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La natura dello scontro

Publie le venerdì 23 novembre 2007 par Open-Publishing

In “Sperimentiamo l’anarchia” sono state avanzate una serie di osservazioni sul metodo da usare per analizzare la realtà e decidere dove aggredire il sistema. Bisogna però evitare, come spesso accade nelle pallosissime relazioni di teoria politica, di fare solo una discussione astrattamente corretta che poi non indica le situazioni concrete di intervento per rivoluzionare questo mondo.
Abbiamo detto che il metodo di analisi non deve essere nè quello assiomatico-deduttivo, usato soprattutto dai marxisti ma anche da parte del movimento anarchico per cui esistono dei principi primi indicati dai Maestri (lotta di classe, sacralità del ruolo della classe operaia industriale, ecc) e da quei principi se ne deducono meccanicamente le conseguenze (se la classe operaia è sacra le lotte ecologiste sono piccolo borghesi perché vogliono superare il modello industriale), nè il metodo intuitivo, proprio soprattutto del nichilismo e di una piccola parte dell’individualismo anarchico. Il metodo corretto è invece quello ipotetico-sperimentale, per cui si parte da un problema, si formula un’ipotesi che spieghi il problema, si verifica con l’esperimento se l’ipotesi è plausibile, si ipotizza una strategia che risolve il problema e si sperimenta questa strategia.

COME RISOLVERE IL PROBLEMA DELLO SFRUTTAMENTO
Nel caso dello sfruttato il problema è: perché non arrivo alla fine del mese? A differenza che nel metodo assiomatico, in cui le soluzioni sono date una volta e per sempre, le ipotesi che risolvono un problema possono anche essere infinite e possono modificarsi con il tempo. Infatti alla domanda “perché non arrivo alla fine del mese?”, una delle ipotesi che risolve il quesito può essere: perché sono uno spendaccione; Ma anche: perché le mie figlie sono delle spendaccione; ma ancora: perché il mio padrone mi da poco; oppure: perché i miei soldi finiscono nel gioco d’azzardo; oppure: perché l’affitto di casa è caro; ecc. Ognuna di queste ipotesi è plausibile, quella (o quelle) che però è compatibile con la realtà concreta può essere riconosciuta solo confrontando le ipotesi in maniera sperimentale. Infatti, una volta appurato che non sono un consumista, ma che neanche le mie figlie lo sono, anzi sono delle ragazze fantastiche che sanno ben distinguere le cose importanti della vita dalle frivolezze della società, posso pensare che la causa delle mie disgrazie dipenda dal gioco d’azzardo. Eppure, pensandoci bene, tutto sommato non mi gioco molti soldi e molto spesso, inoltre a volte vinco. Le ipotesi che si accreditano sono che la colpa, tutto sommato, delle mie disgrazie dipende soprattutto dal fatto che sono costretto a pagare un affitto troppo caro e che ricevo uno stipendio troppo basso.
Individuate le ipotesi che risolvono il problema “perché non arrivo alla fine del mese?”, il nuovo problema diviene: cosa posso fare per arrivare alla fine del mese? Anche qui le soluzioni sono molteplici, se non addirittura infinite: lavorare più ore, infamare i colleghi che commettono degli errori al padrone in cambio di compensi, fare le rapine in banca, subaffittare una stanza ad uno studente o ad un extracomunitario, occupare la casa e non pagare più l’affitto, occupare l’azienda agraria per cui lavoro e dividere i profitti solo tra noi braccianti senza dare nulla al padrone, guadagnando quindi di più e magari assumendo anche qualcuno che non ha lavoro, come la mia figlia più giovane, oppure lavorando meno ore così da avere più tempo per fare le passeggiate in montagna e fare l’amore con la mia compagna tra i cespugli.
E’ chiaro che se scelgo le ipotesi più infami vado contro ai miei sentimenti, quando lavoro più ore ho meno tempo per fare l’amore, ma anche al bene dei miei amici che lavorano con me. A differenza del metodo assiomatico, che è perfettamente razionale, il metodo ipotetico-sperimentale dà molta importanza ai sentimenti e all’etica, in quanto in qualche modo è sintesi anche dell’intuizionismo. Però è altrettanto chiaro che se faccio una rapina in banca o se occupo l’azienda in cui lavoro gli sbirri mi possono mettere in galera, quindi non vedere più la mia compagna e lasciare le mie figlie senza un minimo supporto economico. Il che non risolve il problema, ma lo peggiora.
Cosa posso fare? L’ipotesi è vivere in una società in cui non si hanno padroni, come se l’azienda agraria fosse occupata, ma senza che ci siano carceri in cui rinchiudermi se la occupo, una società in cui non devo pagarmi l’affitto della casa in cui vivo, in cui non devo pagarmi la corrente elettrica nè l’acqua calda perché ho i pannelli solari sul tetto, e tra l’altro non perdo neanche i pannelli che ho fatto costruire quando cambierò casa perché non sono più in affitto, ecc. Si può, per fare tutto questo, occupare contemporaneamente i luoghi di lavoro prendendo possesso della produzione, cosa più facile certamente nelle aziende agrarie che nelle fabbriche tanto venerate dai marxisti, assaltare il carcere, magari grazie al fratello del marocchino a cui ho affittato casa che sta dentro per possesso di droga, assaltare il tribunale e cominciare a produrre passaggi di proprietà delle case dai padroni agli inquilini, così anche se lo stato prenderà di nuovo il controllo della città almeno la casa sarà legalmente mia ecc.
