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La plebe senza tribuni

Publie le giovedì 17 novembre 2005 par Open-Publishing

BANLIEUE - CONFLITTI MOBILI

Periferie bruciate LA PAROLA D’ORDINE della rivolta nelle banlieue francesi è «rispetto». I giovani non chiedono infatti qualcosa, ma di essere trattati come gli altri. Allo stesso tempo affermano che la loro vita non può «continuare così» e che la polizia e persino la scuola sono simboli di una guerra interna dichiarata dalla «città normale» contro di loro

di MARCO BASCETTA

La Francia, è storia nota, rappresenta da oltre due secoli il più sorprendente alambicco politico d’Europa. E non sempre le esplosioni e i vapori che ne scaturiscono giungono ad essere decifrati. Tra i più intriganti misteri sociali del dopoguerra v’è certamente lo sciopero dell’estate 1953 (di cui racconta Georgette Elgey nella sua Histioire de la IVième République ). In quell’estate milioni di lavoratori, dagli operai di fabbrica ai singoli artigiani, scesero spontaneamente in sciopero, paralizzando in pochi giorni l’intera nazione. Il fatto sorprendente è che gli scioperanti non si ponevano specificamente alcun obiettivo politico, sociale o sindacale, non si capiva che cosa volessero: «Non era uno sciopero politico, e ancor meno una insurrezione; era piuttosto, se l’espressione non è troppo scioccante, uno sciopero di tristezza. La popolazione ha smesso di lavorare perché nulla andava bene (...) Ne avevano abbastanza. Di cosa? Di tutto e di niente. E improvvisamente ci fu un’esplosione senza una spiegazione logica». Senza contare la scelta autolesionista e del tutto incomprensibile di scioperare in piena estate, durante le ferie pagate. Per vederci più chiaro in quell’ incredibile conflitto di massa senza poste in gioco Mendès-France andò a interrogare gli scioperanti della sua città. Il dialogo che ne scaturì è una vera e propria scena del teatro dell’assurdo: «Cosa domandate esattamente? - Così non può più andare - Volete un aumento dei salari? - Sì, si vuole sempre l’aumento quando si sciopera. - Ma se l’ottenete, i prezzi aumenteranno e non vi sarà servito a niente. - E’ vero. - Ma allora? - Non possiamo più continuare così!»

Stranieri in patria

Questo stesso stato d’animo di insofferenza assoluta, di impossibilità a «continuare così», traspare ripetutamente nelle scarne interviste che i media raccolgono in questi giorni tra i giovani rivoltosi delle banlieue parigine, ma anche tra coloro che semplicemente stanno a guardare, chi furente, chi fatalista, chi comprensivo, la distruzione delle sterminate periferie in cui vivono e in cui «nulla va bene», e persino tra coloro che partecipano alle ronde per difendere questa o quella struttura dai casseurs. Chi obietta loro che bruciando autobus, scuole, palestre e biblioteche non faranno che peggiorare le proprie condizioni di vita, facilmente potrebbe sentirsi rispondere: «Non possiamo più continuare così!».

Certo, quelli erano lavoratori e questi disoccupati, quelli scioperavano e questi incendiano, quelli erano francesi di tutte le età, con tanto di basco e bicicletta, questi sono prevalentemente francesi di colore e di giovanissima età, «stranieri» per gli uni e per gli altri, per i francesi come per il paese di origine dei loro genitori, quella era un’intera nazione, o quasi, queste sono terre di nessuno, disgregate, attraversate da numerose faglie etniche e culturali, cui si guarda con timore o con disprezzo. Eppure il rifiuto che viene prima di ogni rivendicazione e strategia politica, financo di ogni articolazione razionale, la necessità impellente, assoluta, di interrompere con ogni mezzo un ordine che toglie il respiro ha una sua «politicità naturale», una sua ragione che precede la ragione, una sua indiscutibile «autenticità». E’ un fatto che solo questo moltiplicarsi improvviso di esplosioni di violenza, talvolta di vera e propria cattiveria, ha reso visibile il disagio, strappato il velo di ipocrisia che copre intollerabili situazioni di disuguaglianza, di abbandono e di desideri frustrati, che sono poi l’equivalente contemporaneo e metropolitano, dell’antica indigenza.

Questi giovanissimi rivoltosi si può chiamarli «canaglia» come imprudentemente ha fatto il ministro degli interni Sarkozy (sebbene quella parola, conviene tenerlo a mente, nella lingua del potere ha sempre rappresentato un bel pezzo di società), si può includerli nel gergo criminologico della «banda giovanile» o agitare vanamente l’azione occulta di mestatori e trame eversive, ma difficilmente si riuscirà a nascondere la realtà di una diffusa condizione di esistenza «coatta» (il nostro gergo romano coglie bene il nesso tra violenza e costrizione) che quasi naturalmente, per via di emulazione, o meglio di contagio, si rovescia in tumulto che colpisce alla cieca, anche se cieco non è.

