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L’ultimo stratagemma di Sharon: non cadiamo nella stessa fossa dei serpenti
Publie le martedì 20 aprile 2004 par Open-Publishingdi Mustafa Barghouti (segretario generale di Iniziativa Nazionale Palestinese e presidente del 
Comitato palestinese di soccorso medico -PMRC-)
Una delle caratteristiche politiche cruciali è, forse, l’abilità di distinguere l’illusione dalla 
realtà. Un’altra è quella di attirare l’avversario in un labirinto di miraggi perché non riesca 
più a concentrarsi su ciò che è realmente importante. 
Questo è precisamente quel che cerca di fare Sharon con i palestinesi e con il mondo, attraverso 
il suo piano per il "ritiro" unilaterale dalla Striscia di Gaza. Prima di analizzare la "chimera " 
che Sharon cerca di realizzare, cerchiamo di vedere dapprima quale verità egli cerca di 
nascondere.
Sharon, l’uomo, non è mai cambiato e non ha mai cercato di cambiare le sue caratteristiche 
attuali.
E’ lo stesso razzista fanatico che pensa di poter imporre uno status quo espansionista con la 
forza dei blindati e la distruzione. Il suo obiettivo è di raggiungere l’ebraicizzazione della 
Cisgiordania, e grazie a questo, di annullare ogni possibilità di creare uno Stato palestinese 
indipendente, uno Stato vitale e sovrano. Sharon vuole risolvere il problema demografico confinando i 
palestinesi in prigioni a cielo aperto, delle sacche isolate, dei ghetti isolati. Poiché è fallita la 
messa in opera del trasferimento esterno, spera di poter realizzare un trasferimento interno. Egli 
spera che un giorno i palestinesi emigreranno avendo perso ogni speranza di poter vivere una vita 
decente a casa loro.
In altre parole, Sharon spera di perpetuare l’occupazione insieme ad un sistema di apartheid, il 
peggior sistema che si sia mai visto nella storia umana. 
La sua visione di un ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza mira a tirare fuori Israele da una 
profonda crisi economica, di sicurezza, politica e demografica, una crisi provocata da questa 
stessa occupazione che egli spera di perpetuare.
La principale causa della crisi israeliana non è solo la visione a breve termine dei suoi governi, 
ma anche la rinnovata sollevazione e la continua resistenza contro l’occupazione.
Israele capisce che si avvicina il momento - come con la prima Intifada - in cui il costo 
dell’occupazione supera i benefici che ne può trarre. Una situazione simile è una di quelle situazioni che 
Israele non può tollerare né sopportare, sarebbe una situazione che potrebbe portare forzatamente 
alla fine dell’occupazione, quindi a stabilire una pace reale.
All’epoca della prima Intifada, solo le inafferrabili strade di Oslo hanno potuto preservare 
Israele dalla crisi grazie a questo tallonamento laborioso nel corso del quale delle soluzioni 
parziali, transitorie e provvisorie, hanno soppiantato gli obiettivi della lotta dei palestinesi e le 
questioni cruciali del conflitto. Le penose carte di Oslo (le regioni A, B, e C) hanno distratto dalla 
questione dei profughi, dalla questione di Gerusalemme, dall’occupazione, dal problema delle 
colonie e delle frontiere.
A quell’epoca Israele aveva prospettato l’illusoria esistenza di una direzione nazionale 
[palestinese, ndt] interna e alternativa come meccanismo d’intimidazione e costringere l’Olp ad appiattirsi 
su Oslo, senza calcolarne le conseguenze. Oggi, la minaccia di vedere "Hamas impadronirsi del 
potere a Gaza" è usata con lo stesso scopo.
Non esiste un limite alle anomalie di Sharon che possono indurlo a brusche decelerate, ma è 
difficile negare la sua attitudine al calcolo strategico. E’ innegabile che il piano di Sharon per Gaza 
comporta la realizzazione di cinque obiettivi strategici:
1.
