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La Liberazione e le comunità che resistono

Publie le martedì 24 aprile 2007 par Open-Publishing

La Liberazione
Pierluigi Sullo

Sono stato lo scorso week end a Udine, per un incontro su comunità e decrescita: quattrocento persone che ascoltavano Luca Mercalli e Mario Agostinelli, Giulio Marcon, Pierluigi Di Piazza e il sottoscritto, un convegno organizzato dalla Rete Radié Resh [in particolare dal nostro amico Toni Peratoner] e dal Centro di accoglienza Ernesto Balducci [per migranti, gestito da Di Piazza, che è prete]. Il tutto, per altro, si svolgeva in una grande e bella sala che era in verità una chiesa, e noi eravamo appoggiati a un grande tavolo di legno che in altri momenti funge da altare. In sala persone di ogni genere, giovani e anziane, di sinistra e no, attente e pronte al contraddittorio, che parevano essere in una naturale sintonia con i discorsi sui disastri dello "sviluppo" e con la necessità di un altro genere di democrazia basata sul "luogo", come ha argomentato Mario.
Tutta questa gente si scaldava poco e solo a proposito, ma ha sottolineato con un grande applauso l’annuncio della manifestazione del 25 aprile a Torviscosa, paese friulano. Avevo già letto la notizia sul nostro nuovo supplemento del nord est [che si chiama CartaQui EstNord, al rovescio, perché noi siamo spiritosi], ma sentirla raccontare mi ha entusiasmato. Ho pensato, guardando quelle centinaia di persone, che qualcosa di profondo sta accadendo al di sotto della linea di tiro del war game della politica, quello in cui nascono, per guardarsi allo specchio, i partiti democratici e quelli delle libertà.
A Torviscosa i cittadini locali e quelli dei comuni vicini, e molta altra gente da tutta la regione, "ricorderà la Resistenza - hanno spiegato - resistendo alla distruzione del territorio". Tanto semplice da sembrare geniale. La ricorrenza più densa di storia della nostra repubblica, quella che i partiti-azienda dei nostri giorni non riescono a digerire, mostra una nuova faccia: al di sotto del potere, e contro il potere, quale che esso sia [in questo caso il dominio dell’economia fiancheggiato da "rappresentanti" sempre meno legittimi], la gente, i cittadini, fanno da sé. Si liberano.
Il punto in questione è la nascita di un grandissimo cementificio, e di altri impianti industriali, che avvelenerebbero l’aria, taglierebbero a fette il paesaggio, renderebbero insopportabile il traffico di camion. E, di più, il cementificio sarebbe la prima pietra della linea Tav, dello stesso Corridoio 5 europeo che dovrebbe passare per la Val di Susa, che il presidente della Regione, l’industriale Illy, vuole ad ogni costo si faccia, tranciando il Carso e il suo territorio bucato naturalmente come un groviera. Una pazzia degna del tunnel della Val di Susa, o di quello del Brennero. Cui i sindaci tutti diessini del circondario non si oppongono, perché il loro [nuovo] partito, detto democratico, è la falange della "crescita economica". Perciò i cittadini si impossessano legittimamente dei simboli della Liberazione e ne fanno un modo per mettersi in relazione tra loro. Che è, del resto, ciò che è già accaduto all’altro capo del Nord, dove i valsusini coltivano con grande affetto i ricordi della loro, di Resistenza, che è stata tra le più forti.
Le comunità che resistono allo "sviluppo" hanno una loro sapienza, e una loro memoria, la loro conoscenza dei luoghi, e sono fatte non di "militanti", ma di persone che semplicemente vivono le loro città e i loro territori, e sanno di dovervi vivere associandosi. Non amano il linguaggio della politica perché esso allude a un mondo che sta scomparendo, e quindi è sconnesso e spesso ipocrita, vanta la "crescita" e allo stesso tempo lamenta i disastri come la siccità che uccide il Po, rifiutandosi allo stesso tempo di mettere in mostra il nesso di causa ed effetto che esiste tra questi due fatti. I cittadini e le loro comunità, invece, sperimentano ogni giorno i nuovi problemi, la gestione dissennata dell’acqua e la saturazione del territorio, l’urbanistica di rapina e l’aggressione all’agricoltura non industriale, e così via. Perciò i quattrocento di Udine erano lì, perché qualcuno li aiutasse - se ne è capace - a rendere coerente ciò che sanno per esperienza, e per cercare l’uscita di sicurezza. Ossia ciò che si può chiamare un’altra politica.

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