Home > LA CRISI DI UN MONDO DI BASSI SALARI
LA CRISI DI UN MONDO DI BASSI SALARI.
Intervento di E. Brancaccio
Per concessione dell’autore, pubblichiamo senza revisioni né correzioni l’intervento di Emiliano Brancaccio alla Direzione nazionale del PRC del 10 ottobre 2008, nel corso di un Seminario dedicato alla crisi finanziaria in corso
Grazie davvero per l’invito. Partirei da alcuni segnali provenienti dall’interno del sistema bancario, epicentro del terremoto in atto. La scorsa settimana siamo giunti ad un passo da quella che tecnicamente si definisce la “trappola della liquidità”. Abbiamo infatti assistito a una migrazione di capitali dai titoli privati verso i titoli pubblici, e in una certa fase la fibrillazione è arrivata al punto che nemmeno i titoli pubblici sono sembrati sufficientemente liquidi per gli operatori. Abbiamo inoltre assistito a uno stallo completo del mercato interbancario, cioè il mercato nel quale le banche si prestano denaro a vicenda. E abbiamo registrato a livello di sistema una lieve ma cumulativa riduzione delle riserve liquide, che è stata causata da una serie ripetuta di ritiri di contante. Il che significa che siamo pure giunti non lontani da una corsa agli sportelli. Dopo i provvedimenti dei vari governi la situazione non è rientrata del tutto, ma sembra essersi stabilizzata. Siamo in uno stato temporaneo di quiete, in attesa degli eventi. Ebbene, questi segnali sono di una gravità inaudita. Direttori generali con esperienza trentennale nel mondo bancario non sanno trovare precedenti comparabili.
***
Ora, tenete presente che queste notizie non rappresentano solo dei segnali che preannunciano una possibile trappola keynesiana della liquidità, e una conseguente grande crisi. Per qualcuno queste notizie rappresentano anche delle occasioni. Bisogna capire infatti che al momento qualcuno detiene grandi masse di liquidità disponibile. In termini tecnici, si tratta di tutti coloro i quali abbiano ottenuto liquidità a chiusura di un volume notevole di transazioni definitive. Si tratta dunque in primo luogo di venditori di merci e servizi in posizione di monopolio, dalle multinazionali ai fondi sovrani. Ma si tratta pure di quelle banche di grandissime dimensioni, il cui valore del patrimonio liquido è particolarmente alto in rapporto al capitale dei concorrenti. A questo riguardo, è interessante osservare il tasso interbancario. Diversi analisti hanno giustamente notato che questo tasso si situa troppo in alto rispetto al tasso che la BCE applica sulle operazioni di rifinanziamento. Cioè esiste un divario tra i due tassi, un divario che va al di là dei differenziali di rischio e che sembra ormai trovare una spiegazione condivisa da numerosi osservatori, anche di diversa matrice teorico-politica. La spiegazione è che probabilmente è in atto un meccanismo “preda-predatore” all’interno degli assetti del capitale, europei e mondiali. Ossia, gli operatori che dispongono di liquidità tengono i tassi alti perché vogliono soffocare coloro i quali necessitano di prestiti. I grandi detentori di capitale liquido infatti sanno bene che, dopo la tempesta, sulla scena resteranno in piedi pochi attori, e quei pochi potranno fare razzia dei capitali rimasti per terra. Questo tipo di interpretazione trova adesso diversi sostenitori, persino in ambito mainstream (uno di essi è Francesco Giavazzi). In ambito marxista tuttavia non ci pare in fondo una gran sorpresa. Si tratta infatti di una tipica sequenza che va dalla crisi di realizzo alla centralizzazione autocratica del capitale.
E’ opportuno chiarire che lo scontro inter-capitalistico in atto spiega pure lo stallo politico al quale più volte abbiamo assistito in queste settimane, e che potrebbe a lungo andare accendere la miccia per una crisi generalizzata del sistema. Semplificando al massimo, possiamo dire che a livello europeo e mondiale chi punta a tenere stretti i cordoni della borsa pubblica ed osteggia le varie forme di protezione da parte dello Stato rappresenta i capitali relativamente forti, che da una carenza di liquidità potrebbero entro certi limiti trarre notevole vantaggio. Chi invece vorrebbe estendere le garanzie e le emissioni pubbliche teme di più per la tenuta dei capitali che in un modo o nell’altro si trova a rappresentare politicamente. Questa contrapposizione tra capitali forti e capitali deboli arriva fin dentro il direttorio della BCE. E sotto date condizioni potrebbe anche rivelarsi fatale. Perché vedete, per il momento gli operatori si sono spostati dai titoli privati ai titoli pubblici. Ma se dovessimo piombare nel mezzo di una vera e propria trappola della liquidità, allora vi sarebbero pressioni al ribasso anche sui titoli pubblici. E poiché fino a questo momento le coperture governative sui depositi sono garantite da emissione di titoli pubblici, capite bene che se a quel punto non interviene il banchiere centrale si finisce dritti nel baratro della corsa agli sportelli.
