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La menzogna come fondamento della politica estera USA in America Latina

Publie le sabato 18 febbraio 2006 par Open-Publishing

Di Attilio Borón, Foreign Affairs en español . Vol. 6, Núm. 1, 2006 (pp. 61-68)
Originale : Rebelión 20 gennaio 2006 <http://www.rebelion.org/noticia.php...>

Tradotto dallo spagnolo in italiano da Giampiero Budetta, membro di Tlaxlaca, la rete di traduttori per la diversità linguistica (tlaxcala@tlaxcala.es). Questa traduzione è in Copyleft

Il crollo del mondo bipolare è stato accompagnato dal vigoroso revival di teorie ormai datate che, in sintesi, sostengono la tesi dell’irrilevanza dei Paesi latinoamericani. Ciò dipenderebbe dal loro scarso interesse strategico ed economico, specialmente se paragonati al Medio Oriente, all’Asia Centrale o al Sudest Asiatico, per non parlare dell’Europa. Una di queste teorie, forse la variante più radicale, sottolinea che la nostra irrilevanza risponde ad una dolorosa realtà: l’America Latina, in verità, è una costruzione mitica, un’immagine fantastica, orfana di qualsiasi contenuto di realtà. Poiché non esistiamo, difficilmente potrebbe esserci una politica nei nostri confronti. La tesi avanzata qui, invece, è che esistiamo eccome, anzi è per questo che Washington segue una politica molto ben definita e relativamente costante verso l’America Latina, e la segue perché la nostra regione gli sta a cuore, e anche molto.

La perniciosa eredità del colonialismo

Che il tema della nostra presunta irrilevanza, ovvero della “irrealtà della realtà” latinoamericana, non sia nuovo, viene ampiamente dimostrato, con una rara combinazione di eleganza stilistica e profondità di ragionamento, da un notevole saggio di Roberto Fernández Retamar, “Calibán”, pubblicato per la prima volta nel 1971 in risposta ad una insidiosa domanda formulata su questo tema: “voi esistete? Esiste l’America Latina?”

Le riflessioni di Fernández Retamar evidenziano, partendo da una minuziosa ricostruzione storica, l’eccezionalità del processo di costituzione delle società latinoamericane, simbiosi unica tra il mondo precolombiano e quello europeo ed africano, così come anche l’identità che ne è emersa come suo risultato. Identità che, come quella europea o statunitense, non implica una uniformità, bensì una fertile diversità all’interno di uno spazio storico-culturale condiviso. Ciononostante, una delle sfortunate conseguenze di questa creazione civilizzatrice è stata la persistenza, alimentata da più di tre secoli di dominazione coloniale (che diventano quasi quattro per Cuba e Porto Rico), di radicate attitudini alla subordinazione culturale ed ideologica tra le classi dirigenti ed ampi settori dell’intellighenzia latinoamericana.

Precisamente, una delle manifestazioni di questa “colonialità” è la pertinace negazione dell’esistenza stessa dell’America Latina, della storia comune dei suoi Paesi, della sua ricchezza e varietà culturale, anch’esse comuni, e del suo futuro, inevitabilmente condiviso. Questa identità, oltre che dalla geografia, ci viene conferita da passato, presente e futuro. L’intellettuale colonizzato, fedele alla tradizione imperiale di snobbare le colonie, inevitabilmente percepite come insieme di popoli barbari e meritevoli del sistematico saccheggio al quale si vedono assoggettati, fa propria la visione del mondo dei dominatori. Tutti gli imperi vedono nei popoli dominati degli essere inferiori, barbari, spregevoli, a tal punto che la loro stessa condizione umana, ieri come oggi, spesso veniva messa in discussione. Era questo l’atteggiamento dei romani nei confronti della Gallia e dell’Iberia, così come dell’Inghilterra niente meno che verso l’India, una delle civiltà più antiche ed esuberanti del pianeta; e così la pensa anche la classe dirigente degli Stati Uniti rispetto a quasi tutto il resto del mondo, includendo, in una delle sue più recenti aggregazioni, la cosiddetta “Vecchia Europa”.

