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Federico Fellini disegnato da Milo Manara
La Roma di Fellini tra festa e disordine
Furio Colombo
Un immenso disordinato fiume di vita corre con ebbrezza ma senza ragione da un punto all’altro, disegnando cerchi che sono sempre diversi, una sorta di scorribanda per ragioni non chiare ma piene di vita, di affollamento e di concitazione. A volte la scorribanda è vissuta come un obbligo misterioso, a volte come una festa. Il territorio è quello pieno di sorprese e delusioni, di istanti bellissimi e malinconiche soste di una città vera e inventata.
Ma questo è il fatto curioso. Solo le soste sono malinconiche e pensose. Si direbbe che c’è sempre una consolazione, o almeno una soddisfazione, nel continuare ad andare, come il piroscafo Rex che passa come un monumento di cartone illuminato davanti a Rimini in Amarcord, come nel tentativo di riprodurre all’infinito la perfezione perduta di Ginger e Fred.
Sto parlando di Roma, il film di Fellini che forse più di tutti dà la misura del cinema felliniano: la estensione fisica del suo orizzonte, del suo mondo immaginato, che è altra cosa dal suo estro, dalla sua fantasia, dalla sua capacità di inventare a partire da qualunque dettaglio.
Roma è un film vasto, escursione in una immensa metropoli in cui vivono sullo stesso piano (con contiguità fisica, non per sovrapposizione temporale) tutte le epoche, tutti gli umori, tutto ciò che ha costruito, tutto ciò che ha distrutto, ma anche tutto ciò che ha immaginato, sperato o temuto. Roma non è un viaggio dentro o intorno a Roma, ma è un viaggio nel tempo che magicamente si realizza girando freneticamente e in tutti i modi intorno a Roma come in uno strano pellegrinaggio, a piedi, in auto, in moto, in tram, o anche seduti su due sedie fra i binari del tram, come i due americani Gore Vidal e Alice Oxman che conversano in mezzo al traffico come in un fantastico spot. In questo senso Roma è unico nel cinema di Fellini, perché è un grande documentario di fantasia che diventa fiction, ma anche una grande fiction che diventa documentario.
Provo a spiegare. Roma è documento di se stesso, il film, di un’epoca fondata su una immensa fuga di massa che, per non finire, deve continuamente girare su se stessa. Ed è preannuncio di un futuro in cui l’affollata e colorata e festosa e drammatica e triste e felice camminata sul posto di questo film sarà «il destino». Il film come documento di se stesso si manifesta nel modo in cui Roma è filmato: si muove la camera, si muove la luce, si muovono le masse di persone, si muovono le scene, si muove il tempo, che non sta mai fermo fra passato, presente e presentimento. Roma è il film di un’epoca perché è stato pensato e girato in un momento immensamente disordinato della vita italiana, quando ogni cosa accaduta, compreso il miracolo economico è - nello stesso tempo - modo di vita e dimenticanza. Sono gli anni in cui la festa sta per rabbuiarsi nel torvo decennio degli anni di piombo, quando l’alto e il basso della vita, sia nel senso delle gerarchie che di una graduatoria di valori, è diventato un grande piatto che gira con sopra, a gruppi, come in una strana giostra, varie aggregazioni di vita, viste tutte, esclusivamente nella loro immagine fisica, senza sapere o cercare quel che c’è dentro, anzi mettendo in guardia dal volerlo sapere. E così irrompono le orde di motociclisti che improvvisamente circondano Roma girandole intorno. Ma non sono documento o argomentazione sociologica. Ci sono, corrono e basta. E il senso di ciò che avviene consiste nella nostra partecipata meraviglia mentre guardiamo, come testimoni di un fatto nuovo. Il film di Fellini narra caos, porta caos e preannuncia caos. La città è caos, vivere insieme è caos, la civiltà di massa è caos, irrompere nel territorio senza ragioni e senza domande o piani o progetti è caos. Il disordine è la forma naturale del futuro, non il ritratto di una città. Se mai Roma, per Fellini, è la metafora fisica di ciò che è e sarà la città. Città vuol dire umanità, vuol dire come si vive e si vivrà insieme, vuol dire ciò che è fisico, reale e costituisce allo stesso tempo tutto lo spazio e tutto il limite, il supremamente bello (soprattutto il cielo, la natura, la pioggia, i paesaggi) e la provocazione volgare, che però Fellini riesce sempre a trasformare in una sorta di festa, per quanto barbara.
