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LA CADUTA DELLA BORSA e il ritorno del "movimento operaio"
Publie le lunedì 30 marzo 2009 par Open-PublishingLA CADUTA DELLA BORSA
e il ritorno del “movimento operaio”
Dopo anni di lamentele dei “fannulloni” della Borsa, non tassati adeguatamente
dallo Stato, dopo anni di lamentele degli industriali che rimandavano sempre gli
aumenti di salari per gli operai e lavoratori in genere, dopo gli insulti ai precari:
sposate i ricchi, datevi da fare, fannulloni etc. etc.,è arrivata l’ora di unirci contro
tutti gli speculatori di questa crisi e di non aspettare ancora di lottare contro
le angherie di politici che non rappresentano il popolo ma solo i ruffiani e coloro i quali cercano, con la tessera dei partiti, la facile raccomandazione o il sogno di
andare a mostrare gambe e tette in Tv.
Mi sembra doveroso, da parte di tutti i compagni, pubblicizzare con ogni mezzo,le riflessioni sulla crisi, del Compagno Paolo Benvegnù, che qui di seguito potete leggere.
“Alcuni elementi di riflessione sulla crisi.
Di fronte alla crisi. ai suoi effetti concreti, ai suoi possibili sbocchi, abbiamo assistito ad una discussione, quando questa c’è stata, per alcuni aspetti imbarazzante. L’assenza di una discussione pubblica, basata su una analisi di classe, marxista della crisi, ha lasciato spazio a ragionamenti e proposte, le più eclettiche possibili. Dal richiamo a Obama, al magistero ecclesiale contro la povertà , alla riproposizione più banale delle proposte della Cgil, non ci siamo privati di niente. Credo che tutto l’armamentario della chiacchera inutile della cosidetta sinistra Italiana si sia dispiegato nel suo campionario più completo. Tutti ad insegnare ai padroni la strada per uscire dalla crisi osando il massimo della radicalità nella proposta dell’ ambientalismo neo Keinesiano.
Nessuno che abbia detto tra di noi, come Lenin, che la caduta della borsa è un’ottima notizia per i comunisti e per il movimento operaio.
La crisi capitalistica è per noi l’occasione più ovvia per avanzare la nostra proposta alternativa, è lo disvelamento, concreto, per milioni di individui, della reale natura del capitalismo e dei suoi limiti, della possibilità-necessità del suo superamento,
La verifica oggettiva della produttività delle notti insonni passate da Carlo Marx, nella fredda e determinata ricerca delle contraddizioni interne al Capitale come rapporto sociale, e della possibilità-necessità del suo superamento, che nella crisi si manifesta non come prodotto della critica, ma nella sua materialità.
Il nostro scopo deve essere quello di ricercare, con tutte le nostre forze, la strada per una uscita di parte operaia dalla crisi.
Una crisi che i dati materiali ci mostrano centrata sull’enorme distruzione di capitale nella sua forma di ricchezza, finanziaria, nominale, mobile, fissata nei valori dei titoli azionari e delle obbligazioni, ma nel contempo assolutamente reale, distruzione straordinaria di capacità finanziarie del valore di 50.000 miliardi di dollari, in pochi mesi l’equivalente dell’intera produzione mondiale annua, un cifra spaventosa. E la giostra non si è ancora fermata, dalle banche e dalle borse la valanga è scesa a valle investendo ogni attività produttiva, mettendo in crisi intere filiere della cosidetta economia reale.
Il richiamo alla crisi del 29 è d’obbligo, intanto perché come la grande crisi del secolo scorso, quella attuale ha anch’essa origine nei mercati finanziari del paese più sviluppato dal punto di vista capitalistico, la forma più alta della società borghese così l’aveva definita Marx, gli stati Uniti, e poi perché la larga parte del dibattito interno alle leadership si richiama al confronto con le politiche e le strategie economiche adottate per superare quella crisi. Come allora ritorna centrale l’intervento dello stato per governare la crisi e per riprodurre il tessuto della regolazione del processo economico contro la crescita del capitale speculativo.
La vendita dei terreni paludosi della Florida come terreni edificabili, fa bene il paio con lo smercio delle obbligazioni salsiccia gonfiate di crediti non esegibili.
Oggi come allora il dibattito sulla necessità della regolazione. della giusta misura, il ripristino del di-ritto a fronte della sghemba trama della fuga speculativa del capitale finanziario rimanda alla necessità di riportare il capitale dentro la sua condizione originaria, alla fonte del processo della sua valorizzazione, alla sua natura di rapporto sociale, al suo scambio con la forza lavoro.
L’irresistibile potenza, come se in corpo ci avesse l’amore, scrive Marx nei Grundrisse, citando a sua volta i classici, che spinge il capitale verso la sua valorizzazione, trova limite e, nello stesso tempo, misura feconda, solo nella produzione materiale, nello scambio con il lavoro vivo.
Gran parte del dibattito sulla crisi, dagli Stati Uniti, all’Europa, la discussione che prepara il G20, le campagne di stampa contro i grandi manager, moderni capri espiatori della deriva speculativa del capitale finanziario, prepara il rilancio di un capitalismo, almeno temporaneamente, rifondato sulle sue basi materiali.
