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La cultura come sapere critico. Ancora a lezione da Gramsci

Publie le giovedì 11 dicembre 2008 par Open-Publishing

La cultura come sapere critico. Ancora a lezione da Gramsci

di Angelo d’Orsi

Ricorre tra pochi giorni il centenario della fondazione di quella che è probabilmente la più famosa rivista italiana della prima metà del secolo XX: La Voce , artefici Papini e Prezzolini. Negli scambi epistolari che precedettero la pubblicazione, i due amici proclamarono reiteratamente di voler scovare dei giovani d’eccezione; sarebbero bastati una «mezza dozzina di geni da rilevare, di geni disgraziati, miseri, vilmente traditi ed oppressi», da riscattare, per farne il volano di una rivoluzione: per «cambiare la faccia della cultura italiana». L’idea di fondo è il partito degli intellettuali.

Allo stesso obiettivo, per certi versi, guardarono altri giovani e meno giovani, che due mesi dopo, a Parigi, il 20 febbraio 1909, avevano, con un celeberrimo "Manifesto", dato vita al Futurismo. Anche lì era il proposito di svecchiare, drasticamente la cultura italiana, e anzi portare la cultura al potere: la giovine cultura, la cultura dei giovani. Una lotta generazionale, ma soprattutto una battaglia ideologica. E una battaglia che ci appare difficile da accettare nei suoi princìpi di fondo, in particolare quello che attribuisce ai nuovi aristoi - i migliori - le virtù indispensabili e altresì il diritto di guidare il resto dell’umanità. Il "proletariato dei geniali", l’"artecrazia" e così via.

L’idea che accomuna queste posizioni, è che la cultura sia e debba rimanere patrimonio di pochi: giovani, di genio, intraprendenti, coraggiosi, innovatori. E, tutt’al più, agli altri, ai non geniali, si potrà dare, oltre al pane (il minimo indispensabile), una sottocultura, una "cultura per il popolo".

Ci avrebbe pensato poi il fascismo a istituzionalizzare un Ministero addirittura, nel 1937, dedicato alla "cultura popolare". In quello stesso anno moriva, dopo oltre un decennio tra confino, carcere e regime di libertà sorvegliata, Antonio Gramsci, che pure alla cultura qualche attenzione aveva dedicato. Anche a quella popolare, o meglio nazionale-popolare. E a quella socialista, fondando nel 1919 un settimanale che ad essa nel sottotitolo faceva riferimento: nell’ Ordine Nuovo , così si intitolava, un posto eminente avrebbe dovuto avere la cultura, come preparazione e sostegno della rivoluzione, che egli intendeva non come un atto, ma come un processo, a cui, appunto, l’attività dello spirito, la ricerca, l’elaborazione e la produzione culturale avrebbero dovuto fornire una base solida e continua.

Più in generale, quell’idea di cultura era stata preparata negli anni precedenti, da Gramsci, con una elaborazione che appare di straordinaria vitalità. Scriveva nel 1916, polemizzando con chi vedeva nella cultura una mera trasmissione di nozioni e concetti, nell’idea dell’individuo come vaso vuoto "da empire e stivare": «La cultura è una cosa ben diversa. E’ organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. […] ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni».

Se ci si interroga sull’irresistibile emergere di Berlusconi nell’ultimo quindicennio non possiamo limitarci al breve periodo, e fermarci sul 1989 e le sue conseguenze: dobbiamo guardare alla preparazione fatta sul piano culturale almeno a partire dagli ultimi anni Settanta, con quel "ritorno al privato" - che divenne ben presto ideologia privatistica, in ogni senso - della quale furono portatori. Se questa "rivoluzione reazionaria" nel segno del modernismo si è compiuta, vuol dire che essa è stata resa possibile da un lavorio ideologico di lunga durata. E poi si punta l’indice sull’"egemonia comunista"!

Che cos’è dunque la cultura per una persona? E che cosa può essere per un agglomerato di individui? Come essa può influire sulla definizione di una formazione sociale? Come può aiutarla a trovare una identità? Lascio ancora la parola a Gramsci, quando ormai ex discente (avendo rinunciato a diventare "dottore") denunciava, in larga parte del corpo docente, e in una gran fetta dell’intellettualità, una concezione della cultura stantìa, meramente erudita, nella quale gli studenti sono visti come oggetti e non soggetti, non persone da far maturare bensì "recipienti" da riempire di nozioni. Scriveva: «Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato.

Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri».

Il giovane Gramsci ci insegna a distinguere tra pseudocultura e cultura autentica; ma per far ciò a lui era stato decisivo l’incontro con il mondo socialista e con il mondo dell’industria, della produzione, del lavoro, e, per lui, il mondo delle classi operaie, che, nel Gramsci maturo si allargano fino a diventare i ceti subalterni. E chi sono oggi? Tra noi, gli immigrati che leggi sciagurate e politiche vergognose vorrebbero ributtare a mare, ma più in generale, su scala globale, sono "il Sud del mondo". Siamo davanti a un’idea di cultura che propone un’osmosi sociale, una circolazione di idee e sentimenti, un fine che è sempre, eminentemente, politico.

Una cultura che si astrae dalla politica è improponibile. Oggi come e più di ieri il dovere degli uomini e delle donne che variamente lavorano nei territori della creazione, elaborazione, organizzazione culturale, è di stare dentro la società, fornendo strumenti di lettura dei fenomeni, non perdendo mai il nesso con la storia, senza la quale il presente rimane confinato in una desolante e ingannevole piattezza.

Ma accanto all’occhio freddo dell’analisi, non rinuncino all’occhio caldo della passione. C’è una parola, io credo, che possa contenere i due concetti (analisi e passione): "Critica". V’è bisogno di una cultura critica. Di un sapere critico. Di attitudine critica che gli intellettuali dovrebbero essere in grado di diffondere e moltiplicare. Proporre in positivo le nostre elaborazioni, non esclude la critica anche durissima nei confronti di un governo che pretende di aziendalizzare la cultura, che pone, scandalosamente, sotto attacco la scuola, che controlla l’informazione, che commercializza ogni forma di comunicazione, che vorrebbe privatizzare il sapere e a banalizzarlo, che in una parola mira a cancellare la critica: e se ci si lascia lo ius murmurandi - ossia un mediocrissimo diritto di satira, per di più controllato: prendere in giro i potenti, si può, ma solo con il loro permesso e fin alla soglia da loro stessi stabilita come "accettabile" - tra un gabibbo e una velina, ebbene sarà il caso di dire "no, grazie!".

Altro vogliamo, per altro ci battiamo. Ci battiamo per un sapere critico e indipendente, che si collochi nella sfera pubblica, che sia fondamento del ruolo vivificante della cultura nella società. Forse proprio perché si ha paura di un sapere così fatto, oggi la Scuola e l’Università sono sotto attacco: il potere - questo potere, in particolare, autentico "comitato d’affari della borghesia" - ne ha paura. Proprio per questo, allora, è essenziale battersi in sua difesa.