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Riccardo Orioles
La Catena di San Libero
3 settembre 2006 n. 339
Autunno. Una parte dei siciliani - diciamo un terzo - è decisamente
contro la mafia e approfitta di ogni occasione per schierarsi e
contarsi. Un’altra parte, il 15-20 per cento, la accetta e ne
condivide non i valori (la mitica e tutto sommato folkloristica
"cultura mafiosa") ma gli interessi, dal commerciante protetto
all’imprenditore colluso. Il resto è palude, che si schiera di qua o
di là a seconda dei momenti e delle emozioni.
Il potere mafioso, come ogni dittatura, non opprime tutti: a una parte
della società - quella che Mario Mineo definiva "borghesia mafiosa" -
toglie dignità e cultura, ma concede privilegi sostanziali (ad esempio
l’abolizione della concorrenza) in una sorta di sanguinoso
protezionismo.
Non è vero che i commercianti di Palermo siano costretti a pagare il
pizzo: la maggior parte lo paga come si paga una tassa sgradevole ma
utile, avendone in cambio dei benefici. A Catania-periferia accadono
molte più rapine che in ogni altra città d’Europa, ma a Catania-centro
(cioè presso la borghesia mafiosa) le rapine sono rare, essendovi - a
pagamento - punite con la pena di morte.
Ecco: non c’è una Catania, una Palermo, una Sicilia: ce ne sono due.
Una sotto dittatura, una ligia al regime. Delle due, sociologicamente,
la prima è composta da lavoratori dipendenti e ceti medi, la seconda
da imprenditori, percettori di reddito e ceto "politico"
professionale. In più, poiché qui non esiste nè economia né mercato,
tutte le risorse economiche - piccole e grandi - sono "politiche",
cioè
distribuite dal potere. Producono, nello stesso momento, violenza e
consenso. Danno luogo a un regime articolato ma monolitico, in cui la
diversità delle funzioni (manganellare gli oppositori o celebrare i
valori della famiglia) non esclude una totale omogeneità. Più o meno
la situazione del ’36. Non si può essere antimafiosi "moderati",
esattamente come non si poteva essere antifascisti a metà.
* * *
In questa situazione, l’antimafia "normale" funziona ancora o serve
ormai solo a consolare? Le cerimonie, le celebrazioni, fanno ancora
danno al potere mafioso? Che cosa possiamo fare di più concreto?
Ci sono tre direzioni precise in cui possiamo impegnarci, tenendo
conto che, con un governo di centrosinistra, non siamo formalmente
privi di interlocutori. La prima è la vecchia e utilissima idea
dell’utilizzo popolare dei beni mafiosi confiscati. Un giudice che si
occupa del caso Tanzi, il pubblico ministero Francesco Greco, ha detto
qualche mese fa che le somme confiscate ai ladroni potrebbero essere
reinvestite e gestite, più o meno come s’è fatto con le proprietà di
Riina. Al Senato c’è un disegno di legge, ispirato dall’ex sindaco di
Corleone Cipriani, che prevede esattamente questo. Allo stato, non è
fra le priorità del centrosinistra. Ma potrebbe essere imposto dal
basso, se se ne facesse carico un movimento forte e screanzato.
In secondo luogo, bisogna mettere al centro dell’antimafia (e in
correlazione col punto precedente) la lotta contro la precarizzazione
della Sicilia, dei giovani siciliani. In Sicilia, più che nelle altre
regioni (e probabilmente anche prima) il concetto di lavoro dipendente
è sparito dal panorama sociale, sostituito dall’occupazione momentanea
("u travagghiu") senza diritti. Il lavoro precario rafforza
dappertutto le tendenze autoritarie e pre-keynesiane: in Sicilia, dove
l’autoritarismo è istituzionale e si chiama mafia, rende di fatto
impossibile qualunque alternativa politica, per eccesso di
clientelismo e di disgregazione. Mai il centrosinistra o qualunque
altra politica civile riuscirà a ottenere la maggioranza in un paese
in cui le famiglie e i giovani dipendono dal benvolere di questo o
quel politico per un anno e un altr’anno e un anno ancora di
sopravvivenza materiale.
