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La militarizzazione dell’aiuto umanitario

Publie le giovedì 14 ottobre 2004 par Open-Publishing

Il sequestro anomalo delle due volontarie italiane, Simona Torretta e Simona Pari, impegnate in un progetto, in collaborazione con l’Unicef, per l’istruzione e la partecipazione scolastica dei bambini di Bagdad e Bassora, ha riportato in primo piano il dibattito sulla neutralità degli interventi umanitari e sul ruolo della cooperazione internazionale in contesti di conflitto.

Pensiamo che questo sequestro consenta di capire come può essere percepito il personale umanitario in certe situazioni e perché ciò avvenga. Vediamo.
Il 9 settembre, a Trieste, salutando i nostri soldati di ritorno dall’Iraq, il ministro della difesa Antonio Martino ha detto che le missioni militari italiane "sono autentiche missioni di pace, perché i nostri soldati vanno all’estero per aiutare, alleviare, consigliare, proteggere. Oggi i nostri militari sono operatori di pace.

Neanche uno dei nostri uomini in divisa è all’estero per "prendere": è lì per "dare"".
Dunque, la macchina militare si è impadronita del linguaggio e dei metodi del mondo del volontariato. I militari stanno sempre più interferendo con le attività umanitarie. In questo modo, risultano minati alla base i principi di neutralità, indipendenza e imparzialità, che dovrebbero essere le caratteristiche legittime di ogni intervento umanitario.

Perfino la decisione di difendere con personale militare un progetto umanitario stona agli occhi di chi riceve l’aiuto. Come dimostra anche il caso della Croce Rossa
italiana in Iraq.

Gli interventi "umanitari" dei militari si basano su considerazioni politiche interne e esterne e non sul senso del servizio e della gratuità. I militari perseguono obbiettivi politici chiari e il loro coinvolgimento nelle crisi umanitarie è sottoposto agli interessi particolari dei propri governi, interessi che non sempre coincidono con quelli delle vittime.

Le conseguenze sono tragicamente chiare. Coloro che sono oggetto dell’intervento, le vittime, insomma, non sanno più bene con chi hanno a che fare. Ciò crea confusione e presa di distanza, e il tasso di pericolo aumenta.

Anche le organizzazioni non governative che fanno cooperazione internazionale e interventi umanitari hanno le loro responsabilità. In Africa ­ ma vale anche per altri continenti ­ spesso i volontari hanno stretti contatti con funzionari delle ambasciate del loro paese. E i funzionari sanno che i volontari possono essere fonti privilegiate per conoscere le dinamiche sociali e politiche sul terreno. Frequentazioni e "piccoli favori" sono all’ordine del giorno. La gente del posto vede, osserva, parla e tira le proprie conclusioni.

Come missionari, sappiamo che cosa significa vivere in zone ad alto rischio. E sappiamo che, se si è riusciti a stabilire un rapporto di fiducia, è la gente stessa che t’informa di eventuali pericoli e ti protegge. Al contrario, il rischio aumenta, se il volontario confonde, anche in buona fede, la propria immagine e il proprio ruolo con quello dei militari o dei funzionari d’ambasciata.

Come ong, si è credibili quando si condivide un’esperienza di sofferenza stando in mezzo alla gente con mezzi semplici e, soprattutto, senza la cornice della forza militare. Senza dimenticare che riciclarsi in manager del settore della sicurezza, come hanno fatto alcuni elementi di spicco di ong, non giova alla credibilità del volontariato e delle cooperazione...

Per queste ragioni, il sequestro delle volontarie italiane deve far riflettere sulla presenza delle ong in situazioni a rischio.

Bisogna scongiurare a tutti i costi la militarizzazione del lavoro delle ong. Una delle cose da fare per riuscire in questo intento è metter mano alla cooperazione allo sviluppo, oggi al lumicino, ridefinendone il ruolo strategico anche in chiave europea, sottraendola al controllo del ministero degli esteri (che la sta piegando, non da oggi, alle proprie logiche geopolitiche e militari) e dotandola di autonomia anche gestionale.

Ma per farlo è necessario che il parlamento cambi una legge: la 49. E per stimolare il parlamento serve la mobilitazione di ampi settori della società civile.

Siamo capaci di prenderci questo impegno?

http://www.nigrizia.it