Guzzanti) fa sì che notizie enormi della loro corruzione abituale passino solo per pochi istanti o in poche righe o non passino affatto nelle televisioni e sui giornali. Un primo ministro che firma il proprio condono di privato imprenditore evitando con 1800 euro di versare al fisco milioni di tasse, in base a una legge che egli stesso ha fatto votare, non sopravviverebbe neppure in Tagikistan.
Un primo ministro che, con aria lievemente disorientata, afferma di non sapere che il proprio fratello produce i decoder richiesti per accedere alla nuova televisione digitale imposta dalla sua legge, avrebbe forse giorni difficili persino in Russia, certo nella più filo-occidentale Ucraina.
Un primo ministro che si scopre socio d’affari (non simpatizzante, non tifoso, non collaterale, ma socio d’affari) con qualcuno dei principali scalatori di banche di cui si parla, occuperebbe le notizie d’apertura di qualunque Tg democratico e libero. Non Berlusconi. Lui è impegnato a passare, come un gerarca d’altri tempi, da uno studio televisivo all’altro, al piano di sotto e a quello di sopra, nella televisione che controlla direttamente e in quella in cui il controllo è esercitato per suo conto dal conduttore, luci e ambiente speciale, come nel Paradiso del caffè Lavazza, purché l’inquadratura e le domande siano a suo favore, secondo schemi concordati che sarebbero risibili in un Paese libero, ma che sono trattati come un normale fatto della vita, e anzi apprezzati come comunicazione elegante e un po’ sofisticata, in questa Italia spinta sotto la normalità non solo morale ma anche di soglia critica.
Per esempio, nello studio di Otto e Mezzo, Berlusconi conta sulla punta delle dita le “perdite” che ha dovuto subire a causa della politica. Tipicamente, nel linguaggio di un imprenditore, “perdite” sono minori guadagni, entrate mancate nelle proprie aziende, o il peso di debiti divenuti più grandi. Persino Berlusconi sa di non poter dire di avere perduto nel senso normale della parola, visto che la sua ricchezza personale è aumentata di molte volte durante la sua vita politica, e i suoi debiti si sono miracolosamente prosciugati. No, le “perdite” di Berlusconi sono - come dice lui stesso - parti di dominio non conquistate. Lui ha elencato il non poter controllare La Repubblica, L’Espresso, i giornali locali (Gruppo Espresso), la stessa televisione (La7) da cui stava parlando.
Berlusconi si duole di queste “perdite” come se si trattasse di feudi che gli spettavano. Dunque aveva un progetto. Se quel progetto si fosse avverato, Berlusconi avrebbe avuto un controllo mediatico quasi totale. Gli sarebbe mancato il Corriere della Sera anche perché, per ora, i suoi soci più o meno occulti, non sono riusciti nella scalata - pur tentata - a quel gruppo editoriale. Ma se Berlusconi si propone come il candidato ideale per liberare l’Italia (da lui governata) dai “rossi che hanno in mano tutto” (elenca le vittorie elettorali del centrosinistra nella immensa maggioranza dei Comuni e delle Regioni italiane come se fossero colpi di stato) è chiaro che continuerà a puntare sul controllo totale dei media.
Come spiega Andrea Manzella: «Il berlusconismo è un blocco politico che, senza rinunciare all’originale impasto affaristico, cerca di imporre un altro Stato, con un mutato racconto delle origini, con diversi rapporti internazionali e comunitari, addirittura della pace e della guerra, persino un’altra idea della libertà di religione degli italiani. In queste condizioni il tentativo di “sdoganarlo” per conseguita omogeneità non può riuscire neppure se si sollevasse contro l’opposizione una “questione morale” cento volte più grande». (La Repubblica, 11 gennaio)
Non dite che tutto si ripete nelle frenetiche esibizioni berlusconiane da studio tv, da programma a programma, tra inchini e ossequi “spontanei” di gruppi ansiosi di dipendenti televisivi.