La sopravvivenza di una comunità del genere è resa difficile chiaramente dalla repressione. Proprio per questo serve una strategia molto più complessa della storiella scritta sopra, ma che comunque utilizzi la metodologia ipotetico-sperimentale. L’anarchia è l’ipotesi di questa società futura, un’ipotesi che non è data ora e per sempre, ma che cambia con il cambiare della realtà concreta. L’anarchismo è il movimento che sperimenta questa ipotesi, un movimento che non deve usare le stesse strategie nella storia, ma dovrebbe saperle modificare con il modificarsi della realtà concreta.
Sono invece da rigettare le strategie assiomatico-deduttive, come ad esempio il marxismo. Infatti affermando come assiomi inconfutabili la lotta di classe e la superiorità del proletariato industriale su quello contadino o sul sottoproletariato metropolitano, con il cambiare della realtà concreta i collegamenti meccanici tra assiomi inconfutabili e situazioni specifiche diventano sempre più grotteschi. Ad esempio con il welfar, ovvero con la strategia del dominio di dare più soldi agli oppressi in modo da frenare le loro ribellioni e di spenderli in modo da permettere il riciclaggio del sistema, diventa più difficile spiegare i collegamenti deduttivi che secondo loro dovrebbero intercorrere tra l’assioma della lotta di classe e la realtà concreta di un relativo miglioramento delle condizioni di vita di quegli oppressi “garantiti” da questo tipo di economia. Altro esempio, la situazione ambientale e la lotta contro l’inquinamento, una lotta difficilmente accettabile senza cadere in contraddizioni da parte di chi afferma come assioma la superiorità della classe operaia industrializzata. Più in generale, ogni qual volta si parte da un presupposto e si predica che questo è eterno e inconfutabile, si rischia, con il modificarsi della realtà, di trasformarsi in una setta che predica qualcosa che per quasi tutti è ormai incomprensibile.

I TEMI DELLO SCONTRO
In questa fase manca al movimento rivoluzionario, non solo a quello anarchico, una strategia, un nuovo programma che sappia dire qualcosa sulla battaglie attuali, ma che soprattutto sappia spingerle, prima, verso una sempre più aspra conflittualità, poi, verso un progetto di nuova società.
Per riscrivere un “nuovo programma anarchico”, come il programma anarchico di Malatesta, ma valido per i nostri tempi occorre tenere presenti i seguenti problemi su cui verte la gran parte dello scontro oggi:
l’ambiente
la guerra
lo sfruttamento nelle regioni sottosviluppate del pianeta
lo sfruttamento nelle regioni industrializzate del pianeta

Una visione strettamente classista di questi quattro punti avrebbe da protestare, affermando che lo sfruttamento, o meglio la divisione del lavoro, è più importante dell’ambiente e delle guerra, anzi ne è la causa. Io ho preferito esporre in questo modo le problematiche attuali perché ritengo che non è dalle cause che risaliamo agli affetti, ma al contrario è partendo dagli effetti empirici che vediamo e sperimentiamo sulla nostra pelle, come i cambiamenti climatici o le difficoltà economiche quotidiane, che ipotizziamo l’ingiustizia con cui è organizzata la società e il lavoro. Partendo dagli effetti l’ambiente è sicuramente il più grave, poiché è quello che mette in discussione nel prossimo futuro la vita sulla terra.
Inoltre ho preferito dividere la problematica dello sfruttamento in due punti, quello negli Stati ricchi e quello negli Stati poveri, perché esso è sostanzialmente differente. Io ho lavorato per diverso tempo in un call center, sperimentando di persona che significa vivere con 650 euro al mese, di cui 350 se ne vanno per l’affitto, vedendo come ti porta all’esaurimento psichico l’alienazione di quel tipo di lavoro e la precarietà di quel tipo di contratto. Malgrado ciò è assolutamente innegabile che, per quanto sia dura la catena di montaggio di una acciaieria o il lavoro di una miniera, la situazione economica di un operaio o di un disoccupato europeo non è minimamente paragonabile a quella di un nulla tenente africano che vive nelle baracche e muore letteralmente di sete. Se nella sintesi potremmo affermare che negando lo sfruttamento capitalista si risolveranno entrambe le situazioni, nell’analisi non possiamo non vedere che la sofferenza di un abitante dell’africa centrale è infinitamente più grande di quella di uno spazzino statunitense.
Per questo nel nostro procedimento empirico, che dai fenomeni risale alle cause, è importante distinguere i due tipi di sfruttamento. Sarà poi nel procedimento inverso, quando avremo un’ipotesi adeguata ai nostri tempi, a unificare le cause dietro uno stesso nucleo di problemi e quindi a proporre quelle ipotesi in maniera unitaria ai nostri compagni sfruttati.