Distogliere l’attenzione dalle colonie e dal Muro, guadagnare tempo per proseguire la costruzione 
criminale del Muro, annettere ed ebraicizzare al meno il 58% della Cisgiordania e trasformare il 
resto in prigioni, cantoni e ghetti. Ciò annienterà ogni speranza verso uno Stato palestinese 
indipendente e sovrano così come verso una pace reale.
2.
Spingere i palestinesi in una guerra civile alfine di minare sia l’Autorità Nazionale Palestinese 
che i movimenti nazionalisti e islamici, favorendo così la frammentazione dei palestinesi e la 
riduzione della loro direzione nazionale a semplici "prefetti di polizia" e agenti di sicurezza al 
servizio dell’occupazione.
3.
Soppiantare la Road Map, che di fatto Sharon ha sempre rifiutato, con un piano  israeliano 
unilaterale, eliminando di fatto tutto ciò che Sharon non vuole dalla Road Map (il congelamento di ogni 
forma di colonizzazione e la creazione di uno Stato palestinese entro il 2005). Rimpiazzando la 
Road Map con il suo piano, Sharon si assicura simultaneamente che siano fissati solo gli impegni dei 
palestinesi per la sicurezza, facendo così del popolo palestinese in assoluto la prima nazione 
sotto occupazione a dover garantire la sicurezza dei suoi occupanti.
4.
Rompere l’isolamento internazionale crescente e ridurre i problemi ai quali devono far fronte le 
politiche israeliane di occupazione riguardo al Muro dell’apartheid.
5.
Conservare l’iniziativa strategica e costringere i protagonisti palestinesi, arabi ed anche 
internazionali a giocare secondo regole fissate da Israele, a danzare al ritmo stabilito da Israele.
Nello stesso tempo, prosegue lo strangolamento brutale dell’economia nazionale palestinese. E’ in 
corso una campagna, tragicamente già coronata dal successo in alcune capitali, per colpire 
l’assistenza umanitaria ai palestinesi nei settori della salute, dell’educazione, degli affari sociali, e 
dei profughi. Ancora, ciò che resta di questa assistenza viene dirottato verso il consolidamento 
di altre strutture di sicurezza, come se tutta la vita dei palestinesi - le attività sociali, 
economiche e scolastiche - dovessero cessare d’esistere, riservando ai palestinesi una sola funzione, 
quella di agenti della sicurezza per l’esercito di occupazione e per i coloni.
Compresi questi obiettivi strategici, un esame più approfondito dell’ "illusione" che Sharon crea 
riguardo al "ritiro dalla Striscia di Gaza" non rivela nulla di più che un trucco ammantato 
dall’ambiguità internazionale. Il piano di Sharon non è concepito per influire sul ritiro, ma per 
riorganizzare il controllo israeliano sulla Cisgiordania, rendendo questo meno costoso e pericolo per 
l’occupante.
Coloro che pensano questo sia un vero ritiro, così come è concepito, dovranno spiegare prima di 
tutto come un simile piano può essere conciliato con quello che segue:
a)
La demolizione costante di centinaia di case lungo la frontiera egiziana a Rafah, al ritmo di 
cinque case al giorno. In questa regione dove 82 bambini sono stati uccisi dall’esercito, è in atto un 
vero e proprio processo di pulizia etnica.
b)
Diverse centinaia di nuovi ordini di confisca delle terre e l’espansione della superficie delle 
colonie a Deir el-Balah, Kfar Darom e Netzarim.
c)
L’esclusione voluta da Sharon delle più importanti colonie della Striscia di Gaza dal cosiddetto 
piano di ritiro. Il premier Sharon evita inoltre ogni riferimento al ritiro dal corridoio che 
circonda la Striscia di Gaza da tutti i lati, corridoio tracciato su terre palestinesi.
L’assassinio del leader spirituale Sheih Ahmed Yassin, il 22 marzo scorso, era una palese 
provocazione di Sharon nel tentativo di provocare un nuovo ciclo di violenze senza precedenti, al fine di 
guadagnare tempo per applicare il suo piano. Azioni simili dimostrano chiaramente che questo piano 
è lungi dall’essere concepito come il ritiro dalla Striscia di Gaza, ma piuttosto per trasformare 
la Striscia di Gaza in una vera e propria prigione, circondata da ogni parte dalla presenza 
israeliana. Un ghetto nel quale un milione e trecentomila palestinesi sono rinchiusi, e che potrà 
servire da potenziale terra d’esilio per i dirigenti palestinesi (la Striscia è stata già usata come 
esilio per un certo numero di cittadini palestinesi espulsi dalla Cisgiordania).