In ambito di politica estera, ciò si traduce nella famosa tesi dell’irrilevanza dell’America Latina alimentata tradizionalmente da Washington, paragonabile all’atteggiamento dell’Inghilterra vittoriana nei confronti dell’India. In entrambi i casi, la logica che sottende questo ragionamento è di facile comprensione: convincere l’Altro della sua pochezza e della sua inferiorità consegna al dominatore un vantaggio praticamente decisivo in qualsiasi controversia. Si capisce, quindi, l’insistenza di alcuni oscuri funzionari del Dipartimento di Stato, o del Consiglio di Sicurezza Nazionale, nel segnalare la nostra irrimediabile inferiorità, nel dirci che occupiamo il quinto o sesto posto nella classifica delle loro priorità e nel chiederci di non pretendere che ci venga prestata un’attenzione maggiore di quella riservataci con tanta indulgenza, quasi come se fosse un favore. Come dicevo prima, ad essere grave non é tanto la tesi così come viene avanzata dai portavoce di Washington; ad essere realmente doloroso e deplorevole è che questa stessa tesi venga ritenuta valida da presunti esperti di affari internazionali e da governanti rassegnati ed arrendevoli dei nostri Paesi. In casi estremi, come quello del mio Paese [l’Argentina, NDT], questa predisposizione si è tradotta nella giustificazione per adottare, come principio cardine della agenda estera dell’Argentina, la politica delle “relazioni carnali” con Washington in qualsivoglia tema internazionale. Il prezzo che abbiamo pagato per tale follia è stato altissimo.

Riassumendo: la dottrina dell’ “indifferenza benigna” non è altro che una grossolana menzogna, un atteggiamento ipocrita che, mediante questo artificio, cerca di scoraggiare qualsiasi tentativo di mettere in discussione i rapporti di subordinazione stabiliti tra la potenza dominante ed i nostri Paesi. La condizione preliminare per impugnare questa situazione è prendere coscienza della nostra reale importanza per gli Stati Uniti e, in seguito, sviluppare una strategia collettiva per ridefinire adeguatamente i nostri rapporti con la Roma americana (1).

Irrilevanti?

La tesi dell’irrilevanza, che sarebbe “politicamente incorretto” giustificare su basi razziste, sostiene che l’America Latina non abbia nessuna importanza sullo scenario internazionale, che i suoi Paesi non siano “attori decisivi” nell’arena mondiale e che le loro economie non gravitino nei mercati globali. Tuttavia questa tesi crolla sotto il peso di numerosi paradossi. Se l’America Latina fosse tanto irrilevante, come si spiega che gli Stati Uniti sono incorsi in una serie interminabile di interventi militari (più di cento nel 20° secolo), invasioni, guerre commerciali, omicidi politici, atti di corruzione, campagne di destabilizzazione e scardinamento dei processi democratici e riformisti perpetrati ai danni di una regione totalmente priva di importanza? Non sarebbe stata più ragionevole una politica di indifferenza verso vicini ribelli, però insignificanti? Se non esistiamo, o se siamo tanto irrilevanti, come spiegare che è stata proprio questa la prima regione del mondo verso la quale gli Stati Uniti elaborarono, già nel lontano 1823, un approccio specifico nella loro agenda di politica estera, la Dottrina Monroe? Se siamo così poca cosa, perché Washington persiste da più di 40 anni nell’imporre un embargo contro Cuba condannato addirittura da Giovanni Paolo II? Se valiamo poco o niente, perché tanta ostinazione per creare l’ALCA? E se l’America Latina non esistesse, come si spiega allora il naufragio di questo progetto di consolidamento imperiale?

Come si può vedere, l’idea della nostra presunta irrilevanza non resiste alla minima dimostrazione empirica. In realtà, l’America Latina possiede un’importanza strategica fondamentale per gli Stati Uniti ed è anche la regione che gli riserva le sfide più difficili nel lungo periodo. Negli anni 80, all’apogeo delle “guerre stellari” di Ronald Reagan, c’era chi diceva che l’URSS era un problema transitorio per gli Stati Uniti, mentre l’America Latina rappresentava una sfida permanente, radicata nelle imperturbabili ragioni della geografia, tant’è che proprio in quegli anni il personale diplomatico iscritto all’ambasciata in Messico era superiore a quello stazionato su tutto il territorio dell’Unione Sovietica. Il punto è che l’America Latina è la frontiera calda degli Stati Uniti, il suo inevitabile contatto con la periferia dell’impero, la stessa che sottomette e saccheggia, generando una vasta area di perpetue turbolenze politiche che prosperano, non a caso, nella sua condizione di regione con la peggiore e più ingiusta distribuzione di redditi e ricchezze del pianeta.