***
Ma c’è di peggio. Il conflitto inter-capitalistico può infatti dare luogo a uno stallo politico che va ben al di là dei confini europei. Per chiarire questo punto occorre fare una premessa sulle determinanti di fondo della crisi. Finora la tempesta è stata spiegata secondo i canoni della cosiddetta sintesi neoclassica. Si è cioè data al dissesto finanziario una motivazione di tipo meramente soggettivo e psicologico, fondata sul rischio di uno stallo nei meccanismi di fiducia necessari al corretto funzionamento del sistema finanziario. E’ questa una linea interpretativa che contraddistingue ad esempio il fresco premio Nobel Paul Krugman, così come anche numerosi osservatori nostrani della tempesta, da Lorenzo Bini Smaghi a Francesco Giavazzi. L’idea più o meno implicita di questi autori è che, se si ripristinano i meccanismi istituzionali necessari per risollevare la fiducia, le cose dovrebbero tornare a posto.
A queste interpretazioni dominanti è possibile tuttavia contrapporre una lettura alternativa della crisi: quella di tipo oggettivo, tipica delle scuole di pensiero critico, basata sul dato materiale della colossale sperequazione tra profitti e salari. Secondo queste interpretazioni critiche, questa può essere definita la crisi di un mondo di bassi salari. Le deregolamentazioni che si sono attuate in questi ultimi decenni e che hanno interessato tutti i mercati, da quello finanziario a quello del lavoro, sono state tali da generare un mondo di bassi salari, sistematicamente al di sotto della crescita della produttività, e più in generale un mondo in cui la quota di prodotto destinata direttamente e indirettamente al lavoro subordinato risulta in ogni dove decrescente. Un mondo che è strutturalmente instabile. Ogni Paese punta infatti a tenere bassi i salari e bassa la domanda interna e cerca all´esterno dei propri confini uno sbocco per le proprie merci. Nell’ultimo decennio questo meccanismo ha funzionato soprattutto perché gli Stati Uniti hanno agito come una sorta di "spugna assorbente" delle eccedenze produttive degli altri Paesi. Il problema è che questa spugna funzionava non certo perché i salari dei lavoratori americani fossero alti o perché il welfare fosse generoso, ma perché negli Usa montava un debito privato gigantesco, che era in grado di finanziare qualunque eccedenza di spesa rispetto ai redditi correnti. L’espandersi del debito ha via via coinvolto tutti gli strati sociali della popolazione. Si è passati dai dirigenti ai quadri del sistema americano, fino ad arrivare ai lavoratori delle periferie estreme delle metropoli, spesso già insolventi e pignorati. Il sistema era ormai talmente spinto che permetteva a un operaio di pagare i debiti di un mutuo accendendo un nuovo prestito, e di rimborsare i soli interessi del prestito attivando una carta di credito, e così via. Insomma, parafrasando un grande economista, Hyman Minsky, potremmo parlare di “ultra-speculative working poors”, cioè di poveri tramutati loro malgrado in ultra-speculatori. Naturalmente, l’accensione progressiva di nuovi mutui spingeva il prezzo degli immobili verso l’alto. Il valore delle ipoteche dunque cresceva, e questo permetteva alle banche d’affari di spezzettare i mutui e di collocarli in ogni angolo del mondo. E badate che finché i prezzi delle case ipotecate salivano, questo sistema traeva addirittura linfa dalle insolvenze dei lavoratori coinvolti. Tuttavia, con la crescita delle insolvenze e con i contraccolpi subiti dai valori immobiliari, la bolla speculativa è esplosa. E il problema è che ora gli Stati Uniti non sembrano più in grado di fungere da “spugna assorbente” della produzione mondiale. Insomma, la locomotiva mondiale si è rotta. E di sostituti, unilaterali o multilaterali che siano, non si vede nemmeno l’ombra.
Si fa un gran parlare a questo proposito dei fondi sovrani. Si tratta di istituzioni che si sono sviluppate in quei paesi caratterizzati da avanzi commerciali crescenti, e quindi da accumuli crescenti di liquidità. Queste istituzioni stanno in effetti cercando di ritagliarsi un ruolo nella razzia capitalistica che abbiamo descritto in precedenza. Ma le loro mosse, al momento, rivelano degli intenti di tipo finanziario, al massimo di tipo strategico-industriale, in ogni caso ben lontani da qualsiasi mira ad una vera e propria leadership politica da parte dei paesi che li manovrano. Dunque, la vera minaccia prossima ventura è costituita dall’assenza una leadership politico-monetaria mondiale. Questo è il vero, grande pericolo di fronte al quale il sistema si trova. E voi sapete che si tratta di un pericolo che all’epoca della lunga, sofferta transizione dalla leadership politico-monetaria britannica a quella americana si concretizzò in una guerra mondiale.