L’AMBIENTE
L’ambiente è il più grave pericolo che incombe sull’intera umanità, un pericolo interclassista potremmo dire, un pericolo di natura biologica: non mette a rischio una sola persona, come la fame o la sete o la malattia mettono a rischio solo l’affamato o l’assetato o il malato, ma mette in serio pericolo l’esistenza stessa dell’intera specie umana e forse di tutte le specie della terra. L’inquinamento è quindi un nemico dell’intera umanità, dei singoli individui come dell’intera specie biologica.
In generale, però, non intendiamo per attacco ambientale solo l’inquinamento nelle sue molteplici facce (inquinamento marino, acustico, dell’aria, ecc), ma in senso più universale tutte quelle forme di alienazione che la tecnica impone alla natura: dall’inquinamento vero e proprio all’attacco alla psiche umana (si pensi al sempre più vasto uso di psicofarmaci), dal video controllo al controllo mentale, dalla tortura tecnologica alle nanotecnologie, dalle lotte locali a quelle per la sicurezza nei luoghi di lavoro, ecc. Questo è da intendere per attacco ambientale, su questi temi i rivoluzionari devono saper ipotizzare un modo alternativo di stare al mondo, e su questa ipotesi devono saper sperimentare un percorso concreto per fare la rivoluzione.
Vediamo da dove vengono i fenomeni dell’inquinamento, dello stress, del controllo sociale: essi provengono da un sistema che produce in maniera indiscriminata tonnellate di rifiuti e di gas inquinanti, da un sistema che richiede una conoscenza sempre più specifica di un singolo tema e un impegno esistenziale enorme, da un sistema che usa strumenti sempre più sofisticati per reprimere chi si ribella alla sua volontà. In altre parole il problema dell’inquinamento è una delle principali cause del mito del lavoro.
Negli ultimi duecento anni la borghesia, sostituendo la più oziosa società aristocratica, ha fatto del lavoro il principale valore della società. Lo stesso Marx, che si professava come un rivoluzionario, ha affermato che la l’animale diventa uomo grazie al lavoro. Il mito dal lavoro, lo stacanovismo, ci sta costringendo a vivere in un mondo in cui chi non lavora non vive, come cantavano le canzoni comuniste di inizio secolo. Non solo chi non lavora non vive, ma bisogna lavorare sempre di più e in condizioni sempre peggiori per mantenere il proprio stile di vita. Il risultato di tutto questo è una maggiore richiesta di corrente elettrica, una maggiore richiesta di acqua, una maggiore richiesta di petrolio, ecc. Tutto questo, se non verrà fermato, porterà il mondo sull’orlo del baratro.
La crescita è lo scopo di ogni governo, che sia di destra o di sinistra, il presupposto per chi comanda è che, per pagare il tributo sempre più caro al capitale, la torta deve sempre crescere altrimenti ci sarà sempre meno per tutti. Ma non basta neanche crescere, bisogna crescere al passo con il resto del mondo, per uno Stato crescere meno di altri Stati significa mettere a rischio la propria sopravvivenza, poiché il più forte, quello che sa dotarsi di strumenti più potenti nel minor tempo possibile, schiaccerà lo Stato più debole, come vedremo meglio quando affronteremo il tema della guerra.
Nessuno ha il coraggio di mettere in dubbio il fatto che se continuiamo a crescere allora continueremo ad aumentare i rifiuti nelle discariche, ad aumentare i gas emessi nell’ambiente, ad aumentare le ore di lavoro, ad aumentare lo stress, ad aumentare l’uso di psicofarmaci, ad aumentare la sperimentazione di questi sugli animali, ecc.
La decrescita deve diventare l’obbiettivo dei rivoluzionari. Pallante ha avuto il merito di dirlo meglio e prima di quasi tutti, però la sua teoria, quella della decrescita felice, ha grandi limiti. La decrescita infatti non è un obbiettivo fine a se stesso, una scelta esistenziale come consumare meno, prodursi le cose da solo, vivere con l’indispensabile; la decrescita deve essere un obbiettivo strategico. Dato che da una parte la crescita continua del bisogno di tecnologie, materie prime, forza lavoro è la principale causa della distruzione della Terra, e d’altra parte la crescita è la condizione necessaria per la sopravvivenza degli Stati, delle economie nazionali e soprannazionali, come delle singole aziende, programmare la decrescita della produzione, del consumo di merci e dell’economia significa innescare una bomba ad orologeria in grado di far saltare in aria il sistema capitalista.
L’obbiettivo soggettivo della decrescita è molto importante: avere i pannelli solari invece di consumare petrolio, avere l’orto invece di acquistare prodotti che per essere trasportati dalle campagne alle città richiedono consumo di carburanti, riciclare l’acqua della lavatrice per tirare lo sciacquone del cesso, sono tutte cose che contribuisco concretamente ad abbassare la crescita dell’economia e dell’aggressione del nostro territorio.
