Home > La complessità storica dietro quel muro
La complessità storica dietro quel muro
di Simone Oggionni
Non sarei sincero se non riconoscessi che l’aspetto che più mi ha colpito dei tanti interventi a cui Liberazione ha dato spazio in risposta al mio articolo del 13 dicembre scorso sulla proposta di tessera 2009 dei Giovani Comunisti è stato il carattere strumentale e francamente calunnioso di alcune affermazioni. Quando Piero Sansonetti scrive che «Oggionni [...] sostiene che spingerà molti ragazzi [...] a non prendere la tessera» afferma il falso. E temo lo faccia consapevolmente, provando a portare ulteriore acqua al progetto dissuasivo (non iscrivetevi ai Gc e non disturbate il manovratore) di chi ha congegnato la tessera. Quando Rina Gagliardi si rivolge a chi ha espresso riserve su quella tessera parlando di «compagni che sognano Honecker o Breznev o Ceausescu» compie una caduta di stile grossolana, offendendo la nostra e la sua intelligenza.
Quando Gaetano Cataldo mi chiede se sarei fuggito da Berlino Est con lui o gli avrei impedito la fuga involgarisce il suo argomentare con l’insinuazione di avere a che fare con un poliziotto di regime. Tutto questo - e altro - non aiuta un dibattito che, al contrario, era sorto con l’obiettivo di riflettere sull’opportunità politica di stampare tessere con un’immagine così emblematica ed evocativa e, secondariamente, con l’intento di avviare una discussione critica riguardo a un evento oggettivamente dirimente per la nostra storia e la nostra identità.
Proviamo a ricapitolare: nell’organizzazione giovanile c’è un esecutivo che, sulla base del breve intervento di un compagno svolto nel corso di un’assemblea organizzata durante il campeggio estivo (senza dunque una discussione negli organismi dirigenti e nei territori) decide di predisporre una tessera recante l’immagine del Muro di Berlino crollato. C’è, in risposta, un appello firmato ad oggi da oltre cinquecento compagne e compagni che propone un’altra immagine, e cioè un riferimento al quarantesimo anniversario del 1969, anno dell’incontro tra l’insorgenza studentesca e le lotte operaie. Quali argomentazioni si producono con l’appello?
Essenzialmente due: che la caduta del Muro di Berlino è un evento complesso, polisenso, che ha assunto un valore simbolico alquanto problematico, se è vero che tra di noi ci sono opinioni differenti e se è vero - come è innegabilmente vero - che l’iconografia della destra (anche neo-fascista) lo utilizza da venti anni per dare forme al proprio immaginario. E che esistono tante soluzioni migliori, che hanno il pregio di essere inequivocabilmente rappresentazioni condivise della nostra comunità politica (come, per esempio, il riferimento all’«autunno caldo» del ‘69).
La risposta a queste argomentazioni (che mi paiono di semplice buon senso) è stata, sulle pagine di Liberazione, la difesa a quadrato del giudizio ideologico espresso con la proposta della tessera e, contestualmente, l’attribuzione a chi aveva avanzato una critica di retropensieri nostalgici, saltando a piè pari il riferimento al valore simbolico assunto, nel corso del tempo, dall’immagine del Muro. Il crollo del Muro di Berlino è divenuto così, in questa nostra discussione, un fatto incontestabilmente positivo, «il simbolo della libertà che avevamo finalmente conquistato» e del fallimento di una «brutale oppressione» e della «tirannia dei partiti unici» (Gagliardi), l’emblema del crollo di un «sistema di dittature» (Sansonetti).
A dover fare riflettere è - a mio parere - il carattere apodittico di tali convinzioni (che inducono a tacciare di «revisionismo storico», come ha fatto Rina Gagliardi, chi non le condivide, quando ad essere «revisionistica» è proprio l’assunzione della categoria di «dittatura» e l’implicita equiparazione, in base a questa, delle molteplici esperienze del comunismo mondiale e dei regimi reazionari di stampo fascista). Perché parrebbe istituire una frattura ormai definitiva tra chi la esprime e i fatti che sono oggetto del giudizio. Perché sembra indicare che, in questo riflettere sugli errori e finanche le tragedie della nostra storia, si sia consumata una «separazione» non più ricomponibile, al punto che l’esperienza storica del socialismo reale (con - ripeto - i suoi fallimenti e i suoi drammi) non ci riguarda più, non ci appartiene più.