***
Crisi di realizzo, centralizzazione dei capitali, scontro inter-capitalistico e conseguente stallo politico. Sembra una di quelle tempeste perfette che venivano descritte nei manuali bordighisti dei primi del Novecento. Quei testi in verità davano per scontata e automatica la crisi irreversibile del modo di produzione capitalistico. Da allora però di vaccini anti-teleologici ne abbiamo ingoiati. Per dirla con Althusser, sappiamo bene che “l’emergenza” crea una condizione, la quale però richiede a sua volta ulteriori condizioni per essere sfruttata. Queste ulteriori condizioni attengono alla organizzazione del conflitto, e attualmente sono ben lungi dall’esser soddisfatte. Nell’assoluto silenzio politico del lavoro ci sono dunque buone probabilità che la crisi e il relativo conflitto tra i capitali arrivino a ricomporsi proprio caricandosi sulle spalle del lavoro, che sarà dunque vittima anziché protagonista dell’emergenza.
Potranno mai i comunisti e le sparute rappresentanze politiche e sindacali del lavoro rientrare in gioco, in questa fase che li vede oggettivamente al margine? Una risposta negativa forse è quella giusta, ma è anche la più facile. In realtà c’è da tener conto del fatto che la crisi potrebbe questa volta rivelarsi grave e profonda. Concepire una nuova spugna, una nuova locomotiva mondiale, è infatti cosa lunga e travagliata. L’Europa dovrebbe infatti rinnegare il suo assetto, e rivoltarlo come un calzino. La Cina è giovane sul piano monetario internazionale ed è più fragile di quanto non si pensi. Per non parlare della Russia, i cui avanzi e disavanzi commerciali seguono esattamente il corso ballerino del petrolio. In assenza dunque di un meccanismo multilaterale c’è la possibilità che ogni paese punti all’espansione della domanda interna, con la conseguenza però a quel punto di dovere introdurre barriere protettive più o meno surrettizie per evitare i pericoli del deficit con l’estero. Nel frattempo, le ristrutturazioni e la disoccupazione potrebbero raggiungere livelli tali da stravolgere il quadro politico. Se così fosse le carte del gioco politico forse potrebbero rimescolarsi. Ma se non dal punto di vista organizzativo, i comunisti e le sinistre sarebbero almeno pronti sul piano teorico all’eventualità di un rimescolamento degli equilibri politici? Al momento vi è da dubitarne. A me pare infatti che esista un problema, che attraversa in svariati modi l’intera Europa ma che in Italia assume un’evidenza tutta particolare. Il problema, dal punto di vista dei comunisti, è che essi sono circondati. Sono circondati da un Partito democratico che si è fatto a lungo portatore del principio di “non interferenza” sui mercati e di apertura dei medesimi agli scambi globali, e che oggi appare chiaramente imbambolato di fronte alla tempesta in corso. E sono circondati da una pseudo-cultura globalista che si è fatta largo persino tra alcune frange di movimento. Insomma, è come se alcuni degli eredi del vecchio internazionalismo operaio avessero completamente stravolto e deformato l’istanza globale delle origini, arrivando a confonderla con l’apertura dei mercati, vale a dire con l’internazionalismo del capitale.
In una situazione come questa, dunque, va bene dire più salari e più pensioni, ma non basta. Vanno bene le vertenze, ma sarebbe gravemente intempestivo cadere in un mero vertenzialismo. Se infatti il Partito democratico rimane in bambola, e se gli arcipelaghi di movimento faticano anche solo ad afferrare il senso di questo trapasso storico, è forse tempo che i comunisti si facciano carico di un compito politico generale: offrire una lettura reale del presente mettendo costantemente in chiaro qui e altrove che c’è una fuffa globalista, a sinistra, di cui è bene liberarsi. Il che significa, in sostanza, che non basta regolamentare i mercati, che è ancora l’incredibile, ottusa chimera dei socialisti europei e dei democratici nostrani. Occorre piuttosto ridimensionarli, segmentarli, imporre controlli sui movimenti dei capitali e, se serve, anche delle merci. Ed è bene sempre aggiungere, al riguardo, che in assenza di controlli sui movimenti di capitali c’è il serio rischio che l’obiettivo della liberazione dei migranti sostenuta dai comunisti e dalle sinistre si ritorca contro di essi. La libera circolazione dei capitali rende infatti il profitto una intoccabile esogena, e scatena quindi una guerra tra nativi e migranti sulla parte residua spettante ai salari. Una guerra che sposta lentamente ma inesorabilmente a destra, verso il fascismo.
Nella prefazione all’edizione italiana del Manifesto del partito comunista, Engels scrisse che «se ciascuna nazione non avesse riacquistato la propria autonomia e unità, non si sarebbero potute compiere né l’unione internazionale del proletariato, né l’intelligente cooperazione delle nazioni per il raggiungimento di scopi comuni». Sebbene collocata in un contesto storico-politico enormemente diverso dal nostro, questa enunciazione presenta una sua attualità logica. Il punto da comprendere, infatti, è che un nuovo internazionalismo operaio potrà fiorire solo dal suo opposto speculare, e cioè da un rinnovato processo di segmentazione dei mercati globali, a partire dal mercato finanziario.
Roma, 10 Ottobre 2008