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LO SFRUTTAMENTO DELL’UOMO SULL’UOMO

Publie le domenica 23 luglio 2006 par Open-Publishing

di Carmelo R. Viola

Marx aveva il dono di spaccare un capello in quattro: seguendo questa attitudine scrisse una letteratura monumentale da cui svetta “Il Capitale”. Un non addetto ai lavori - insomma, un proletario alfabeta (per il cui bene quel monumento è stato eretto), che voglia accostarsi a quella sorta di “vangelo”, non penso che ci capisca granché (soprattutto nell’Ottocento) e meno che mai si senta promosso verso propositi rivoluzionari.

La mia ammirazione per il marxismo l’ho sempre tenuta fuori discussione, e lo stesso dicasi per le sue finalità umanitarie - sin da quando, giovane liceale e attivista antifascista a Tripoli (noto come “comunista”), balbettavo i primi pensieri sociali convincendomi sin da allora che il problema di fondo fosse e sia offrire una “lettura intuitiva” della realtà antroposociale accessibile alla logica comune e capace di toccare anche il potenziale emotivo-etico, almeno quando l’abbiamo maturato dentro senza essercene accorti. La lettura diventa così un “catalizzatore”. Mentre Marx mi ricordava i teoremi e le equazioni, “Le parole di un ribelle” di Pietro Kropotkin, il principe anarchico, aliene da ogni dimostrazione matematica, mi convissero e mi commossero fino alle lagrime davanti all’immagine del povero che costruisce manualmente una casa e non ne possiede mai nessuna! Il concetto di sfruttamento mi entrò in testa in maniera solare.

Per prima cosa, Marx non sottolineò abbastanza (pur essendone cosciente) che l’uomo nasce animale e come specie e come individuo. Mettiamo a confronto il primitivo e il bambino. Questo è intuitivo. Ciò vuol dire che egli si comporta come tale e che come tale mutua (od eredita) dalla giungla la pratica della “predazione”, che non è solo l’aggressione dell’erbivoro (preda) da parte del carnivoro (predatore) ma il prendere fuori da sé, dall’immediato ambiente fino alla natura intesa nella sua globalità di flora e di fauna, il fabbisogno per la propria sopravvivenza fino all’antropofagia o cannibalismo. Anche questo mi pare intuitivo e nient’affatto “accademico”.

E’ ovvio che in un immediato rapporto di concorrenza, la spunti il più forte. Il movente (prima pulsione costante) è sempre il bisogno di nutrirsi per essere al mondo. Fra parentesi, il rapporto di concorrenza non risponde alla teoria di Darwin, che si riferisce esclusivamente alla selezione della specie nel campo animale e funge da “eugenetica naturale”. Passi pure per il primitivo. La realtà dell’animale-uomo (antropozoo) dimostra come un soggetto biogeneticamente debole, non solo può procreare (individui tarati) ma essere insieme biosocialmente dominante e diventare padrone di un potere forte (poniamo di una dittatura “alla Batista”). Chiudo la parentesi.

Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo cominciò con la nascita dell’uomo stesso, quindi prima del capitalismo perché la nostra sola specie, a differenza di tutte le specie animali propriamente dette, “si compie” nel tempo attraverso una sorta di “gestazione storica”, che si dice crescita o evoluzione della civiltà. Gli individui più forti scopriranno ben presto, seguendo l’istinto primordiale, di potere usare anche il proprio simile per una più efficace predazione. Lo schiavismo sarà l’addomesticamento del proprio simile. Inizialmente tutto questo era spontaneo e rispondeva alla costante sopra citata. Seguiranno, per fisiologica conseguenza, la pratica, la teorizzazione e perfino la scienza del capitalismo. Gli studiosi sbaglieranno nel definire tale “fenomeno” economia perché questo termine contiene nella radice etimologica (“amministrazione della casa” e, per estensione, di una comunità) il concetto di “giustizia distributiva” (come quella che l’amministratore di un nucleo affettivo di appartenenza, appunto, realizza per tutti i componenti del nucleo stesso, nessuno escluso).

