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LE SCAPHANDRE ET LE PAPILLON

Publie le sabato 23 giugno 2007 par Open-Publishing

Regia: Julian Schnabel
Soggetto: dal romanzo autobiografico di Jean-Dominique Bauby
Direttore della fotografia: Janusz Kaminski
Montaggio: Juliette Welfling
Interpreti principali: Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Anne Consigny, Marie-Josée Croze, Jean-Pierre Cassel, Niels Arestrup, Patrick Chesnais, Aghate de La Fontaine
Musica originale: Emmanuelle Seigner
Produzione: Pathé Renn Productions, France 3 Cinéma
Origine: Fra, 2007
Durata: 112’

Può accadere che una vita piena di agi, ruoli lavorativi, riconoscimenti sociali, amore, affetti paterni s’interrompa sul più bello imprigionando la mente in un corpo che non risponde più. Uno scafandro che racchiude la farfalla del proprio cuore vagante fra ricordi e nuove volontà difficili da realizzare. La medicina definisce come locked-in syndrom la rara paralisi che colpì Jean-Dominique Bauby, redattore capo d’una rivista di moda, che si ritrovò sequestrato in sé stesso e visse un’avventura che col coraggio e la dedizione suoi e del personale che l’accudiva riuscì a narrare in un libro. Una malattia già descritta ne “Il conte di Montecristo” che solo a metà degli anni Sessanta la ricerca è riuscita ad approcciare con la speranza d’un parziale recupero di chi ne è colpito. Jean-Do non può muoversi né parlare però sente le voci di fuori e di dentro, la sua “fortuna” è d’avere salvo l’occhio sinistro che diventa il suo legame col mondo.

Attraverso la chiusura della palpebra una volta per dire sì, due per dire no e tramite il lento e faticoso metodo appreso da due impareggiabili ortofoniste, Henriette e Marie, Bauby riesce a rilanciare la voglia di vivere in una condizione che avrebbe abbattuto chiunque. In quel modo il malato torna a essere attivo dettando le sensazioni vissute, i sentimenti provati dal momento della disgrazia ma anche prima quando, incosciente delle propria condizione, un po’ scialava l’esistenza passando dall’amore di Céline, madre dei suoi figli, a nuove avventure sentimentali. Ritroverà Céline – e anche i ragazzi – al suo capezzale o sulla meravigliosa spiaggia di Berck sur mer, sede del centro specializzato dov’è in cura; li ritroverà con la pena nel cuore per non poterli abbracciare e carezzare mentre appare ai loro occhi come un silente storpio. Eppure non perderà il desiderio di sentire e comunicare parole e affetti.

La vicenda diffonde una spiritualità laica. Commoventi nel dedicarsi al malato credendo fermamente nella Provvidenza e nella professione sono le ortofoniste che mettono Jean-Do in sintonia col proseguimento della vita. Lui che religioso non è affatto accetta e si ricrede soprattutto sulla precedente superficialità che per troppo tempo gli ha offuscato l’anima. Jean-Do ha vissuto come la maggior parte di noi in maniera egocentrica, preso da un’incosciente “normalità”, incapace di rapportarsi alle difficoltà e al dolore. Invece la strada della sofferenza muta completamente i punti di vista aprendo occhi non solo anatomici.
Con un eccellente lavoro cinematografico (realistico l’uso della camera nelle inquadrature sfocate e oblique) che richiama storie drammatiche realmente vissute, com’era stato tre anni or sono il profondo Mar adentro di Amenabar, Schnabel resta assolutamente fedele allo spirito del protagonista-autore. Due film che parlano fuor di retorica di dignità umana e libero arbitrio. Quelli con cui Ramòn Sampedro reclama la morte per eutanasia (“Se non abbiamo scelto di vivere, lasciateci almeno la libertà di morire“). E quelli di Bauby di darsi chancès sempre e comunque, aggrappato all’ultimo lembo di corpo che lo fa vivente, pensante e palpitante. Seppure il destino abbia deciso di rinchiudere la sua libera farfalla in uno scafandro tombale.

Enrico Campofreda, 8 giugno 2007