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La notte dei lunghi Rutelli...

Publie le sabato 28 maggio 2005 par Open-Publishing
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La notte dei lunghi Rutelli...
di Riccardo Orioles
27 May 2005
Roma, 27 Maggio 2005. La cosa piu’ semplice sarebbe dire che sono diventati matti tutti quanti e che, altro che congressi, qua non resta altro da fare che chiamare il manicomio. La seconda ipotesi, ovviamente, e’ che li paga Berlusconi. La terza, quella buona, e’ che semplicemente la posta in gioco s’e’ alzata troppo e che le buone maniere, in questo poker finale, sono diventate veramente un lusso. La posta non e’ piu’ solo politica...fare un governo.

E’ determinare chi paga la sopravvivenza del paese - se sopravvive - nei prossimi vent’anni. Potrebbero pagarla Tanzi e Tronchetti, razionalizzando il sistema. Potrebbe pagarla Fantozzi, ma in questo caso bisognerebbe thatcherizzare il paese a un livello terrificante.

Quel che non si puo’ fare e’ continuare cosi’.

Ricordate la furberia piu’ furba degli ultimi vent’anni, il "sommerso"? Fare un sacco di sghei lavorando in nero, abolendo gli scioperi, senza sindacato? Il mitico nordest, i padroncini? Bene. Funziona benissimo. Ma non qui. Funziona in Cina, dove pero’ i "sommersi" sono due miliardi, con meta’ delle multinazionali del mondo (italiane comprese e compresi i nordestini) a dargli manforte e con noi come obiettivo finale: vendere panettoni cinesi a Milano e pizza di Shangai a Mergellina. Sono gia’ sulla buona strada, perche’ e’ dai tempi di Craxi che il concetto di "made in Italy" (cioe’ di "marchio", cioe’ di niente) ha sostituito il concetto di produzione e non possiamo pretendere ancora a lungo che la borsetta firmata (e prodotta in Cina) valga duecento euri mentre quella identica non firmata (sempre prodotta in Cina) ne valga venti.

Ecco: il punto a cui siamo e’ questo e le ricette intermedie, dopo trent’anni di sogni allegri e di addormentamento industriale, sono a zero. Adesso: o si portano gli operai italiani quasi a livello cinese, con tante belle chiacchiere vaselinose ma sostanzialmente col bastone. O si portano imprenditori e manager a livello civile, senza permettergli ulteriormente il lusso di disperdere in investimenti "politici", intrallazzi di borsa, rendite parassitarie, criminalita’ finanziarie, improfessionalita’ e tangenti le risorse che a questo punto sono vitalmente indispensabili per l’investimento e la ricerca.

Il Pil, liberato da tutto cio’, forse sarebbe sufficiente. E forse no. Una parte della classe dirigente, comunque, ritiene che valga la pena di provare. Un’altra parte, o per egoismo o per thatcherismo convinto, ritiene che e’ tempo perso e che serve un governo forte che imponga i "sacrifici" verso il basso. Il dopo Berlusconi, in tempi normali, sarebbe stato simpatico per tutti. Adesso no: noi industriali vogliamo sapere con precisione, prima di lasciar cadere Berlusconi, se potremo berlusconeggiare - educatamente - anche dopo o se per caso dovremo fare sacrifici per non farne far troppi ai cittadini comuni.

Vogliamo cioe’ sapere se dopo i disgraziati Borboni avremo un bel governo Savoia (che potremmo anche accettare) oppure un terrificante Mazzini e Garibaldi, che invece prenderemmo a fucilate.

In tema di transizioni cosi’ la Sicilia - lasciatemelo dire - e’ Cambrigde, Bologna, Oxford e la Sorbona. Il "cambiamento" gestito e controllato, "cambiare tutto perche nulla cambi" qui non e’ una politica e’ la politica in assoluto.

A Catania, ad esempio, il gattopardo Bianco (liberale) era riuscito benissimo a comprare o a rimbambire gran parte dei locali garibaldini ed era pronto a gestire il passaggio alla fase sabauda alla Sedara. Disgraziatamente per lui, anche fra gli avversari stavolta qualcuno ha avuto la stessa idea ed eccoti i "borbonici liberali" pronti a gattopardare anche loro - ancor piu’ cinicamente - il passaggio dal berlusconismo assoluto all’eta’ moderna.

Con una ricetta semplice: creiamo una lobby sul modello veneto o lombardo e andiamo a contrattare tutti insieme, sudditi ma minacciosi, dal re. Se ci accontenta bene, senno’ ci mettiamo all’asta al migliore offerente. Che ci frega? E’ probabile che alla fine s’incontreranno - son della stessa stessa razza - con lo sconfitto Bianco per far lobby comune. L’importante e’ comunque capire che non solo ha perso il centrosinistra, ma ha perso anche la destra italiana. Hanno vinto i capibanda serbi o croati, che infine son diventati una forza politica - disgregatrice - anche qui. D’ora in poi, invece di avere un Bossi solo ne avremo due.

In questa situazione, Prodi e’ decisamente troppo "di sinistra". Un programma di sia pur cauti aggiustamenti e riforme, di Europa, di sacrifici divisi e non caricati tutti sullo stesso groppone, si puo’ non dico prendere sul serio ma almeno discutere per prender tempo quando non c’e’ proprio altro da fare. Ma la Sicilia ha dimostrato che un’alternativa c’e’, ed e’ la creazione di lobbies padronali locali, la balcanizzazione. Ogni singolo pesce strappa un morso, non durera’ tantissimo ma intanto si passa il momento, finche’ dura. La sinistra siciliana, affidandosi totalmente - ormai da diversi anni - ai liberal-gattopardi e rinunciando alla grandissima forza dei garibaldini, ha fermato Prodi, ha dato respiro a Berlusconi e ha scatenato Rutelli e tutto cio’ di cui Rutelli e’, buffamente, l’espressione.