Infine, bisogna individuare senza illusioni i settori mafiosi di massa
e intervenire adeguatamente. Pagare il pizzo deve diventare un reato
grave, che porta al sequestro dell’esercizio (e al suo riutilizzo per
fini sociali). Paesi a prevalenza mafiosa come Cinisi non devono
continuare a godere dell’uguaglianza di diritti col resto del paese ma
debbono essere sottoposti, per il periodo necessario, a regime
particolare. I politici condannati debbono rifondere i danni civili,
per lesione d’immagine, a tutti i singoli iscritti ai rispettivi
partiti che ne facciano richiesta.
L’antimafia, insomma, dovrebbe diventare meno simpatica e più
concreta. Incidere sulla società, anche con "prepotenza", perché la
società - la nostra società - si sta sfaldando. Non si possono fare
dibattiti coi delinquenti di Scampia o con Dell’Utri. Nè con chi li
rappresenta o gli è vicino. Qui, semplicemente, o noi distruggiamo -
socialmente - loro, o loro distruggono - socialmente e a volte anche
fisicamente - noi. Da questo punto di vista, non solo è debole la
politica del centrosinistra in Sicilia ma lo è anche, da dopo la
campagna elettorale, quella dell’antimafia organizzata. Adesso ci sono
dei nuovi interlocutori - i giovani del RitaExpress e di Addiopizzo -
e si spera che almeno loro sappiano muoversi senza compromessi e in
fretta e senza lasciarsi risucchiare dalla palude.
Giustizia. Marco Benanti è un giornalista catanese che, poiché a
Catania è proibito fare il giornalista, alla fine ha trovato lavoro
come operaio in una ditta che fa lavori di carico alla base di
Sigonella, la Algese2. Il padrone dell’Algese2 però ha saputo che
Marco aveva scritto in passato degli articoli pacifisti e quindi, per
non irritare gli americani, l’ha licenziato. C’è stata una causa di
lavoro e il Tribunale di Siracusa ha dato ragione al padrone,
confermando il licenziamento. Marco ha fatto appello. Il Tribunale ha
deciso che dell’appello si parlerà... fra due anni, nell’ottobre del
2009 (Anno LXXXI E.F., secondo il calendario di qua).
"A Catania non è stato imbavagliato questo o quel singolo giornalista,
ma un’intera scuola. Il giornalismo degli allievi di Fava, che aveva
prodotto decine di professionisti validi e capaci, è stato
semplicemente cancellato dai giornali, dalle tv e dall’università. Via
da Catania, o la fame. Un culturicidio di massa, di cui è responsabile
la destra (collusa coi poteri mafiosi), quasi tutta la sinistra
ufficiale (zitta e muta in cambio di qualche briciola) e l’orrida e
provinciale casta degli intellettuali catanesi, in confronto a cui le
prostitute e i viados sono modelli di indipendenza e dignità".
Gelatai di tutto il mondo unitevi. Da oggi i gelatai d’Italia hanno un
alleato in piu’: e’ il pinguino di Linux, che essendo notoriamente
amante del freddo ha pensato di aiutare le gelaterie a tenersi in
tasca i soldi che altrimenti avrebbero dovuto versare alla Microsoft e
alla Siae. Il trucco e’ semplice: basta mettere in negozio un computer
con un sistema operativo libero e gratuito (Linux, per esempio) e poi
dargli in pasto musica rilasciata con licenze di libero utilizzo
(Creative Commons e non solo). In questo caso chi ci rimette e’
soltanto la Siae, che di fronte all’utilizzo di sistemi operativi e
musica liberati dalla gabbia del copyright non ha potuto fare altro
che prendere atto della situazione e autorizzare a tempo indeterminato
la diffusione pubblica di musica d’ambiente "free" senza chiedere
nessun compenso. Il tutto e’ stato messo nero su bianco in un
documento del 25 luglio scorso, protocollato presso l’Ufficio
Multimedialità della Siae con il numero 1/290/06/FDP.