I politici francesi, anche quelli che indossano la maschera più ringhiosa dello stato, non lo ignorano affatto. Sanno anche loro che «non può andare avanti così» e che non basterà l’escalation della repressione a riportare un ordine miserevole nella giungla delle periferie. Qualcosa, ma che cosa? dovranno concedere, smentendo l’assunto ripetuto tanto ossessivamente da tradirne l’assoluta ipocrisia, che «con la violenza non si ottiene nulla», che, se ci si credesse davvero, si rinuncerebbe anche alla repressione. E, infatti, insieme al coprifuoco, annunciano misure economiche e sociali in favore delle periferie, che in condizioni normali volentieri si sarebbero risparmiati. Si dovrebbe allora concludere col Machiavelli dei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio che i tumulti non sono da condannare perché rafforzano la Repubblica e determinano la bontà delle sue leggi, mettendo sotto il naso dei governanti la determinazione dei governati a non essere oppressi (del resto Jacques Le Goff interpellato da Repubblica sui disordini francesi ha rievocato la rivolta dei Ciompi). Se i rivoltosi avessero dunque mirato a questo avrebbero già in qualche modo vinto, ma non è così.

Polizia d’occupazione

I motivi di disagio, le frustrazioni, i rancori, la miseria delle condizioni di vita, il disprezzo subito, l’esclusione sono, beninteso, facilmente elencabili, e molti li hanno elencati, ma c’è qualcosa di più, qualcosa che sfugge agli strumenti della politica e alla comprensione stessa del «fatto sociale». Un intero mondo esteso, imprevedibile, fuori controllo, ma al tempo stesso inaggirabile, con i suoi istinti e le sue abitudini consolidate, si rivela nei fuochi delle periferie francesi. E con esso la tentazione del potere di entrare nella teoria e nella pratica della «guerra permanente», preventiva e non, e della sospensione, a macchia di leopardo, dello stato di diritto, di cui il richiamo dei riservisti e il ricorso al coprifuoco, decisi dal governo di Parigi, costituiscono il primo inquietante passo. Ma, in verità, non è da qui che comincia la guerra.

Le vaste aree metropolitane dell’esclusione e del degrado, da Los Angeles a Rio, da Città del Messico a Parigi, da Londra a Lagos sono sottoposte stabilmente a una costituzione materiale ben diversa da quella che vige nella «città normale», la legge vi è applicata in modo tanto diverso da assumere i tratti di «un’altra legge», quasi a riprodurre quei due pesi e quelle due misure che per buona parte della storia umana hanno diviso i patrizi dai plebei. In queste terre «ostili» la guerra esiste da un pezzo, le forze di polizia vi agiscono come un esercito di occupazione attraverso incursioni, retate, controlli, arresti, pestaggi, con la netta percezione di essere circondate da nemici irriducibili e irredimibili. Percezione, del resto, condivisa dai «nemici» che si sentono vessati da un esercito «straniero», brutale e sprezzante. Il modello di Los Angeles, del Lapd e dei riots, dei quartieri fortificati e dei ghetti sempre sull’orlo di una nuova esplosione di violenza è davvero, come ci avvertì Mike Davis già molti anni fa, iscritto nel nostro futuro che si sta facendo presente.

La «guerra interna», il progressivo confondersi tra operazioni di polizia e operazioni militari, lo strumento bellico come strumento ordinario e permanente di governo delle contraddizioni sociali, ripetutamente denunciati dai movimenti degli ultimi anni, si stanno rivelando ben più concreti e immediati di una tendenza minacciosa, di una incombente catastrofe dello stato di diritto o di un orizzonte geopolitico. La «canaglia» e lo «sbirro», come si percepiscono vicendevolmente i contendenti, questa antica polarizzazione urbana sta tornando prepotentemente d’attualità nel vissuto quotidiano di vaste fette di popolazione, e ognuno fa la sua parte. Nel vuoto del riconoscimento sociale spicca il pieno della repressione di polizia. A Los Angeles nel 92 fu il pestaggio gratuito di un automobilista nero, Rodney King, e la conseguente impunità degli agenti che vi parteciparono, a scatenare la rivolta. A Clichy sous bois l’inseguimento poliziesco di due ragazzi e il suo tragico esito. L’odio per la polizia è quasi una condizione di vita e uno dei pochi, ma potenti, fattori di identità negativa. La polizia incarna costrizione e disprezzo, l’obbligo di rimanere «al proprio posto», un posto appunto detestabile. Non deve dunque sorprendere che questi giovani casseurs, tra le poche parole che pronunciano, rivendichino «rispetto», ossia il diritto, per nulla scontato, di essere trattati «come gli altri», non la richiesta di qualcosa, ma il riconoscimento di ciò che è.

