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La paura del futuro Ansia, panico? Occupiamo la scuola di Franco Berardi Bifo
Publie le mercoledì 24 gennaio 2007 par Open-PublishingGli studenti e le studentesse del liceo bolognese
Minghetti hanno occupato per qualche giorno la loro scuola, la settimana
scorsa. Non è una gran notizia, perché di occupazioni
ce n’è tante: cominciano, finiscono,
talvolta cambia qualcosa talvolta non
cambia niente. Ma quel che mi ha colpito
non è l’occupazione, bensì le motivazioni
che sono venute fuori. Alcune delle motivazioni
non sono nuove, anche se fin troppo
giuste, come la protesta contro il travaso di finanziamenti
verso la scuola privata e la diminuzione
di finanziamenti per la scuola pubblica.
Ma emerge tra le motivazioni una problematica
che a mio parere è destinata a diventare
quella più importante nel tempo che
viene: l’ansia, il panico, il disagio mentale.
In una indagine che è stata svolta prima e
durante l’occupazione stessa una larghissima
maggioranza di studentesse (molto
meno ragazzi) hanno denunciato l’ansia e
lo stress, e il panico. La causa più immediata
che hanno indicato le ragazze intervistate
è il carico di lavoro scolastico, il sentimento
di essere sovrastate dai ritmi che la
scuola impone loro.
Il nucleo profondo della questione che le ragazze
del Minghetti hanno posto riguarda
però tutti noi.
Sta diventando adulta una generazione che
fin dalla prima infanzia è stata sottoposta a
un flusso ininterrotto di stimoli informativi,
molti dei quali hanno un carattere di sollecitazione
competitiva. Un vero e proprio assedio
dell’attenzione da parte del sistema mediatico.
La pubblicità lavora sulla percezione
di sé, sull’identità in competizione. La televisione
e i media virtuali mobilitano costantemente
il sistema nervoso sottraendo spazio
per la socializzazione, per lo scambio affettivo,
per la corporeità. Linguaggio e affettività
sono scissi in maniera patogena.
Fino a un paio di decenni fa la sindrome del
panico era praticamente sconosciuta. La parola
panico aveva un significato indefinito,
romantico, aveva a che fare con il sentimento
di essere sopraffatti dall’immensità della natura.
Ma negli ultimi anni il termine è entrato
a far parte del lessico psicopatologico, perché
un numero crescente di giovanissimi e di lavoratori
(soprattutto quelli che lavorano nei
settori in cui si impiega tecnologia informatica)
denunciano alcuni fra i sintomi che possono
definire una crisi di panico: palpitazioni,
cardiopalmo, o tachicardia. Sudorazione,
tremori fini o a grandi scosse, sensazione di
soffocamento e di asfissia, dolore al petto,
nausea o disturbi addominali, sensazioni di
sbandamento, di instabilità, di testa leggere o
di svenimento, derealizzazione, paura di
perdere il controllo o di impazzire, sensazioni
di torpore o di formicolio.
Gli psichiatri non sono in grado di indicare le
cause di questo fenomeno, probabilmente
perché sfugge al loro campo. Il panico si può
definire come una reazione dell’organismo
posto in condizioni di sovraccarico informativo.
L’organismo riceve troppe informazioni
per poterle elaborare affettivamente, e per
poter costruire strategie di comportamento
razionale.
Per completare il quadro patologico occorre
ricordare che un numero crescente di
bambini e di ragazzi nella prima adolescenza
soffrono di quella sindrome che gli psichiatri
americani hanno definito Attention
deficit disorder: una incapacità di concentrare
l’attenzione su un oggetto mentale per
un tempo superiore ai pochi secondi. Non è
forse del tutto comprensibile, se teniamo
conto del fatto che l’ambiente cognitivo nel
quale queste persone sono cresciute è un
flusso psicostimolante che sposta continuamente
l’oggetto dell’attenzione, come
accade nelle pratiche del multitask o dello
zapping? Non è forse del tutto comprensibile,
visto che l’ambiente di formazione videoelettronico
tende a scindere l’esperienza
cognitiva e linguistica dal contatto corporeo
e dalla socialità affettuosa?
Due psicoanalisti parigini (Michel Bensayag
e Gerard Schmit) hanno pubblicato un libro
dal titolo L’epoca delle passioni tristi in cui,
partendo dalla loro pratica analitica, giungono
alla conclusione che la percezione stessa
del futuro è divenuta fonte di panico e di depressione.
Scrivono i due studiosi: ”La tradizione
della psichiatria fenomenologica descrive
la depressione come un’esperienza di
vita in cui uno sente di non avere più tempo,
di avere il tempo contato e di non avere più
spazio fino al punto che sentendosi braccato
incorre in un autentico stallo esistenziale. Il
tempo scorre a gran velocità e non c’è posto
in cui scappare: la persona depressa ritrova
dappertutto il già noto. Non esiste luogo o rifugio
che le consenta di sfuggire alla trappola
della depressione”.
Ora, questa descrizione della depressione si
attaglia perfettamente alla vita quotidiana di
decine di milioni i persone che non si considerano
affatto depresse.
Mi pare che proprio questo sia il problema
posto dalle studentesse del liceo Minghetti.