Ma l’atteggiamento soggettivo è condizione necessaria ma non sufficiente: il dominio va attaccato e distrutto, per quanto riguarda l’ambiente come per ogni altra cosa, oltre ciò che è la nostra libertà liberale. Il principio che la mia libertà finisce quando inizia quella altrui è un principio giustissimo, se però è applicato in una società anch’essa giustissima; in questo mondo la mia libertà, per essere rivoluzionaria, deve colpire e interrompere la libertà del dominio di costruire discariche, di scavare cave, di fare gallerie. Oggi incendiare una ruspa, abbattere un traliccio, mettere la sabbia nel motore di un inceneritore, è un gesto altrettanto nobile quanto andare a scavare pozzi in Africa!
La rivolta in Val Susa contro i TAV, i treni ad altra velocità, è emblematica di quello che sto dicendo: la libertà dei valsusini di vivere senza una ferrovia sulle loro teste, senza una galleria di cinquanta chilometri che estrae sostanze inquinanti dal sottosuolo, è una libertà che va necessariamente contro la libertà delle ferrovie italiane, francesi ed europee di avere una rete continentale che vada dalla Spagna all’Europa dell’est.
Il problema di come e quando colpire il sistema non è un problema etico, non accetta il se. Chi apre un inceneritore sa che la sua calamita di soldi farà morire qualcuno di tumore e di leucemia, se poi bisogna sparargli in bocca o fare uno sciopero della fame per protesta è solo una questione di opportunità. L’importante è che quel inceneritore venga chiuso, che smetta di ammazzare gente e di inquinare la Terra.
Non bastano i gesti personali, ma non bastano neanche le azioni dirette, occorre un progetto. Oggi la sola ipotesi che vedo all’orizzonte per salvare la Terra è la rinuncia alla vita cittadina. Il primo passo della rivoluzione deve essere quello di abolire le metropoli e poi le città. La proposta degli anarchici, come avevano osservato già trenta anni fa i compagni di Azione Rivoluzionaria, per la prossima organizzazione sociale deve essere quella di spopolare le metropoli e rivalutare le campagne e le montagne.
La gran parte dell’inquinamento è dovuto all’esistenza delle metropoli. Ad esempio un milanese invece di coltivare il grano, la frutta, la verdura davanti casa la compra al supermercato. Quel supermercato raccoglie, nella migliore delle ipotesi il grano, la frutta, la verdura della pianura padana, nella peggiore li acquista direttamente dalla Cina; trasportare il grano dal campo alla fabbrica che lo straforma in pane e pasta asciutta richiede inquinamento, poiché i camion inquinano; inoltre la lavorazione della fabbrica, a differenza dei forni, produce altro inquinamento. Una vita di campagna risolve questi problemi.
Il processo della distruzione delle città deve essere necessariamente graduale, poiché non ci sono case a sufficienza in campagna: in un primo momento lo spopolamento probabilmente avverrà tra le metropoli e le città di 50-60 mila abitanti, le case verranno occupate da chi nel frattempo dalle città è andato a vivere direttamente in campagna, altre case potrebbero venire sequestrate a chi ne ha troppe; similmente potrebbe accadere in campagna e in montagna dove potrebbero essere rimessi in sesto i casolari abbandonati e occupate le ville dei ricconi e gli alberghi a scopo abitativo.
Questa non è fantapolitica. Come per il progetto della decrescita, così il progetto della deurbanizzazione è fatto sia di scelte personali, come di azioni di massa: ci sono tanti capannoni nelle campagne laziali che potrebbero essere occupati per fare dei centri sociali alternativi a quelli che si trovano dentro Roma, allo stesso modo azioni di disturbo della vita metropolitana (dalle critical mass, le passeggiate il bicicletta che fanno impazzire il traffico, ai black aut provocati artificialmente) potrebbero accelerare il processo di spopolamento.
Il problema ambientale, oltre alla sua ovvia importanza concreta, è estremamente rivoluzionario anche da un punto di vista teorico. Esso infatti rende palese l’inutilità nei nostri tempi di categorie politiche come la “destra” e la “sinistra”. Dalla Rivoluzione Francese ai giorni nostri, “destra” era considerata la fazione dei conservatori, mentre “sinistra” quella dei progressisti. Ma cosa significa oggi essere conservatori o progressisti rispetto al problema ambientale? Noi vogliamo conservare le montagne e vogliamo rivoluzionare i mezzi di produzione inquinanti, è chiaro che la posizione ambientalista rivoluzionaria non riesce a definirsi all’interno della dicotomia destra-sinistra.

LA GUERRA
Il problema della crescita trova la sua motivazione all’interno della società in quella che possiamo definire la concorrenza nazionale, ovvero la guerra. Una nazione che non cresce o che cresce ad un passo minore delle altre, diventa presto una nazione debole. Lo sviluppo delle economie nazionali in crescita tende per propria natura all’aggressione dei mercati più deboli, i quali, se la loro crescita non regge il passo, poco alla volta si trasformano in un serbatoio di manodopera e di consumatori per i prodotti che provengono dai mercati dominanti.