Per fortuna anche Berlusconi, per ragioni analoghe, ha i suoi problemi e quindi puo’ darsi che, nonostante tutto, la sinistra le elezioni le vinca lo stesso (a proprio dispetto) e infine vada al governo. Ma gia’ ora questo governo sara’ molto meno solido e molto meno popolare di quel che sarebbe stato se gli sciocchi dirigenti siciliani avessero puntato su un Garibaldi-Vendola e non su un Gattopardo-Bianco.

Quanto a noi, dobbiamo continuare a ragionare senza panico e senza mosse inconsulte. Abbiamo meno tempo di prima per fare una sinistra popolare, che non e’ affatto isolata e puo’ ancora salvare questo Paese.

http://www.reporterassociati.org/index.php?option=news&task=viewarticle&sid=7459

Messaggi

  • Se la navicella dell’Unione s’infrange, lo scoglio non è «Er cicoria»

    ALBERTO BURGIO da "il manifesto" 28.5.05

    Si è detto, con qualche ragione, che Romano Prodi ha reagito in maniera spropositata alla decisione dello stato maggiore della Margherita di presentarsi con una propria lista alle prossime elezioni politiche nel proporzionale. Dopo tutto si tratta del 25% dei collegi e non è nemmeno detto che questa scelta non serva ad aumentare il saldo finale del centrosinistra in termini di voti. Ma queste considerazioni eludono il dato politico posto in evidenza dal conflitto tra Rutelli e Prodi e cioè il fatto che l’unità tra i partiti dell’opposizione non esiste più, che l’Unione (nome che evoca un bisogno e una speranza) è in frantumi. Come si spiega il dissolversi in poche ore di quello che era parso un robusto aggregato di forze, in grado di sbaragliare l’avversario? Questa sembra essere la morale della faccenda: i fatti hanno la testa dura e si vendicano di chi pretende di non tenerne conto. Quali fatti? Molto semplicemente, la politica, quella fatta di cose concrete, di interessi, di bisogni, di progetti, tutte faccende estremamente serie, spesso poco maneggevoli, di cui il nostro ceto politico non ama occuparsi. Da quindici anni a questa parte non si parla che di persone (anzi di leader), di formule, di ingegneria istituzionale. Da ultimo ci si è illusi di risolvere ogni problema con l’antiberlusconismo, pensando che bastasse unirsi contro, che ci si potesse risparmiare la fatica di capire in che misura fosse possibile anche unirsi per.

    Oggi i nodi vengono al pettine. Si può anche prendersela con il presidente della Margherita («er sor cicoria»), ma serve a poco. E fa perdere di vista il fatto che la vera anomalia italiana (frutto dell’ubriacatura degli anni Novanta, quando si ritenne che il maggioritario e la personalizzazione della politica fossero panacee) consiste semmai in ciò, che il capo di una delle due coalizioni che si contendono il governo del Paese non ha dietro di sé nessuna forza politica organizzata che davvero risponda alle sue indicazioni. I nodi dunque vengono al pettine e bisogna affrontarli seriamente, se si vuole salvare la barca del centrosinistra da un probabile naufragio. Ma come fare?

    Se abbiamo colto nel segno, la risposta è scontata: ricominciando a parlare della società, delle classi che la compongono, dei loro bisogni; ricominciando a misurarsi e a dividersi su questo terreno. Anche a dividersi, anzi proprio questo è il punto. Perché delle due l’una. O si guardano in faccia le divisioni che esistono (che non potrebbero non esistere in un Paese in cui le rendite si moltiplicano e gli stipendi dimagriscono a vista d’occhio) e su questa base si lavora per costruire compromessi accettabili. Oppure si fa finta di niente e si continua a dire (com’è accaduto da ultimo a Giuliano Amato in un articolo esemplare apparso sulla Repubblica il 23 maggio) che una «piattaforma comune» c’è già, che esiste già un «grande serbatoio» di principi, orientamenti condivisi e documenti programmatici. Per cui possiamo stare tranquilli e continuare a discutere di formule e contenitori, salvo poi scoprire - magari all’ultimo momento, quando si tratta di prendere decisioni e manca persino il tempo per riflettere - che non è vero niente, che sulla guerra, i diritti del lavoro e di cittadinanza, il welfare non si è per nulla d’accordo, si hanno idee diverse, convinzioni diverse, aspirazioni diverse.

    Resta un ultimo punto da mettere in chiaro. Sbaglieremmo pensando che le varie forze oggi all’opposizione si trovino nella stessa situazione. Non è così. La Margherita può guardare avanti con relativa fiducia, forte di un saldo rapporto con il blocco sociale (ceti medi, grande impresa, banche, Vaticano) che garantì l’egemonia democristiana. Quel che resta della sinistra è in condizioni ben diverse, soprattutto a causa del conflitto tra gli interessi di gran parte del suo elettorato e gli orientamenti della dirigenza politica, perlopiù ammaliata dalle sirene della modernizzazione neoliberale. Le responsabilità che questa asimmetria affida alla sinistra di alternativa sono enormi. Essa avrebbe il compito di operare - con una battuta - affinché la sinistra italiana torni ad essere sinistra. Ma per questo dovrebbe anch’essa cambiare strada: smetterla di partecipare alla «grande diceria» su capi, capetti e formule, e dare coraggiosamente (e, se possibile, unitariamente) battaglia sui programmi, dicendo senza reticenze come pensa di volere trasformare questa società. È difficile ma è indispensabile. A meno che non si voglia fare a Berlusconi il regalo di un’altra vittoria elettorale, magari per compensarlo della dura batosta di Istanbul.