E’ vero che nessuno si opporrà al ritiro da ogni parte del territorio palestinese. E’ altrettanto 
vero che Sharon è stato costretto ad impegnarsi in simili manovre strategiche perché oggetto di 
pressioni, perché deve far fronte ad una crisi politica, di sicurezza e demografica, e perché non ha 
potuto mantenere la sua promessa di liquidare l’Intifada in cento giorni. Egli è alla guida del 
governo ormai da più di 1.100 giorni.
Tuttavia, sarebbe sbagliato interpretare il piano "prima Gaza" di Sharon come un riconoscimento di 
sconfitta. Questo piano è un tentativo di evitare la sconfitta, per chiudere i palestinesi in un 
labirinto peggiore di quello di Oslo. E’ un tentativo di Sharon di attirare gli arabi in una 
trappola (nella quale gli egiziani, fino a questo momento, sono riusciti saggiamente a non cadere), un 
tentativo di guadagnare tempo per portare a termine la ebraicizzazione della Cisgiordania, di 
distruggere il futuro del popolo palestinese, e di cancellare ogni speranza in pace giusta e reale.
La risposta adeguata all’ultimo trucco di Sharon non è quella di cooperare con lui, permettendogli 
così di sfuggire ad una sconfitta inevitabile. La risposta non è quella di impegnarsi in una 
rivalità futile per decidere chi assumerà l’autorità in caso di ritiro. Ancora, la risposta non è di 
sedersi con Sharon e discutere della sua politica unilaterale, ciò darebbe legittimità a questo 
piano.
La risposta, e questo è un consiglio sincero ai dirigenti politici in particolare, è seguire 
l’esempio degli abitanti di Na’alin e Budrus, Qibya e Beit Duqqu, Rafah e Qalqiliya, Badw e Deir 
Qiddis, Beit Leqia e di tutte le altre città e villaggi che lottano. La risposta è quella di 
confrontarsi con il Muro dell’apartheid e le mire dell’occupazione, concentrando tutta l’attenzione sulle 
sfide reali: la distruzione del Muro, mettere fine all’occupazione di tutte le terre palestinesi 
occupate, senza eccezione.
La risposta non può che essere il proseguimento della resistenza contro le politiche israeliane. 
La risposta consiste nel confronto con la politica d’occupazione e di apartheid finché Israele non 
finirà per riconoscere il diritto che ha il popolo palestinese alla libertà, all’indipendenza e 
alla dignità.
Per conseguenza, la risposta a Sharon dovrà essere la formazione di una direzione nazionale 
unificata, il consolidamento dell’unità nazionale, e l’adozione di principi democratici per affrontare 
le divergenze. La risposta deve essere nell’affermazione della sovranità della legge, la promozione 
del settore giudiziario, lo svolgimento di elezioni democratiche, il miglioramento 
dell’amministrazione della politica interna e l’accesso, per tutti i cittadini, alla sicurezza, alla stabilità e 
alla giustizia. Tutti devono unirsi in un progetto nazionale comune per mettere fine 
all’occupazione israeliana e alla colonizzazione, per preservare i diritti dei profughi e per giungere alla 
piena indipendenza. La risposta che deve essere data a Sharon sta nel consolidamento del fronte 
interno che ha sofferto per l’indisciplina e per il caos e per le rivalità faziose e personalistiche, 
che sono un prezzo troppo grande per l’interesse generale.
Tratto da The Palestine Monitor, marzo 2004
(titolo originale: Sharon’s last ploy: So that we are not bitten  from the same snake pit twice)
Traduzione del testo francese, diffuso da Solidarité Palestine il 6 aprile 2004, di Cinzia Nachira