Lo sviluppo di queste contraddizioni porta alla guerra, nelle sue molteplici forme e nei suoi molteplici significati: dalla guerra esterna, provocata dalla concorrenza nazionale, alla guerra interna, provocata dalla concorrenza aziendale. La guerra tra nazioni si combatte a colpi di carri armati, di bombe radioattive, di bombardamenti e di embarghi nei confronti dei mercati nemici; la guerra tra aziende si combatte a colpi di licenziamenti, a colpi di manganelli per chi si ribella, a colpi di manette e di galere. In entrambi i casi la guerra provoca sofferenze e morte agli oppressi.
Negli ultimi venti anni, dalla crisi dell’Unione Sovietica in poi, abbiamo visto un consistente aumento delle guerre, in entrambi i sensi. Sono aumentate le guerre di aggressione alle economie nazionali, come le guerre in medio oriente per il controllo del mercato del petrolio o quella nei balcani per il rafforzamento dei confini dell’economia europea, ma sono aumentate anche le guerre interne, con la diffusione del lavoro precario, con la diffusione dei mutui e di altre forme di strozzinaggio, con la diffusione di leggi e polizie speciali, con la costruzione di carceri sempre più tecnologici.
E’ comunque semplicistico considerare le cause delle guerre solo da un punto di vista economico. L’economicismo del cosiddetto movimento no global, un po’ come il vecchio economicismo marxista, tende a banalizzare la realtà. Ad esempio in Iraq, oltre che per il petrolio, la guerra è stata fatta anche per rispondere a degli impulsi irrazionali e antieconomici delle sette interventiste e ultrareligiose che sono il principale bacino elettorale di Bush; anzi, più in generale possiamo dire che negli USA la scarsa crescita economica è provocata in gran parte dai miliardi di dollari investiti per le politiche militari. Altro esempio: la guerra dei padroni contro gli oppressi, guerra che ha portato alla costruzione di super carceri, allo sviluppo di tecnologie più costose che produttive (come gli esperimenti della CIA per il controllo mentale), in realtà è una guerra non motivata dalla semplice crescita di soldi nelle tasche dei padroni, ma soprattutto è una guerra finalizzata al controllo di quegli elementi di ribellione che possono incrinare il dominio degli oppressori sugli oppressi.
Quando parliamo di crescita, una crescita che spezza la schiena ai lavoratori e inquina la terra, una crescita apparentemente fine a se stessa, una mentalità per cui una società sta tanto bene in base a quanto cresce la percentuale del PIL o della borsa, in realtà non intendiamo solo la crescita economica: per crescita si intende anche la crescita di repressione, di armi, di controllo e di potere, una crescita che costringe gli stessi padroni alla minaccia costante di essere schiacciati da nuovi padroni che sono cresciuti più velocemente. I soldi sono uno degli indicatori per riconoscere chi ha il potere da chi non lo ha, ma in generale si è ricchi perché si ha potere, non viceversa. Non basta il denaro se non si ha una banca dove metterlo, se non si hanno le telecamere che monitorano quella banca, se non si hanno degli sbirri pronti a mettere in galera chi tenta di svaligiare la banca, se non si ha un carcere in cui richiudere il ribelle arrestato, se non si hanno dei servizi segreti che indagano su chi, come gli anarchici, lottano per la distruzione del carcere, se non si hanno leggi speciali per colpire chi decide di attaccare militarmente i lager, ecc.
Per fermare le guerre l’atteggiamento non può essere univoco, ma deve essere flessibile, dinamico, in grado di modellarsi in base alla situazione concreta che si vuole aggredire e in base all’ipotesi che si vuole costruire. Ancora una volta l’atteggiamento personale è condizione necessaria, ma non sufficiente: rifiutare la leva militare, rifiutare il meccanismo della crescita, ecc, sono pratiche a cui vanno affiancate l’azione diretta antimilitarista e anticarceraria.
Purtroppo le lotte antimilitariste e anticarcerarie negli ultimi tempi hanno diviso gli anarchici invece che unirli, da una parte chi combatte contro le caserme e le basi militari, dall’altra chi combatte contro le carceri e i regimi speciali di detenzione. Le due guerre, quella contro le galere e quella contro gli eserciti, in realtà non vanno viste in opposizione, ed un esempio di “sintesi” è proprio la battaglia contro i CPT in cui la lotta contro i lager per immigrati è una lotta contro un apparato armato dello stato che ha occupato militarmente le coste del sud Italia, in particolare Sicilia e Salento. Non ci vuole chissà quale spirito di osservazione per notare lo straordinario dispiegamento militare delle coste di Otranto o simili, con le decine di radar sulla costa, con caserme sulle alture che controllano il mare dall’alto, con blindati dell’esercito che girano per le spiagge, con i motoscafi della Guardia Costiera che non trovano mai riposo; insomma una vera e propria situazione di guerra permanente contro un nemico di disperati che cercano solo un posto dignitoso dove vivere, un vero e proprio stato di golpe in cui di fatto non è la polizia che controlla il territorio ma i militari. In questi fenomeni si può trovare il legame che unisce la guerra esterna con la guerra interna, il militare con il carcerario: i CPT sono lager dove i clandestini vengono rinchiusi una volta scovati dalle forze militari.