Il capitalismo è nato come “predazione giustificata” da regole, imposte dai più forti e dal pregiudizio che il più forte fosse tale perfino per volontà di Dio e che quindi meritasse di più. Nelle aziende inglesi, dove bambini e donne morivano di stenti e di fatica si può perfino ravvisare una prima equivalenza di antropofagia. Le regole sono state aggiornate più volte - fino all’art. 41 della nostra Costituzione, oh quanto decantata! - e le modalità di sfruttamento si sono adeguate via via alla tecnologia applicata allo sfruttamento, ma è rimasto operante il “pregiudizio del principe”: il diritto di arricchirsi con il lavoro altrui, da qualcuno “reinventato” con il ridicolo principio della “meritocrazia”. Ancora tanti ci credono alle “spettanze predatorie” del libero professionista e dell’imprenditore. Ne è derivato il diritto di libera proprietà privata illimitata su cui si è strutturata e sussiste ancora la società borghese. Tale diritto dovrebbe essere limitato ed utile alla collettività - come recita l’art. 42 della Carta costituzionale - ma nella realtà, la parte “correttiva” di tale principio è rimasta - e non poteva non rimanere - lettera morta perché farla valere significherebbe fare quella “rivoluzione”, che i predatori non sono disposti a subire e che i predati non sono capaci di fare. Una collettività di antropozoi costituisce la “giungla antropomorfa”, in cui viviamo senza rendercene conto. Nemmeno Marx trovò un nome appropriato al capitalismo, che la biologia sociale chiama, sempre secondo logica semantica, “predonomia”.

Marxismo e biologia sociale sono concordi nel dire che il capitalista (il detentore dei mezzi di produzione, il più forte, in ogni caso) compra il lavoro (NON lo dà) al minor costo possibile, oggi con le tariffe sindacali - cioè approvate dal potere esecutivo - che hanno lo scopo di “legittimare” la predazione di fatto attraverso cui il padrone ha la possibilità di diventare sempre più ricco. Il valore del lavoro individuale non è quantificabile perché sempre più “sociale”: pertanto sono superflue teorie del plusvalore, del plusprodotto e così via. La società capitalista è un sistema “impresocentrico” e l’imprenditore è mosso dall’unico scopo del profitto parassitario.

Non è moralizzabile esattamente come la guerra. L’unica condizione perché non ci sia sfruttamento dipende da due realtà complementari: a) la statalizzazione dell’organizzazione del lavoro come produzione di beni e di servizi (libera restando la creatività senza lucro); b) uno Stato sociale ovvero “economico” ovvero socialista ovvero “di diritto” (già perché il capitalismo può essere praticato anche dal pubblico potere e NON essere socialismo, come dice la menzogna borghese). Fuori di queste condizioni, la predonomia impazza fino alla versione parossistica e selvaggia del neoliberismo globale, in cui tutto è merce legale, compreso il diritto alla vita e dove chiunque può comperare checchessia in un luogo qualunque (donde l’universalità, detta globalità). La tecnologia (strumento) è al servizio del più forte. L’antropozoo dominante diventa “padreterno” in nome della legge! (Vedi - paradigma intuitivo - la dinastia degli Agnelli!). Ciò non impedisce ai nostri “delegati” al bene del popolo di parlare di progresso civile, specie se rinnegatori del socialismo.

E’ stato inventato anche un “capitalismo monetario” che consente ai ladri legali d’investire e di moltiplicare all’infinito la “refurtiva”. E di refurtiva ne hanno così tanta da organizzatore giochi statali (enalotto ed altro) o privati (televisivi) con vincite milionarie. Le vittime di quella refurtiva sono i “venditori di lavoro”.

Per finire, tre considerazioni flash 1) la categoria bio-proletaria non coincide con la categoria bio-psichica (o bioetica) del rivoluzionario in senso socialista: il classismo non esiste. 2) la concorrenza (così cara ai sedicenti economisti) è un “rigurgito del mondo animale”. 3) la proiezione della concorrenza (s’intende alla predazione) in un contesto “tecnico-antropozoico”, porta, in campo internazionale, al peggiore degli imperialismi: una realtà che sperimentiamo tutti i giorni. Questa “consequenzialità” dimostra l’esattezza della lettura intuitiva, su cui si fonda tutta la biologia sociale.