Più sfruttamento della forza lavoro e meno crescita senza freni di una massa incontrollabile, non gestibile, non regolabile di capitale. Il tempo di lavoro nella sfera della produzione dominata dalla scienza non può più essere misura della ricchezza prodotta e il furto del tempo di lavoro non può più essere la base della valorizzazione del capitale( così Marx in uno dei passaggi più famosi dei GrundrisseL) La crescita della ricchezza dal lato della crescita del capitale come capitale finanziario è il tentativo di gestire questa contraddizione nella sfera del movimento D-D1, l’utopia capitalistica della risoluzione dell’immanenza, nella produzione, della forza lavoro come classe operaia. La crescita abnorme del capitale finanziario come metastasi nel più generale movimento della sovrapproduzione è contraddizione che si domina e si risolve reimponendo e allargando la sfera della produzione capitalistica ed in particolare allargandone le basi, le fondamenta dell’accumulazione di capitale. il lavoro. I 200 milioni di lavoratori migranti interni alla Cina i 20 milioni di migranti dell’area del Golfo, lo sterminato esercito di contadini indiani prossimi all’ingresso nelle fornaci e nei laminatoi della grande “fabbrica” capitalistica, per esempio. Dopo la grande abbuffata delle Stock Options e della crescita senza misura della ricchezza finanziaria in tutte le forme classiche, comprese quelle più truffaldine, inizia la purga del ritorno ai luoghi della produzione e della riproduzione per ridare fiato al capitalismo, togliere il grasso in eccesso e rafforzarne i muscoli.
Il valore delle merci si misura sulla quantità di lavoro socialmente necessario a produrle in esse contenuto. Dallo sfruttamento della forza lavoro, dal pluslavoro, nasce il plusvalore che determina la crescita del capitale e ne garantisce la sua valorizzazione. La produzione delle merci è al contempo produzione e consumo, è realizzazione materiale nella sfera della produzione, ma anche realizzazione “finishing” della merce nella sfera del consumo. Produzione consumatrice e consumo produttivo. Non c’è produzione di merci senza consumo. Le lunghe filiere della produzione e del consumo delle merci, sono abitate da una massa crescente di forza lavoro sempre più mobile, precaria ( e questo vale per il lavoro manuale così per quello intellettuale o cognitivo, meglio per le sintesi viventi e moderne dei due lati della stessa condizione).
Moderna rappresentazione di quel lavoro senza qualità, sans phrase, lavoro astratto, lavoro in generale per dirla con Marx che è la fonte della valorizzazione del capitale e, nella società borghese, cresce come forma dominante nella fase più matura del suo sviluppo Riportare il capitale dentro gli stretti confini dello sfruttamento della forza lavoro, nell’inferno della produzioni delle merci, nella fatica dello scontro quotidiano con un classe operaia, comunque restia a farsi merce nel processo di valorizzazione è la via che si impone per uscire dalla crisi.
Dopo la sbornia della crescita senza limite del capitale nella sua faccia speculativa e finanziaria e la crisi che da questa è derivata, il ritorno in “fabbrica”ne restringe i confini e impone un formidabile ridimensionamento, quanto mai necessario a ricondurre il sistema dentro il reticolato delle sue regole fondative Più diritto e meno finanza speculativa nel mercato mondiale. Così parlò Tremonti fornendo una sintesi molto precisa del movimento necessario del capitale in questa fase, e ribadendo così la centralità del ruolo dell’intervento degli stati e quindi della politica nella crisi, disvelando, se ancora fosse necessario, anche per questa via i caratteri ideologici del mercatismo neoliberista.
Un ritorno alla fabbrica, nei luoghi della produzione e distribuzione delle merci, per un nuovo inizio che rilanci il processo di valorizzazione del capitale, l’economia capitalistica a partire dalla realizzazione più compiuta della condizione più efficace per la più piena realizzazione della sua premessa fondativa: lo sfruttamento della forza lavoro. Di un lavoro atomizzato, frantumato, mobile e precario, sempre più simile alla forma astratta del lavoro che valorizza il capitale. Un lavoro sconfitto ancora più debole nella sua capacità di contrattazione, e quando è necessario privato anche dei diritti minimi così come accade per milioni di lavoratori, clandestini non per loro scelta, ovunque, nelle moderne economie capitalistiche.
La traccia di questo percorso, qui e ora da noi, è più che evidente. E’ iscritta nella scelta feroce della chiusura dei flussi, nel permanere della Bossi –Fini, nella conseguente imposizione a centinaia di migliaia di lavoratori, in cifra crescente, della clandestinità e del lavoro in nero senza alcun diritto né capacità negoziale. E’ scritto nell’accordo tra governo e sindacati gialli (cisl uil ugl) che prevede lo scardinamento del contratto nazionale, è iscritto nei processi di ristrutturazione che accompagnano la gestione di parte governativa e padronale della crisi.
Tracce già evidenti nella lettura della gestione della crisi in alcune aziende padovane.
Dalla Filippi all’Arneg per esempio. Là dove, nella prima si prepara la resa dei conti con gli operai della Fiom che hanno gestito la vertenza famosa della pausa “pipì “ attraverso il ridimensionamento dello stabilimento di Arsego e nell’altra si prepara lo sfondamento del contratto nazionale di lavoro con un accordo siglato dalla uilm e dalla fim che prevede fino a 136 ore di flessibilità e la possibilità per i mesi di punta dell’’introduzione dell’orario settimanale di 49 ore,
A noi corre l’obbligo di organizzare la resistenza e costruire l’alternativa.
paolo benvegnù.”