L’azione diretta antimilitarista e anticarceraria deve avere un progetto, deve ipotizzare strategie per costruire una nuova società. Anche fosse possibile far scomparire da un giorno all’altro galere ed eserciti, cosa del tutto improbabile senza una rivolta di tutti gli oppressi, ciò provocherebbe solo un caos tale da far rimpiangere ai nostri piccoli borghesi il vecchio regime e nel giro di pochi giorni avranno le forze per ricostruirlo. Occorre invece proporre un’altra società, un sistema diverso dal nostro; occorre avere le capacità di ipotizzare una opposizione che non sia semplicemente l’antitesi speculare del sistema, che non si limiti a fare col tritolo brecce sui muri delle carceri o a fare azioni pacifiche di disturbo ai radar militari, ma che neanche rifiuti a priori queste pratiche: ci vuole un movimento rivoluzionario, sinceramente antiautoritario e libertario, che sappia ricondurre alla singola azione diretta, da quella più pacifica a quella armata, la proposta agli oppressi come noi di un progetto rivoluzionario.
Bisogna studiare a fondo e comprendere gli intrecci su cui si lega la nostra società ed uno ad uno disarticolarla: denunciare e combattere i regimi di repressione carceraria speciali come l’EIV e il 41 bis in Italia, o il FIES in Spagna, combattere tutte le carceri ed aprire un dialogo con i detenuti, proporre anche con azioni spettacolari (violente o meno) le nostre idee ad un pubblico più vasto dei compagni impegnati del movimento, fermare la macchina bellica rendendo impossibile la vita delle fabbriche di armi o le attività delle caserme e dei radar, ecc.
Colpire l’elemento repressivo del sistema, carceri e caserme, è importante, ma deve appunto essere affiancato a quel progetto di costruzione di un mondo senza inquinamento e senza sfruttamento. Quando è stata organizzata la mobilitazione sotto il carcere dell’Aquila il 3 giugno 2007 ci si è firmati come compagne e compagni contro il carcere e la società che lo crea. E’ venuto il momento di occuparci della società che crea carceri e caserme, e senza le quali non potrebbe esistere.

LO SFRUTTAMENTO NELLE REGIONI SOTTOSVILUPPATE DEL PIANETA
La società contemporanea basata sulla crescita a tutti i costi, fa pagare la gran parte delle sofferenze ai paesi poveri. Nella società globale le ricchezze sono in mano a poche aziende e nazioni ricche, a discapito della gran parte del pianeta: tutti ormai conosciamo i dati per cui il 20% della popolazione ricca della terra detiene l’80% delle ricchezze del pianeta e viceversa l’80% rimanente sopravvive dividendosi il 20% delle ricchezze.
Tutti lo sappiamo, ma nessuno ha saputo sviluppare una proposta per cambiare questa situazione. Il fallimento del movimento no global è sotto gli occhi di tutti, la mentalità frikkettona del ricco che va in corteo a per ballare e fumare canne credendo di cambiare il mondo si è dissolta ai primi colpi di pistola. La rivolta non può partire dal mondo ricco in solidarietà con i disperati della terra, ma deve essere opera di coloro che più di ogni altro soffrono l’oppressione di questa maledetta società.
Dai paesi più sviluppati, al massimo, può partire la spinta teorica, culturale, politica, spinta che nasce dal fatto che in Italia si riesce a studiare Marx e Bakunin, ma anche storia, matematica e filosofia, e quindi si ha un minimo di preparazione, mentre in Nigeria hanno altro a cui pensare. Ma al di là del contributo teorico, che poi non va sopravvaluto, la redenzione dei disperati deve essere opera dei disperati stessi.
Il sud del pianeta per secoli e secoli ha subito il dominio delle potenze europee e poi degli Stati Uniti, non ha mai potuto dare una risposta libertaria a questa oppressione perché gli unici appoggi che avevano provenivano dall’Unione Sovietica, che certo non era un baluardo di libertà. Non a caso, con il crollo del mito sovietico si sono cominciate a sviluppare le prime forme di ribellione libertaria: dalla rivolta zapatista in Chapas alla comune di Oaxaca, dallo sviluppo del movimento comunista anarchico in Sud Africa fino alle azioni armate del Movimento di Emancipazione del Delta del Niger, dalle azioni antimilitariste ed ecologiste degli anarchici in Russia allo sviluppo sempre meno sotterraneo del movimento anarchico cinese. Tutte queste cose difficilmente si sarebbero verificate senza la caduta del Muro di Berlino. La stessa ascesa del socialismo bolivariano in Venezuela, che sicuramente non è un fenomeno libertario, in ogni caso rappresenta la vittoria di una forma socialista “eretica” nei confronti dei dogmi dell’ideologia marxista.
Spesso manca, da parte degli occidentali, la capacità e la voglia di analizzare queste situazioni, più facile andare ad un concerto punk non c’è dubbio.