Grazie a questa piccola ma significativa battaglia legale c’e’ una
gelateria di Roma, nel cuore di Trastevere, che al posto di versare
soldi alla Siae ha allestito uno spazio multimediale con impianto
stereo e monitor LCD totalmente gestito da un computer con sistema
operativo Linux, dal quale vengono diffuse opere audiovisive di
pubblico dominio.
Per aiutare anche altri esercizi commerciali a liberarsi dai balzelli
Siae il network Frontiere Digitali ha realizzato sul proprio sito uno
sportello elettronico di consulenza che fornisce informazioni
dettagliate su tutte le procedure burocratiche da seguire. Gli autori
di musica e video "liberi" possono segnalare via web la propria
disponibilita’ all’uso gratuito delle proprie opere in tutte le
gelaterie e i negozi che sceglieranno di praticare l’autoliberazione
dalla schiavitu’ del copyright. [carlo gubitosa]
Bookmark: www.frontieredigitali.net
Ansa. Agrigento. Un gatto è entrato dentro una villa alla periferia di
Licata e ha aggredito una famiglia composta da quattro persone. Padre,
madre e due figli hanno tentato di allontanare l’animale che si
trovava nel soggiorno della casa ma il felino si e’ inferocito. I
quattro si sono barricati nella camera da letto e hanno chiamato i
vigili del fuoco che hanno catturato il gatto.
L’arte di raccontare e il mestiere di diventare uomini.
Li vediamo crescere, quotidianamente. Li ritroviamo a lezione,
imballati per la timidezza, mentre rimuginano un intervento, una
domanda che poi rimanderanno giù. La mattina dell’esame si presentano,
con il volto segnato dopo una notte da Getsemani, e c’è sempre
qualcosa che non va bene: l’emozione, il docente sadico, un collega
premiato troppo. Si indignano, alcuni, altri scrollano le spalle.
Spesso ciondolano per i corridoi della Facoltà: discutono, prendono
cotte, litigano. Diventano - lentamente, impercettibilmente - adulti,
mentre il filo esile delle loro emozioni si fa corda robusta, alzaia.
E accade, a volte, nel mito fordista che questa università impone
produrre laureati, il maggior numero possibile, nel minor tempo
possibile di perdere il senso del percorso umano di questi ragazzi.
Di rigettare come una fastidiosa zavorra l’unica domanda che davvero
importa: e dopo, cosa li aspetta?
Questa, in principio, doveva essere una garbata presentazione. Una
diligente relazione su un lavoro compiuto durante un laboratorio, uno
dei tanti, Il reportage tra giornalismo e narrativa. Avrebbe dovuto
stilare un rendiconto puntuale delle ore di lavoro, degli obiettivi
realizzati, di quelli mancati. Poi presentare discretamente la rubrica
che da tale lavoro nasce: La città invisibile, che vedrete scorrere di
giovedì in giovedì per tutta l’estate su questo giornale. Una raccolta
di reportage sulla città di Catania: i suoi figli meno coccolati, le
sue ferite frettolosamente suturate e sottratte alla vista, le sue
voci soffocate, o solamente inascoltate per un vizio d’abitudine.
Avrebbe dovuto, infine, intonare una moderata soddisfazione per
l’attività svolta, e augurarsi come da rito che l’esperienza
potesse proseguire per l’anno prossimo.
Tutte cazzate, con rispetto parlando. Perché, una volta tanto, qualche
pensiero deve essere pure speso per loro, per i nostri ragazzi: non
solo per riconoscere il merito di una crescita costante e silenziosa.
Anche per chiedersi, in onestà, a cosa servirà loro questa esperienza.