Scorgo, nel fastidio con cui si è costretti a discutere nel merito di un evento storico epocale (che ha la sua «verità» nelle cause che lo hanno prodotto e nelle conseguenze che ne scaturiscono, giacché la storia è sempre concatenazione dialettica di eventi), la fretta di archiviare, rimuovere, chiudere i conti con un passato scomodo appunto perché non lineare, non pacificato.
Avremmo bisogno invece di un approccio differente e cioè critico, che muove dall’analisi puntigliosa di ciò che è accaduto (prima, durante e in conseguenza dell’implosione di quei sistemi) per porre su nuove basi la nostra ricerca di una società differente e migliore di quella capitalistica.
Avremmo bisogno di un approccio critico, senza reticenze, e cioè di chiamare con il proprio nome le sciagure della repressione, della negazione della libertà e degli spazi di democrazia (ché nella forma c’è già parte della sostanza), il dramma autolesionistico della burocratizzazione e della sclerotizzazione della dialettica civile; di fare i conti con modelli produttivi pachidermici che hanno fallito proprio sul terreno dello sviluppo e del dinamismo economico; di segnare seccamente la distanza dall’irrigidimento ideologico del marxismo, dalla degenerazione fideistica del rapporto tra masse e Partito, dalla riproduzione, anche all’interno delle società socialiste, della dicotomia tra dirigenti e diretti; di contestare alla radice, ancora, la logica repressiva esercitata nei confronti delle culture critiche e delle spinte all’auto-riforma.
Ma è questo stesso approccio critico che ci impone di indagare le ragioni che hanno condotto all’erezione di quel muro, di approfondire l’analisi delle condizioni che si sono determinate, sul piano interno e internazionale, in quella lunga fase di contrapposizione tra blocchi e di comprendere, infine, ciò che si è prodotto con la demolizione del Muro e con la successiva affermazione incontrastata del modello capitalistico.
Chiarita questa impostazione, chiedo: è un’eresia affermare che in quel 1989 - nonostante ciò che fu preconizzato anche a sinistra - principiò ad affermarsi su vasta scala un capitalismo incompatibile con il permanere delle grandi conquiste sociali che avevano segnato i decenni precedenti e con il mantenimento della pace tra i popoli e tra gli Stati (come dimostra la teoria di guerre scaturite dal dominio incontrastato degli Usa)? È un’eresia affermare che a partire da quel 1989 il capitalismo si fece più aggressivo (sul piano sociale all’interno dei rispettivi confini e sul piano militare nelle relazioni con gli altri Stati) nei Paesi già capitalistici e si estese, conquistando terre, industrie e coscienze in quei Paesi che, fino ad allora, vivevano con un differente modo di produzione? È un’eresia, infine, affermare che la crisi economica del capitale oggi, a vent’anni da quell’evento, ci dimostra che si è materializzata (nella povertà endemica, nella guerra epidemica) la più classica delle eterogenesi dei fini, dal momento che le premesse di liberazione e riscatto «intrinseche» (Gagliardi) all’evento si sono tradotte nella barbarie del loro contrario?
Forse varrebbe la pena, per una volta, ragionarne con serietà ed equilibrio.
Sarebbe paradossale se a mettere la sordina agli interrogativi e al dubbio fossero gli «innovatori», i teorici della libertà e della democrazia.
E sarebbe altrettanto paradossale se fossero i «restauratori» (nonché «brezneviani» e «stalinisti») i soli disposti a convertire, da domani, questo nostro dibattito in un lavoro paziente di ricostruzione dell’iniziativa politica e sociale dei Giovani Comunisti. Perché non dimentichiamoci che - mentre discorriamo - ciò che è a rischio ogni giorno è l’esistenza concreta della nostra organizzazione, nella sua pluralità di pratiche, di esperienze e di culture politiche.