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La piazza di Parigi, vista in tv da un precario italiano
Publie le mercoledì 5 aprile 2006 par Open-Publishingdi Francesco Pacifico
Alla vigilia delle elezioni, alcuni scrittori hanno raccontato l’Italia che c’è e quella che vogliono. Sperando che cambi davvero. L’autore di questo testo, è nato nel 1977, collabora con diverse interviste. Ha pubblicato con Minimum fax.
Il canale 500 di Sky sta dedicando un dei suoi sei sotto-canali interattivi alla manifestazione dei giovani parigini contro il contratto di primo impiego. Una telecamera appesa all’occhio di Dio segue, con i suoi zoom e le sue esitazioni e scelte narrative, le corse maldestre dei ragazzi e dei poliziotti: ballano una quadriglia sotto il cielo grigio, correndosi incontro e ritraendosi all’improvviso, seducendosi, promettendosi la morte. I ragazzi hanno caschi bianchi o neri e si spostano in gruppetti, in massa, uno a uno, secondo esigenze comprese lì per lì. A Place de la Republique, chiusa al traffico, c’è spazio a dismisura per un quadro vivente pieno di intenzioni contrastanti. Alcuni ragazzi ridono altri scappano altri finiscono per terra, accalappiati da una decina di poliziotti che fanno un dramma quando si tratta di ammanettarne uno e portarlo in una camionetta come esempio per gli altri.
La telecamera panottica della tv francese indugia di continuo sui dettagli, tanto che è impossibile riconoscere Place de la Republique. Si vedono solo sprazzi di aiuole e di marciapiedi, semafori abbandonati a se stessi, incoscienti del senso della lotta, isterici con le loro luci verdi, bianche e rosse. Allo stesso modo è difficile farsi un’idea di cos’è questa manifestazione. Si tratta dei soliti ragazzi molto belli di Parigi, e dei soliti poliziotti molto spaventosi dei film ambientati nel futuro, ispessiti dai caschi e gli scudi rettangolari.
I ragazzi sono belli. Anche perché sotto i caschi da moto o da carpentiere portano le stesse giacchette marroni o blu che portavano i loro genitori ai loro tempi. Una moda che dura da quarant’anni ha la possibilità di dettare regole morali indistruttibili. Quando i cavalieri medievali onoravano le loro dame con romanzi in versi sulla loro bellezza irraggiungibile, rendevano impossibile alle dame stesse di chiedere di essere lasciate libere di uscire più spesso dalle stanze in cima alle torri, dove vivevano rinchiuse nei giorni senza giostre o matrimoni. Così, se è permesso dalla legge indossare giacchette e frangette così ribelli, ribelli da quarant’anni, con quale faccia si può chiedere a un uomo politico anche di opporsi alla congiuntura e revocare il Cpe?
I cinesi sanno, e hanno sguardi furbi e impassibili, e hanno la tendenza a saper aspettare di vedere il cadavere del nemico passare a morto a galla sul pelo del fiume. Hanno aspettato e aspettato per decenni senza anchilosarsi il sedere o piegarsi la schiena sulle ostili rive stitiche dei loro fiumi, e ora vedono due generazioni europee scontrarsi fra loro, all’oscuro della morte certa che li attende quando il mercato si sarà spostato tutto a est, all’oscuro del valore morale o poetico della nuova povertà.
Dove sono i genitori dei ragazzi che manifestano, dove sono i padri che hanno passato in eredità le giacche ai figli? Nelle camionette della polizia? O nelle camionette ci sono dei soldati cinesi?
Seguo la diretta da Parigi sdraiato sul letto elettrico dei miei genitori, tirato su lo schienale a quarantacinque gradi per vedere meglio. Sono venuto qui dopo pranzo perché ogni tanto posso lavorare da casa, e casa per me non è la casa di me e mia moglie, perché io e la mia giovane moglie non abbiamo né Sky né l’Adsl, e a nessuno serve una casa con così poche frecce al suo arco.
Lavoro da casa significa ricerche su internet, telefonate, o studiare enormi faldoni di case studies che sono stati affidati interamente a me. Considerata la forma dinamica del mio contratto alla società di consulenza in cui lavoro, un paio di pomeriggi a settimana posso fare per conto mio, con i collegamenti internet che preferisco, seduto come voglio - ossia sdraiato, sdraiato come una tartaruga che non si rialzerà mai.
Una camionetta bianca ha conquistato il centro della scena. Spara due potenti getti d’acqua sulle schiene dei ragazzi più belli di Parigi, tutti convocati in questo remake europeo (non sanguinoso) di Piazza Tien An Men. La tragica consapevolezza di morire del giovane con i secchi in mano che fermò un carrarmato per pochi secondi durante i moti di Pechino, è qui sostituita da un ragazzo che si tira giù i pantaloni e si becca il getto direttamente sulle chiappe. Il getto lo fa volare in avanti di qualche metro, ma resta in piedi. Ritorna alla carica abbracciandosi con gli amici, come in una mischia di rugby in cui i giocatori di una squadra danno le spalle all’altra e vanno all’offensiva con i loro sederi belli di giovani ricchi che presto diventeranno poveri.
L’idea degli idranti ha subito presa nell’immaginario collettivo in fieri della piazza insorta: ora i ragazzi sono almeno una quarantina, tutti che si spingono sotto il getto d’acqua come al mare, quando il padre lava i figli nel giardino di casa spruzzandoli con la pompa al ritorno dalla spiaggia e i bambini gridano impazziti di gioia.
Stasera i ragazzi e le ragazze si baceranno e trarranno conclusioni, senza pensare ai cinesi, senza pensare agli indiani.
Lavorare da casa dei miei non è una buona idea. Mio padre in vestaglia, mia madre con le sue attenzioni da madre, e la perfezione formale di una casa abitata da trent’anni, che stasera quando tornerò da mia moglie avrà indotto in me l’impressione disfattista che casa nostra, piccolo feto di casa che nessuno tranne noi due vuole far nascere e forse neppure noi, che casa nostra non abbia le carte in regola per assumere i significati ancestrali che ha questa, la casa dei miei e della mia infanzia, dove ho pilotato macchine radiocomandate, mangiato patatine fritte dicendo amen come fossero ostie, invitato ragazze sparpagliando sul letto i miei cd preferiti.
Mia madre entra in camera sua verso le sette e io le chiedo di passarmi il cavo per attaccare il computer alla televisione. Lo usa papà quando vuole vedere i film in dvd dal pc perché per pigrizia non ha comprato un lettore dvd per la camera da letto. Attacco il cavo e accendo il gioco del simulatore di volo Microsoft, poi spengo la luce della stanza dalla pulsantiera del comodino. Il grande televisore mi propone la scelta dell’aeroporto. Scelgo un piccolo aereo a elica, un’alba ferrosa su una pista innevata fuori da Aosta, a ridosso di una pericolosa montagna.
Ora lo schermo è tutto buio, e i fiocchi di neve cadono sul parabrezza del mio aereo. Nel gioco sono le cinque di mattina e immagino il mio volo impaurito per portare soccorsi dall’altra parte della montagna: le strade sono tutte bloccate dalla bufera. Decollo a fatica, disprezzato dal vento e dall’accenno di bufera come se io, un uomo che può volare, non contassi proprio niente e il mio sprezzo per il pericolo contribuisse a farmi giudicare inetto dagli eventi atmosferici e da Dio.
Decollo nell’oscurità, supero la montagna, corro a prestare i soccorsi; per oggi ho lavorato abbastanza.