Hanno imparato che si può domare il linguaggio, irrobustire lo stupore
e le emozioni dei loro vent’anni attraverso un uso cosciente della
parola. Limando l’esuberanza degli aggettivi, smussando la legnosità
di certe frasi rituali. Hanno mosso, faticosamente, i primi passi di
un percorso: risentendosi per delle correzioni forse troppo aspre,
difendendo i termini che avevano scelto, accettando di riscrivere lo
stesso pezzo quattro, cinque, sei volte, rifuggendo alla tentazione di
fabbricarsi alibi. Hanno imparato a non essere premiati per lo sforzo,
ma solo per la qualità dei loro articoli. Qualità su cui voi stessi
giudicherete, leggendo. Qualità che vibrerà forse come una corda
stonata, in questa città assonnata, abituata a tacere: e avvezza, nel
proprio silenzio, ad accordarsi splendidamente con la mediocrità del
quotidiano locale.
Resta dunque, al di là dell’orgoglio e della commozione con cui li
abbiamo seguiti, la preoccupazione di quanto servirà loro questa
capacità acquisita. Il sospetto che, forse, sarebbe stato meglio
insegnar loro a cantare le priapesche virtù o i trionfi amatori del
signorotto di turno come leporelli o, persino, come tonizermi
qualunque per inserirli più opportunamente in lista d’attesa per il
mondo del lavoro. Insegnare loro l’arte del silenzio, del pudore e non
quella della parola: formare discreti, appetibili pennivendoli.
È che adesso, forse, lo possiamo confessare non è mai stato nelle
nostre intenzioni sfornare, malinconicamente, giornalisti disoccupati.
Volevamo, innanzitutto, provare a formare uomini liberi. Perché
abbiamo creduto, sempre creduto, nella forza rivoluzionaria della
parola. Nella capacità di resistere, attraverso essa, alle verità
precostituite, ai silenzi pelosi. Perché riconosciamo nelle pulsazioni
vitali della nostra lingua un continuo atto di resistenza contro la
mediocrità del mondo che ci circonda. Perché crediamo che imparare a
definire la realtà che ci sta attorno da Adamo in poi, dalla Genesi
in poi sia un modo per prendere coscienza di essa. E per dominarla.
In principio era il Verbo, recita l’incipit di uno dei best seller
della letteratura di tutti i tempi. E di quest’affermazione,
riconosciamo come Sepúlveda una verità filologica, prima ancora
che teologica: la parola come atto di fondazione della realtà, per cui
le cose esistono solo dal momento in cui sono nominate. Crediamo che
la tecnica dello scrivere e del raccontare sia uno dei modi attraverso
cui imparare il mestiere di vivere. Vivere nell’unico modo che
riconosciamo possibile: con gli occhi aperti, con i sensi desti.
Vivere da uomini liberi. Per questo dei nostri ragazzi siamo fieri.
Saranno meno indifesi di fronte al bombardamento mediatico di isole,
case, fattorie, salotti patinati nella forma, finti nei contenuti,
fedeli a se stessi e alla propria volgarità nel linguaggio.
Saranno più atti a resistere, perché «raccontare è resistere». Così ci
è stato insegnato, e così abbiamo tentato di insegnar loro.