Poiché ero presente quando sono state girate molte delle scene e delle sequenze di Roma, posso testimoniare in che senso il film è documentario. Fellini inquadrava la città vera, quasi mai nei punti della sua stupenda e celebrata classicità, ma nelle piazzole di sosta della vita, dove gente vera organizza i suoi gesti e i suoi momenti di vita. Guardava a quelle «scene» già spontaneamente composte come si guarda a un presepio. Ma nel definire inquadrature e sequenze, fermava e poi metteva in moto tutti i gesti e i movimenti della vita secondo Fellini, trasformando tutto, con la sua potenza sorniona, nel suo film. Dunque non un cinema-verità ma la verità sul cinema, che è sempre invenzione. Il vero documentario filmato in Roma, dunque, non è sulla città ma è su Fellini. Questo film ci dà di lui e della sua genialità molti dati in più rispetto a ogni altro film. Provo a elencarli. Primo, la fantasia grandiosa e grottesca di Fellini non si sovrappone alla realtà e allo stesso tempo non rende omaggio alla realtà per ciò che sembra. Piuttosto ne fa emergere, quasi alchemicamente, la natura grandiosa e grottesca, cosicché Fellini e la vita che filma si corrispondono come le due parti di una sfera magica. Secondo, è vero che Fellini è infido, nel senso che cambia tutto e che il suo racconto non è mai un verbale. Ma la forza rivelatrice dei suoi cambiamenti colpisce specialmente adesso, a distanza di tanto tempo. Chi avrebbe scommesso sul caos come condizione regolare di vita (da qui a Washington allo Heathrow Airport di Londra alle sterminate code per il controllo di dentifrici e suole di scarpe negli aeroporti)? Chi avrebbe scommesso che quell’orda di motociclisti che si scatena senza ragione nel vento e nella pioggia - e che costituisce in sé «il bello» ammirevole di una invenzione cinematografica, sarebbe stata, ogni santa mattina, la folla dei «commuters» (intorno a Roma, o Parigi o New York) che sta muovendosi verso qualche forma di «lavoro» molto meno produttiva e memorabile di quel continuo formidabile esodo?
Chi avrebbe capito, allora, che la «sosta accanto alla vita», elegante e becera, che sono le varie parti del film, sarebbe diventata la vita e basta? Terzo, Fellini è un profeta allegro, evento rarissimo, ma la sua profezia, pur bella e piena di colori e di sorprese e di eventi, non è allegra. Quel movimento continuo non è che la rappresentazione di una grande nervosa fermata in punti del mondo che sono allo stesso tempo familiari e sconosciuti, protettivi e pericolosi, un colpo di pigrizia e uno di audacia, uno strano rischio di cui non conosciamo nulla, né il nome né il reale pericolo.
Ma nel film allegro c’è allarme. E noi siamo qui a rivederlo nel giorno in cui un Papa che sarebbe piaciuto immensamente a Fellini, denuncia allarme, provoca allarme e poi ritira l’allarme nella speranza che si fermi quell’immensa felliniana protesta del mondo che chiede con furore e violenza di ripetere scuse per evitare furore e violenza. Rivedere Roma, dunque, non è solo un atto di omaggio al grande regista italiano Federico Fellini, un maestro di cinema del mondo. È anche un modo per salire su una bella e strana macchina del tempo: rivedere una straordinaria fantasia del passato per capire i giorni, i luoghi, gli eventi in cui stiamo vivendo. La Roma di Fellini non sarà eterna come la città in pietra che dura sfacciatamente da millenni. Constaterete, però, che il film di Fellini continua.
Pubblicato il: 19.09.06