Come sempre, Berlusconi è rabbioso, rancoroso, calunniatore. Come sempre è bugiardo nel rinvangare il passato, e nel continuo tentativo di ricavarne il suo elogio. È lamentoso nel ripetere l’elenco dei suoi presunti meriti. È patetico nel reclamare un riconoscimento internazionale, che non gli è mai venuto neppure da personaggi vicinissimi in affari, come Putin. È comico nell’inventare su due piedi cifre e dati per qualunque problema a cui non ha lavorato e che, comunque (bastano rapide verifiche, che ovviamente gran parte del giornalismo italiano omette) non conosce. E senza la mano pesante su giornali e televisioni non gli sarebbe possibile presentare prontamente, per qualunque fallimento (ovvero per tutti i suoi fallimenti) l’alibi di ciò che avevano fatto cinque, dieci, quindici trenta anni fa, coloro che hanno governato prima di lui.
Ma forse è bene fare attenzione a due aspetti del Berlusconi apparentemente vecchissimo di questa campagna elettorale. Del primo aspetto ci avverte Franco Cordero: «Nella guerra da corsa è un Satanasso. Il berlusconismo è egomania, rifiuto fobico delle norme, soperchieria, frode, ignoranza» (La Repubblica, 13 gennaio).
Nella scorreria si intravede uno spunto nuovo: il buttarsi all’aggressione diretta, senza alcuna preoccupazione o riguardo per la sua presunta immagine di statista, fino al punto da recarsi in Procura a denunciare l’avversario politico che sta ancora discutendo su modi civili, equilibrati, pacati di condurre la campagna elettorale, e proprio mentre il presidente della Repubblica raccomanda rispetto reciproco. Sa che quella raccomandazione vincolerà la parte antropologicamente e istituzionalmente normale delle forze politiche, cioè di coloro che lo stanno sfidando proprio perché Berlusconi ha lavorato alacremente a disfare la Repubblica e a immergerla nel disordine.
Ma da sempre (giorno per giorno, anno per anno, in questa legislatura) Berlusconi si reputa libero di osservare solo le sue regole. Questa volta le regole sono di ammassare tutta l’illegalità che gli consente di governare i media, e di usarla contro chiunque si metta sulla sua strada. Sa benissimo che la calunnia, o la falsa denuncia, o la smaccata denigrazione durano poco. Gli basta che durino fino alla fine della campagna elettorale. È la tecnica suggerita da Karl Rove (attualmente sotto inchiesta per falso, in America) a George Bush contro Kerry: andare al di là della calunnia penalmente perseguibile, contando sul senso della decenza e dignità dell’avversario calunniato, che - invece - resterà nel limite del civile confronto e perderà le elezioni. Poi tutti si volteranno a riconoscere le buone ragioni dello sconfitto. Ma resterà uno sconfitto.
C’è una risposta. È di restituire in pieno a Berlusconi la losca immagine della sua attività, del suo arricchimento, dei suoi legami, dei suoi processi, dei suoi complici di vario tipo e in rami diversi della illegalità. E di farlo sempre, giorno per giorno, come ha fatto fin dal primo momento questo giornale, non appena si è reso conto (e adesso siamo in tanti a saperlo) del pericolo reale e imminente che la democrazia corre in caso di una ulteriore vittoria della cosiddetta “destra” berlusconiana che, come è noto, è isolata e respinta da ogni altra destra democratica del mondo.
Il secondo aspetto, che ormai si vede bene da ogni nuova apparizione di Berlusconi, è il non più nascosto disdegno per il governare. Governare è un mestiere che a lui resta estraneo perché richiede empatia, responsabilità, prudenza, pazienza, studio, conoscenza dei problemi, disinteresse, fatica. Sono le qualità di Prodi, che Berlusconi disprezza. Ormai si vede bene che Berlusconi crede non nel faticoso governare democratico, come nel potere celebrato da sottomissione e intimidazione. Crede nel conflitto di interessi come in un fatto buono in sé: ti colloca, nello stesso tempo, al centro dei tuoi affari, ma anche al di fuori in una posizione autorevole in cui puoi dare una mano a te stesso. Ecco che cosa ci ha svelato una settimana di campagna elettorale incivile, prepotente, illegale. È bene saperlo per fare barriera in questa difesa cruciale della dignità democratica.