Questa forza d’occupazione è vissuta, infatti, anche come una forza di occupazione coloniale, il rapporto tra centro e periferia, tra il mondo di chi ha e quello di chi non ha, riproduce il rapporto tra metropoli e colonia, divise non più dal mare ma da qualche fermata di metro e da una legge sostanzialmente duplice, seppur formalmente unica. Tuttavia, tra gli abitanti di questa «colonia» latente, implicita, non sembra esservi unità possibile, men che meno progetto: il tumulto travolge il simile come il dissimile, oppressi e oppressori, diseredati e vittime. La frattura generazionale è profonda, radicale, decisiva, raramente superano i vent’anni la punta di lancia della rivolta. Accade che questi ragazzi di colore, di diversi colori, della «terza generazione», siano considerati africani dai francesi e francesi dagli africani, una moltitudine meticcia in forte attrito con le tradizioni dei genitori non meno che con l’ordine della Repubblica, in rotta di collisione con tutti i principi d’integrazione fin qui sperimentati. Può anche darsi che qualcuno ricerchi nell’integralismo islamico una identità forte. Ma in generale sembra che la fatwa contro i rivoltosi o il richiamo della moschea, sia pure quella del radicalismo islamista, non siano più efficaci del crocifisso agitato contro un vampiro ateo. Siamo ben oltre lo scontro di civiltà e la sua insidiosa retorica. Se non altro, di questo, ai «barbari» adolescenti delle periferie dovremmo essere profondamente grati.

Questa gioventù meticcia, violenta e ribelle, rimane in buona sostanza un soggetto misterioso e inafferrabile nella sua indiscutibile autenticità, spinoso, ruvido, difficile da accettare. Del suo modo di essere si può tutt’al più registrare ciò che appare in superficie, azzardare qualche timida ipotesi senza rete teorica né esperienza pratica. La violenza distruttiva più che uno strumento sembra indicare una specie di autocertificazione di esistenza in vita, da non confondersi con l’assai più banale visibilità mediatica. O, anche, il bisogno di rompere la regola in un qualsiasi modo possibile, spezzare la continuità, la normalità, il tempo scandito da una condizione che «non può continuare così».

La violenza delle cose

Lo squallore e l’invivibilità del mondo immediatamente circostante, ne suggeriscono, restando inafferrabili i rapporti sociali e i poteri politici che lo determinano, la distruzione fisica, la devastazione di quanto è più contiguo e vicino alla propria esperienza quotidiana: cancellare materialmente il teatro della propria sofferenza, distruggere la casa che alloggia le proprie frustrazioni. La distruzione delle cose, financo delle «proprie cose», prende così il sopravvento sull’appropriazione delle merci in una sorta di luddismo metropolitano. Questa reattività istintuale, così immediata e tanto più potente quanto più irriflessa e vissuta nei corpi, così avviluppata nel suo ambiente «naturale» incute timore perché, in realtà, potrebbe non finire mai. O, meglio non si vede quale azione politica (iscritta, è ovvio, nello stato di cose esistente) potrebbe arrestarla, visto che la «guerra permanente» non sarebbe che il modo di conviverci e perpetuarla, sia pure sotto controllo militare. Come un fenomeno naturale, un uragano, un’inondazione, uno maremoto, non si arresterà se non per esaurimento della sua forza interna, quando i corpi fisici che la veicolano e la incarnano saranno vinti dalla stanchezza e dal tedio della ripetizione. Fino alla prossima insorgenza. Le truppe della Repubblica non potranno che cercare di accelerare il prodursi di questa stanchezza, ma il problema resterà insoluto, rinviato nel tempo. La politica è impotente e non lo ignora. Tutto questo sembra infatti sollevare il sipario su una sorta di sostrato naturale della politica (intesa come rappresentanza e sovranità, ma anche come governance o tecnologia sociale), di limite materiale, contro cui si infrangono linguaggi e concetti, regole e convenzioni.

Nulla di ineffabile, beninteso, tutto spiegabile, se vogliamo, con la storia e con i rapporti sociali, ma che, ora e qui, si manifesta come una catastrofe naturale, come un accadimento ineluttabile, come la reazione di rigetto di un corpo offeso. E, proprio per questo carico di verità. Alla fine politiche e tecnologie sociali, modelli, proposte, demagogie, repressive o assistenziali, di destra o di sinistra, dovranno fare i conti con il sentire dei singoli, col dolore o col piacere che accompagna il loro vissuto. «Non si può andare avanti così!» è in fondo una grande parola d’ordine, potente come una rivelazione.

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