Già: c’è sempre, dopo ogni segmento di cammino percorso, l’abitudine
di tirare il fiato, voltarsi indietro, e guardare, con soddisfazione,
il punto da cui si era partiti. Più lontano il punto, più pastosa la
soddisfazione. Così anche per chi vi scrive. Credere, sperare di aver
fatto crescere degli uomini e, poi, rivolgere il pensiero a Giuseppe
Fava. E a Claudio, Miky, Riccardo, Gianfranco, Sebastiano. Ricordare,
come ogni volta, i compagni e l’esperienza de I Siciliani. Non come un
tributo, ma semplicemente per l’esigenza di tracciare una geometria
che restituisca il senso di un percorso comune: con la certezza che
nulla, di quello che è successo, è accaduto invano, se dopo ventun
anni ancora cova la voglia di scrivere, il rifiuto di tacere. E nulla
è, infatti, accaduto invano, se alla fine è pensando al Direttore che
anche questo sforzo riacquista un suo significato. Questo, come ogni
altro. [fabio gallina]
Rinaldo
< Ti seguo ormai da anni con vivo interesse e sebbene a volte
assolutamente faziosi leggo con piacere i tuoi interventi. Alle ultime
elezioni regionali ho sperato come voi in una vittoria schiacciante di
Rita Borsellino, sebbene non sia Siciliano. Beh, la vittoria non c’è
stata, anzi abbiamo subito una terrificante sconfitta. Quella
elezione, a mio avviso, non era un confronto tra centrodestra e
centrosinistra. Ma era un referendum: Mafia SI-NO. I Siciliani forse
non hanno scelto la Mafia, ma sicuramente hanno scelto di non voler
cambiare. Non penso che in futuro per la Sicilia ci sarà un’altra
possibilità di cambiare così radicalmente. L’occasione è stata
irrimediabilmente buttata alle ortiche. In te vedo una grande voglia
di fare di cambiare, ma mi sono convinto che la maggior parte dei
cittadini Siculi, questo cambiamento non lo vogliono. La mia domanda
per te è: in totale sincerità credi veramente che in Sicilia cambierà
mai qualcosa? Io sono sicuro di no >
tillneuburg@virgilio.it wrote:
< Sono due anni che hanno ucciso Enzo. Lo sgomento, la rabbia,
l’enorme buco, sono sempre lì. Non si è ancora cicatrizzato.
Queste scarne righe le scrivo da un nascondiglio. Oggi non voglio
vedere e sentire nessuno. Voglio stare solo con i miei ricordi. I
ricordi che Enzo ha inciso nella mia durissima testa.
I suoi assassini sono sempre lì. Nell’Iraq, a Washington e a Roma.
Ogni giorno il loro ghigno mi persegue. Li vedo, li sento, li leggo in
troppi posti.
Eppure, dalle foto Enzo continua a sorridermi. E io voglio ricambiare
quei suoi sorrisi. Ci provo con sforzi immani - chissà se dalla mia
faccia indurita e stiracchiata uscirà qualcosa di amichevole, di
bello, di solare.
Non c’è nessuna frase strafatta, nessun rito, nessun dio che mai mi
ridarà quei momenti che ho passato con lui: si rideva tanto, forse a
volte si scriveva tantissimo, ma sicuramente ci piaceva lasciarci
andare come due adulti alle prime armi. Quanto mi mancano quelle
deliziose cazzate, quegli sguardi di complicità, quelle curiosità da
bambini che vogliono capire come funzionano le cose.
Chi scansa con attentissimi zigzag i misteri dello zodiaco, del
successo e delle chiese, a volte riesce a incocciare nell’unico
mistero che vale la pena di celebrare: l’amicizia. Ho avuto la fortuna
sfacciatissima di godere per anni della sua. Un’amicizia che non
faceva mai rima con malizia o furbizia. Era solo grande e grossa come
lui.
Sono due anni che hanno arpionato una balena che ballava nelle acque
sbagliate. Nelle acque dove la calma piatta della violenza e
dell’ipocrisia sono l’immobile sciabordio della stupidità.
Ma noi continuiamo cocciutamente a leggere ad alta voce Moby Dick.
Bookmark: http://bloghdad.splinder.com/
Berto Barbarani wrote:
I VA IN MERICA
< Fulminadi da un fraco de tempesta,
l’erba dei prè par ’na metà passìa,
brusà le vigne da la malatia
che no lassa i vilani mai de pèsta;
ipotecado tuto quel che resta,
col formento che val ’na carestia,
ogni paese el g’à la so angonia
e le fameie un pelagroso a testa!
Crepà la vaca che dasea el formaio,
morta la dona a partorir ’na fiola,
protestà le cambiale dal notaio,
una festa, seradi a l’ostaria,
co un gran pugno batù sora la tola:
"Porca Italia" i bastiema: "andemo via!"
– Drento l’Otobre, carghi de fagoti,
dopo aver dito mal de tuti i siori,
dopo aver fusilà tri quatro goti;
co la testa sbarlota, imbriagada,
i se dà du struconi in tra de lori,
e tontonando i ciapa su la strada >
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