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LA GAINE ET LE MULET

Publie le mercoledì 12 settembre 2007 par Open-Publishing

Regia: Abdellatif Kechiche
Soggetto e sceneggiatura: Abdellatif Kechiche
Direttore della fotografia: Lubomir Bakchev
Montaggio: Ghalia Lacroix
Interpreti principali: Habib Boufares, Faridah Benkhetache, Sabrina Ouazani, Hafsia Herzi, Mohamed Benabdeslem
Produzione: Pathé
Origine: Fra, 2006
Durata: 151’

Tuffatevi nel desiderio un po’ folle ma pieno di dignità di Slimani Beiji, sessantenne dismesso dal suo lavoro di operaio navale, che sogna di aprire un ristorante su un battello. Negli intrecci muliebri della sua ex moglie, di figlie, amiche, nuora che riunite nel chiacchiericcio danno l’idea dei cortili del tempo andato pulsanti di passioni, battute, invidie e lazzi. Nel rapporto che Slimani ha con una compagna più giovane e bella con una figlia che stravede per quel padre acquisito, educato, pacato e rassicurante. Nella storia - che vi catturerà durante un percorso forse un po’ lungo ma mai noioso, denso invece di temi soggettivi e di costume – un posto accanto al protagonista spetta al supremo couscous di pesce che l’ex moglie sa cucinare divinamente e che delizia la famiglia e il vicinato. Sarà proprio questa prelibatezza al centro d’un simpatico intreccio che tiene accesa la tensione e stende a terra (speriamo non definitivamente) il povero monsieur Beiji.

Kechiche dunque arricchisce la pellicola d’ingredienti saporiti come il mitico couscous narrato, e alla drammaticità dell’epilogo (quando Slimani rincorre in lungo e largo il motorino “sequestratogli” da tre mocciosi figli di maghrebini) si mescolano commedia e melodramma e una visione sociale sulla precarietà acquisita dal lavoro operaio (nel cantiere di Slimani le tutele vacillano e lui a sessant’anni deve mollare). L’introspezione su concetti e tradizioni della famiglia araba che, al pari d’un certo mediterraneo occidentale, mette la madre al servizio di famiglia e figli, la donna al servizio dell’uomo e quest’ultimo nella possibilità di fare i suoi comodi con scappatelle o tradimenti.

Principe di quest’agire è Majid, maschio maggiore di Slimani e della sua ex che tende a sminuirne le responsabilità anche davanti alla di lui moglie nauseata e rattristata dal traffico sessuale del marito. Le donne coprono le malefatte maschili se sorelle e madri, subiscono se mogli in una contraddittoria altalena fra sottomessa tradizione ed emancipazione laica. Certo il richiamo agli usi trova nella famiglia un alleato alla conservazione comunque i nuclei vecchi e nuovi non restano sordi ai sentimenti e sostengono con dedizione l’impresa di Slimani. Che si tratti di aiutarlo ad acquisire il battello, convincere banche e autorità a rilasciare fidi e licenze, restauralo, preparare il piatto forte della cucina araba secondo l’appuntamento prestabilito oppure per l’inattesa emergenza creata. Sono tutti attorno a Slimani anche sei poi lui resta solo proprio nel momento in cui il suo dramma si consuma.

Dal film scaturisce un bell’affresco collettivo, verace nei volti e nei sentimenti di coloro che amano Slimani e lo aiutano, compresi gli orchestrali che gli donano il ritmato sottofondo musicale nella festa d’inaugurazione del battello-ristorante. E delle autorità invitate per la serata sorridenti e sorprese e al tempo ipocrite, invidiose e maculate qua e là d’uscite razzisticheggianti. Mondi e comportamenti a confronto. Bella la scena della lunga attesa del couscous parzialmente sopita da un abbondante servizio alcolico e poi da una conturbante danza del ventre inscenata da Ryan, la giovane che considera Slimani come un padre e fa di tutto per sostenerlo. All’erotismo di quelle contorsioni s’uniscono altre inquadrature d’ampia voluttà rivelatrici d’un rapporto “erotico” stabilito dalla famiglia maghrebina col cibo nel pranzo domenicale. Dove labbra, lingue e mani inquadrate assumono cadenze intensissime seppur vissute con assoluta naturalezza. E’ un desco familiare e popolare dove gli eccezionali grani, le verdure, la muggine e il brodo che li amalgama sono tutt’uno con le confidenze, gli scherzi, l’affetto, l’empatia vissute dai commensali. Una ritualità che la vita e i ritmi da fast food hanno fatto smarrire.

Enrico Campofreda, 12 settembre 2007