La chiave comune di lettura è ancora una volta nel mito della crescita a tutti i costi e nelle conseguenze che subisce chi cresce di meno. La redenzione di queste aree del pianeta non può assolutamente passare per una fase liberale, sarebbe la distruzione della terra. Se si aspetta che il contadino cinese avrà gli stessi confort di un operaio europeo, nella convinzione marxista della superiorità della classe operaia su quella contadina, quel giorno rappresenterà la fine della vita sulla terra. Il nostro pianeta non può infatti sopportare miliardi di persone che consumano acqua, gas e petrolio come un milanese.
L’ipotesi rivoluzionaria, anche e soprattutto nelle regioni sottosviluppate del pianeta, deve partire dalla distruzione delle città. I cosiddetti paesi in via di sviluppo hanno visto incrementare la grandezza delle proprie capitali in maniera spropositata. Si pensi a Città del Messico, a Pechino, a Lima, a Calcutta. In queste enormi metropoli sono confluiti non solo centinaia di migliaia di lavoratori iper-sfruttati, ma anche altrettanti diseredati. Ci sono nel mondo milioni di persone che vivono nelle baracche alla periferia delle grandi città dei paesi in via di sviluppo, milioni di bambini che dormono nei rifiuti e che vengono costrussi alla prostituzione.
Le campagne sono state sottratte ai contadini del sud del mondo dalle multinazionali statunitensi ed europee, le foreste dove vivevano le tribù sono state distrutte. L’ignoranza agraria di questi gruppi industriali li ha portati a rinnegare la storica scoperta della rotazione triennale delle terre, accecati dal potere e dalla ricchezza immediata le multinazionali stanno riportando le terre del mondo povero alle monoculture. A differenza delle monoculture medievali, però, quelle moderne sono monoculture intensive, supportate da mezzi industriali ad alta tecnologia. Risultato: la terra che per millenni è stata lavorata da miliardi e miliardi di contadini si impoverisce sempre più. Le multinazionali, una volta succhiato il midollo dei loro raccolti, li abbandonano alla ricerca di altre aree da devastare. Le terre sono sempre meno fertili e danno a chi le lavora sempre meno frutti, il contadino non riesce a mantenere il livello produttivo della grande azienda e non riesce a tenere testa alla concorrenza portata dalla globalizzazione. Milioni di persone, quindi, si accalcano nelle metropoli in cerca di lavoro, di cibo e di acqua, alimentando l’inferno della disperazione.
La distruzione delle metropoli, la riappropriazione delle campagne, delle foreste e delle montagne, è l’alternativa da ricercare. Per il sud del mondo e per l’intero pianeta. Eccezione fatta per la rivolte metropolitane della crisi argentina, la maggior parte dei fenomeni insurrezionali nel mondo povero provengono dalle campagne e quasi sempre quelle che si sviluppano lontano dalle città sopravvivono. La rivolta argentina infatti come è comparsa, allo stesso modo è scomparsa, senza ottenere risultati significativi.
Questo dipende dal fatto che in città non ci sono i mezzi per sopravivere in maniera autogestita e indipendente dal sistema: i materiali lavorati in fabbrica vengono dalle cave, i prodotti dei supermercati provengono dalle campagne, il petrolio trasformato in elettricità che illumina e riscalda le abitazioni viene da pozzi che si trovano in zone extraurbane, gli stessi elementi chimici dei medicinali non crescono sotto l’asfalto delle periferie.
Diverso è il caso della rivolta dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale che sopravvive, una volta preso il controllo dei pozzi di acqua e dei campi, da oltre dieci anni all’interno del Messico; diverso il caso della guerriglia colombiana, che occupa ormai un terreno di foresta amazzonica paragonabile per vastità ai confini di una nazione europea; diverso è il caso delle resistenze islamiche, che sorgono e si nascondo nelle montagne afgane o nel deserto iracheno. In ognuno di questi eventi, al di là dell’ideologia, talvolta rivoluzionaria talvolta riformista talvolta reazionaria, che li accompagna, il comune successo dipende da un punto di vista strettamente pragmatico e militare dal rifiuto di una lotta esclusivamente metropolitana.

LO SFRUTTAMENTO NELLE REGIONI RICCHE DEL PIANETA
Nell’analisi delle nazioni più ricche saltano subito all’occhio due fattori, uno umano ed uno economico: la vita sempre più virtuale degli individui e l’intervento massiccio dello Stato nell’economia.
Per quanto riguarda l’invasione virtuale, essa presenta dei seri pericoli, perché mette a rischio la capacità di analisi dei soggetti coinvolti. Il virtuale sta sempre più sostituendo il reale, in un processo che viaggia sotto le frequenze della consapevolezza. In altre parole, il mondo cibernetico che ci circonda sta producendo una società dove gli individui che la compongono non sono a conoscenza dei rapporti complessivi, ma solo del loro campo specifico. L’ideale socialista e anarchico dell’abolizione della divisione del lavoro nel mondo virtuale appare sempre meno realizzabile. Io ho delle idee e le scrivo a computer, ma non conosco il processo per cui premendo il tasto A la lettera A compare sullo schermo; allo stesso modo la natura di questo processo non la sa nemmeno l’operaio specializzato che mette insieme i pezzi del mio PC; inoltre io diffondo i miei scritti in internet e per fare questo mi appoggio ad un sito come www.anarchaos.it e ad un compagno che sa programmare un sito internet, poiché io non so fare nemmeno questo.
