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La carenza da nemico

Publie le venerdì 26 agosto 2005 par Open-Publishing

Dazibao Movimenti Guerre-Conflitti Francia Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Una sera in un grande dibattito a Parigi ero uno dei pochi completamente d’accordo con i due contraddittori, Baudrillard e Virilio, che pure erano d’accordo nel dire che le coppie funzionano così, la crisi dell’est è anche l’inizio della crisi del poloovest, tutto il discorso ormai banale sulla carenza da nemico. In Italia l’unico ad averlo capito tra i politici era stato Cossiga. Craxi si era illuso che fosse giunto il momento della sua vittoria, ma si sbagliava. Perché immediatamente compare un altro motivo di inquietudine. Ci sono sempre i temi che dominano una certa epoca, io ricordo negli anni ’50-’60 il rischio dell’olocausto nucleare.

E compaiono i primordi di quello che oggi si chiama l’unilateralismo, l’egemonismo americano: la guerra del Golfo in qualche modo introduce il criterio della guerra giusta, della guerra del diritto. E persino Ingrao arriva a dire una stronzata come capiremmo se fosse un’operazione di polizia internazionale, ma non proprio la guerra*, quando era esattamente il contrario. Questo andava detto e non lo diceva nessuno. Io l’avevo scritto in un libro collettivo curato da Lefebvre.

E allora il trend, soprattutto in Italia, gira. In fondo sono le stesse persone, e di nuovo c’è solo una specie di rinnegamento del rinnegamento. Non è più molto alla moda il cinismo, quello che faceva dire a Bifo i peggiori anni della nostra vita, roba da Milano da bere. Ma invece di operare una correzione si procede con un errore simmetrico e viceversa, ed è terribile. Con la guerra del Golfo, allora comincia un’operazione in cui sul buco della lobotomia della teoria del plusvalore, si inseriscono ideologie di sostituzione che in realtà non sono delle articolazioni ma delle estensioni. La problematica dei femminismi - nella forma emancipativa - poteva essere già presente, forse poco, in Marx, ma l’ecologismo nella sua base viene da una scienza, non poteva essere presente all’elaborazione marxiana né dei suoi contemporanei, quindi è un arricchimento, e così i movimenti, sempre che non diventino quello va bene perché va bene oggi, quello invece è superato perché questo lo dicevamo da giovani.

*Del pacifismo

Il grande pacifismo transnazionalista dell’inizio del secolo e soprattutto della sua epopea nel ’14 - e possiamo metterli tutti: la versione alla Jean Jaures, quella anarchica o quella bolscevica - si regge sulla premessa dell’internazionalismo proletario, quello del film e del libro Uomini contro, con Gian Maria Volonté, del libro Un anno sull’altipiano, in cui il discorso è perché dobbiamo scannarci tra proletari che parlano lingue diverse mandati allo sbaraglio nella guerra di trincea da generali che ci usano come carne da cannone, e invece lo dobbiamo fare in nome e per conto di gente, che poi sono tutti cugini, e si ritrovano al tavolo della pace, e invece non dobbiamo fraternizzare fra noi, e rivolgere le armi contro il nemico, che marcia alla nostra testa.

Quello era forte, ma un pacifismo senza rischi è un trucco aberrante. Il pacifismo rivoluzionario proletario, l’antimilitarista, non era pauroso e col rischio zero, diceva guerra alla guerra, e poi, con Lenin, trasformare la guerra interimperialista in guerra di classe; in guerra sociale dicevano invece gli anarchici. La premessa era quella, poi si può vincere, si può perdere. Lo testimonia la vicenda italiana, l’interventismo democratico alla Salvemini, e Mussolini, che non è un fanatico ma un avventuriero, transita per lì, finanziato dai francesi e questo gli permetterà di prendere l’egemonia di un movimento e di proporre uno specchio in cui autoriconoscersi ai cafoni del sud, come mio padre, reduci dalla guerra di trincea. Sono pochi quelli come mio padre che diventano socialisti o comunisti. A gran parte si propone una rotazione degli assi: non è più la classe, è l’Italia la grande proletaria, con il vittimismo della vittoria mutilata. E questi non si vedono più come i cafoni, i terroni che avrebbero interesse ad integrarsi con gli operai dell’occupazione delle fabbriche di Torino ma anzi li vedono come quelli che erano imboscati durante la guerra e si autodefiniscono come reduci e tutto si gioca nel diciannovismo, nella complessità della vicenda di Fiume.

Invece il pacifismo degli anni ’50 e quello della battaglia sui Pershing cos’era? Nessuno dei pacifisti solidarizzava con eventuali pacifisti sovietici, anche perché non ce ne erano, li mettevano in galera subito. Ma è diverso, si diceva che i Pershing erano intrinsecamente cattivi invece gli ss20 andavano bene. E così un certo tipo di terzomondismo, anche quello è un’ideologia di sostituzione, non è più un corollario ma sostituisce qualcosa che è stato lobotomizzato, e quindi ecco che dal terzomondismo sviluppista si passa a un discorso Nord Sud. Conta poco se rischiano, dove nascono, a sinistra, esiti di destra, diciamo anche sul terreno del relativismo culturale o del etnoculturalismo. Si legga Dumond e la sua critica dell’universalismo, sull’individualismo dell’occidente. Sono interessanti, ma cortocircuitate volgarmente in una specie di nuova falsa coscienza ideologica politica diventano terribili, è come se ritornassero gli anni ’80 e il voltagabbanismo, ma si va - se è possibile - ancora al peggio, è una specie di malinteso, di melange di ideologie e di ritorno nostalgico un po’ snob e poi di nuovo di elementi cattogiacobini, di elementi rossobruni o di fascismo del tipo peggiore perché non riconosce le proprie fonti.

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