Se la Casa Bianca mente spudoratamente al popolo statunitense (basti ricordare la storia della presunta esistenza in Iraq delle famose “armi di distruzione di massa” che Colin Powell, in recenti dichiarazioni, si è pentito di aver avallato), perché non dovrebbe mentire anche ai latinoamericani? L’eccezionale rilevanza della nostra regione fu adeguatamente sottolineata da Colin Powell quando affermò, in relazione alle aspettative riposte da Washington nell’ALCA, che “il nostro obiettivo è garantire alle imprese statunitensi il controllo di un territorio che si estende dall’Artide all’Antartide ed il libero accesso a tutto l’emisfero dei nostri prodotti e servizi, delle tecnologie e dei capitali statunitensi senza nessun tipo di ostacolo”. Irrilevanti? Si noti l’importanza della regione come un gigantesco mercato per gli investimenti statunitensi, grandi opportunità di investimento, favolose aspettative di redditività, possibilità di controllo politico, che Washington esercita su quasi tutti i governi della regione, e tutto ciò in un territorio che alberga un repertorio quasi infinito di risorse naturali di ogni tipo.

In funzione di probabili sviluppi tecnologici, l’America Latina potrebbe essere la regione che conta con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Non lo è oggi, ma potrebbe esserlo domani. In ogni caso, già nelle attuali condizioni, è quella che può offrire agli Stati Uniti le forniture più prossime e sicure, dato più che significativo se si considera che le sue riserve non basteranno per più di 10 anni e le fonti alternative di approvvigionamento sono molto più lontane e sono entrate in una zona di crescente instabilità politica a causa della tradizionale inettitudine con cui Washington gestisce queste situazioni. Il Medio Oriente si è trasformato in una polveriera che può esplodere in qualsiasi momento, dove il risentimento nei confronti degli Stati Uniti raggiunge proporzioni impressionanti, anche negli “Stati-clienti” come l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Turchia. Ed i bacini petroliferi dell’Africa Occidentale e dell’Asia Centrale mancano delle più elementari condizioni politiche necessarie a garantire un flusso stabile e prevedibile di petrolio verso gli Stati Uniti. Le oscene pressioni esercitate sul governo venezuelano da parte della Casa Bianca vanno interpretate alla luce di queste realtà.

L’America Latina possiede anche grandi riserve di gas, la terza parte del totale dell’acqua potabile del pianeta ed è il territorio dove si trovano i fiumi più ricchi d’acqua del mondo ed alcune dei suoi maggiori bacini acquiferi. Uno di questi, quello del Chiapas, è già stato considerato come una possibile soluzione per affrontare l’inesorabile esaurimento dell’approvvigionamento di acqua che colpisce gli Stati Uniti sud-orientali e compromette l’accesso al liquido vitale di città come Los Angeles e San Diego. E quando si tratta di biodiversità, come potrebbe essere irrilevante un regione che annovera più del 40% di tutte le specie animali e vegetali esistenti nel pianeta? Questa ricchezza rappresenta una calamita potentissima per le grandi imprese transnazionali degli Stati Uniti, disposte ad imprimere il loro copyright a tutte le forme di vita animali o vegetali esistenti e, a partire da questo, a dominare interamente l’economia mondiale. Non è un caso che il tema dei diritti di proprietà intellettuale sia tanto prioritario per Washington, come testimoniato dai negoziati in seno alla Organizzazione Mondiale del Commercio.

Infine, dal punto di vista territoriale, l’America Latina è una retroguardia militare di importanza cruciale. Ovviamente, i funzionari del Dipartimento di Stato lo negano nel modo più assoluto, però gli esperti del Pentagono sanno che è così. Per questo la tenacia di Washington nel saturare il nostro territorio con basi e missioni militari e la sua ostinazione nel garantire l’immunità del personale attivo in organico alle stesse. Se fossimo così poco importanti come ci dicono, perché la Casa Bianca si prodiga a proporre politiche che suscitano il rifiuto quasi universale della regione?

Conclusioni
Negli ultimi tempi l’ importanza dell’America Latina non ha fatto altro che crescere. Il fallimento degli esperimenti neoliberisti, che non hanno immesso le nostre economie sui binari della crescita, né hanno ridistribuito il reddito, né hanno consolidato le nostre fragili democrazie, ha scaraventato la regione in una delle sue crisi più profonde. Dal Messico, quindi dalla frontiera con gli Stati uniti, all’Argentina, passando per l’America Centrale ed i Caraibi, tutto il mondo andino ed il Brasile, il segno dei tempi è il disincanto verso la democrazia, una crescente attivazione della protesta sociale ed un risentimento sempre più esteso e profondo verso gli Stati Uniti.