La divisione del lavoro impedisce quindi l’autogestione completa di me stesso, delle mie idee e del movimento di cui faccio parte. Tale autogestione è limitata dal fatto che nel mondo virtuale, ognuno di noi è a conoscenza solo ed esclusivamente di quella pseudo realtà che lo circonda. In tutto questo manca della sostanza.
Il secondo aspetto, l’intervento dello Stato nelle questioni economiche, è interessantissimo perché stravolge le convinzioni leniniste di uno Stato che si limita a fare la “guardia del corpo del capitale” e quelle no global di uno Stato in via di estinzione. I risultati economici ottenuti dai governi socialdemocratici europei e da quelli democratici americani invitano a riflettere sul fatto che oggi i padroni non cercano la sfrenata libertà di fare ciò che vogliono, ma semplicemente cercano un modo sicuro di fare soldi: se lo Stato garantisce controllo e polizia, se lo Stato sovvenziona le imprese emergenti, se lo Stato de-tassa i consumatori allora lo Stato è il ben venuto.
Di fronte all’alleanza tra uno Stato, sempre meno burocratico ed efficace, ed un capitalismo più “umano” nei confronti dei lavoratori ormai trasformati in consumatori semi-benestanti dei loro prodotti, diventa difficile la proposta rivoluzionaria di autogestione del proprio lavoro e della propria vita.
L’ipotesi contadina supera questo, perché richiede un’organizzazione minima tale da produrre i beni necessari che mi permettono vivere. Per mandare avanti una fabbrica con 20 mila dipendenti occorre una certa coordinazione e le forme autogestionarie rischiano di fallire senza un capo che imponga dei ritmi e degli orari; al contrario un contadino riesce a controllare il proprio campo senza una particolare organizzazione sociale, questa comparirebbe solo, in una realtà rivoluzionaria, nella condivisione di alcuni mezzi di produzione come i trattori, l’aratro, le sorgenti d’acqua che possono essere “proprietà” di una collettività di 20-30 agricoltori.
Inoltre il mondo contadino riporterebbe al contatto con la realtà le illusioni virtuali: chi programma siti internet, chi scrive articoli al computer, chi lavora in ufficio, chi lavora in fabbrica, come chiunque al mondo per vivere deve MANGIARE e BERE, e ancora una volta gli unici prodotti che ti danno da mangiare e da bere non li sforna il computer, ne la fabbrica, ma la Terra.
La vita contadina, inoltre, permetterebbe di lavorare molte meno ore: se in una società ci sono 5 contadini e 5 operai i 5 contadini devono lavorare per sfamare anche i cinque operai, se in una società ci sono 5 contadini 5 operai e 5 impiegati e contadini devono lavorare il triplo di quello che lavorerebbero per sfamare solo se stessi, e così via. Considerando che in Occidente i contadini sono solo una minoranza ristrettissima, se tutti noi lavorassimo solo il minimo indispensabile per sfamarci i turni di lavoro quotidiani invece che essere di 8 ore potrebbero diventare di 1 o 2 ore al massimo!
L’esisto dello scontro dipende soprattutto dalla natura dello scontro. La natura dello scontro è l’insieme dei rapporti di forza che determinano la vittoria di una delle parti in conflitto, essa non è affatto scontata e non dipende in maniera univoca ne dal caso, ne dalla realtà oggettiva, ne dalla volontà soggettiva; dipende da tutte questi fattori insieme e da altri.
Un ribelle che fugge a piedi in una strada a quattro corsie inseguito da una volante della polizia difficilmente troverà scampo, mentre un ribelle che fugge a piedi in mezzo ad un bosco avrà più possibilità di salvezza; quindi la realtà oggettiva dello scontro è molto importante. Ma è altrettanto importante della realtà esterna anche quella interna, anche le capacità e la determinazione dell’individuo: se il ribelle in fuga si è sempre guadagnato da vivere al centro di Roma lavorando in un BAR, in un internet point, o con le lotte di un centro sociale, difficilmente saprà trovare da vivere in mezzo alla foresta.
Capire la natura dello scontro, capire dove combattere, che mezzi usare, che mondo costruire è indispensabile, non basta conoscere i nemici senza un progetto di società alternativa. Le rivolte straordinarie di Los Angeles, Genova e Parigi, per quanto affascinanti e devastatrici, sono finite il giorno dopo in cui è finita la sommossa. Noi, sebbene rispettiamo questi episodi, pretendiamo di più! Pretendiamo di costruirci un mondo in cui vivere in libertà, di difendere quel mondo, di continuare quel percorso per anni. Non bastano le romantiche poesie sulle fiamme della rivolta, occorre un progetto strategico alternativo. La proposta: distruggere le città!