C’è una vecchia tradizione della politica estera statunitense verso l’America Latina: fintanto che questa è saldamente sotto il controllo di Washington, la risposta ufficiale è “l’indifferenza benigna” e pertanto la regione resta relegata in secondo piano. Tuttavia, appena spuntano alcuni sintomi di ribellione o insubordinazione, questa “irrilevante” regione del pianeta ascende al rango di priorità nelle preoccupazioni di Washington, scalzandone rapidamente altre ritenute più importanti. Una prova lampante: bastò che un governo socialista moderato venisse eletto democraticamente in Cile, nel 1970, perché la Casa Bianca desse l’ordine di “far scricchiolare e gridare di dolore l’economia” cilena e destinasse ingenti somme di denaro per scongiurare la minaccia rappresentata da Salvador Allende. Negli anni 80, il trionfo dei sandinisti trasformò il Nicaragua in una gravissima minaccia alla sicurezza nazionale statunitense, scatenando una risposta di Washington in violazione delle più elementari norme del diritto internazionale. Lo stesso sarebbe accaduto con Grenada che, nonostante i suoi 344 Km quadrati ed i suoi 60.000 abitanti, fu anch’essa considerata un pericolo così grande dall’amministrazione Reagan da giustificare il grottesco intervento militare del 1983. A metà degli anni 60, la possibilità di un eventuale ritorno di Juan Bosch al governo della Repubblica Dominicana aveva provocato lo sbarco di 40.000 marines e l’annientamento delle forze ribelli. Alla fine degli anni 90 e, in una progressione che negli ultimi anni ha raggiunto eccessi allarmanti, Washington ha reagito con una virulenza inusitata al consolidamento del governo di Hugo Chávez in Venezuela, le cui credenziali democratiche, monitorate e supervisionate dall’Organizzazione degli Stati Americani e dalla Fondazione Carter, superano notevolmente quelle esibite dal presidente George W. Bush Jr. alle elezioni del 2000. Quasi mezzo secolo di embargo contro Cuba, cominciato quando l’isola stava iniziando ad adottare alcune riforme, è un’altra prova convincente della prepotenza imperiale. In sintesi: se i nostri Paesi si sottomettono mansueti e obbediscono agli ordini di Washington, la regione non è prioritaria; però, appena un qualsiasi governo intende prendere nelle mani le redini del proprio destino, questo Paese latinoamericano, per piccino che sia, viene catapultato al rango di priorità nelle preoccupazioni di Washington.

La nuova dottrina strategica degli Stati Uniti annunciata nel settembre 2002, secondo Noam Chomsky un piano di dominazione mondiale come non si conosceva dall’epoca di Hitler, accentua le sinistre prospettive che si aprono nel campo delle relazioni emisferiche. Un Paese come gli Stati Uniti, già apertamente percepito dalla sua classe dirigente e dai suoi principali intellettuali come un impero che si è arrogato l’assurda, e pericolosissima, missione di diffondere la democrazia e la libertà in tutto il mondo e che ha militarizzato le relazioni internazionali ed incrementato le sue spese militari ad un livello senza precedenti storici, difficilmente può essere considerato un elemento positivo per consolidare la presenza dell’America Latina nel sistema internazionale. La decadenza della classe dirigente USA, esemplificata in modo ineguagliabile dall’investitura presidenziale di personaggi tanto mediocri come Ronald Reagan e George W. Bush Jr., non è una buona notizia per il mondo. Tutto lascia presumere che la politica seguita in questi anni nei confronti dell’America Latina, accentuata dopo gli attentati del 2001, difficilmente verrà modificata. Non c’è nulla che consenta di prevedere che la premonitrice sentenza di Simón Bolivar: “gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza a piagare l’America spagnola di sventure in nome della libertà” possa venire smentita da un governo come quello di Bush Jr. il quale, a detta di eminenti intellettuali statunitensi, è stato sequestrato dalle grandi imprese e che, con incredibile miopia, pensa che ciò che è buono per Halliburton sia buono per gli Stati Uniti e, come corollario, per tutto il mondo.

[1] “Americana”, in questo caso perché è la Roma del continente americano e pertanto “statunitense” non renderebbe l’idea.