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La politica comune delle porte chiuse

Publie le venerdì 20 giugno 2008 par Open-Publishing

La politica comune delle porte chiuse

di Anna Maria Merlo

Il compromesso che la Commissione ha presentato all’esame dell’europarlamento e che porta il nome di «direttive ritorno» - ribattezzata «direttiva della vergogna» dalle associazioni di difesa degli immigrati - fa rimanere l’Europa in alto mare sulla questione centrale dell’immigrazione.

Da un lato, c’è la ricerca di alcune regole comuni, soprattutto repressive (ma non solo), che si è tradotta in una serie di norme minime ma non in una politica comune dell’immigrazione, impossibile viste le grandi diversità nelle leggi in vigore nei 27 paesi membri. Dall’altro, c’è l’imbarazzo di una non scelta di fronte all’evidenza della necessità di forza lavoro. Nel 2000, un rapporto dell’Onu stabiliva che l’Europa avrebbe avuto bisogno di 159 milioni di immigrati entro il 2025, per far fronte al calo di natalità e garantire l’attività economica.

Ma la presidenza francese, che inizia a luglio, ha già previsto un altro passo verso l’Europa fortezza: vuole far approvare un «patto europeo sull’immigrazione e l’asilo» mettendo una volta di più l’accento solo sull’aspetto repressivo. Sarkozy vuole che siano bandite le sanatorie (come è successo in Spagna e nell’Italia di Prodi) e rafforzare ancora i controlli alle frontiere esterne. Al tempo stesso, Sarkozy vuole far adottare a livello eurpeo quello che è già stato fatto in Francia, cioè porte chiuse all’immigrazione «subìta», ma porta socchiusa per l’immigrazione «scelta», cioè per attirare le competenze.

Nell’Unione europea, secondo alcuni studi, vivono tra i 3 e i 6 milioni di immigrati irregolari, che rapresentano più o meno l’1% della popolazione complessiva. Il lavoro nero contribuisce tra il 7 e il 16% del pil della Ue, forte soprattutto in alcuni settori (edilizia, agricoltura, ristorazione, lavori domestici e di pulizia). Negli ultimi anni i paesi europei hanno intrapreso una corsa a chi faceva le leggi più repressive. Le prime leggi tedesche sono del 2005, in Gran Bretagna c’è un giro di vite lo stesso anno, dopo gli attentati di Londra. L’Italia aveva anticipato, con la Bossi-Fini del 2002. La Francia ha moltiplicato le leggi (5 in 6 anni), in una tendenza sempre più represiva, soprattutto da quando Sarkozy ha istituito il ministero dell’immigrazione e dell’identità nazionale.

L’ultima di queste leggi, detta Ceseda, stabilisce che l’ingresso illegale è un reato, punibile fino a un anno di carcere e 3700 euro di multa. La legge punisce anche chi aiuta i migranti a entrare (fino a 5 anni di prigione e 30mila euro di ammenda). Nei fatti però, nel novembre scorso, attraverso un emendamento, è stata aperta la strada per regolarizzare chi ha un lavoro stabile (un terzo dei mille lavoratori che hanno fatto uno sciopero della fame appoggiati dalla Cgt hanno così ottenuto in questo periodo il permesso di soggiorno). A gennaio sono state pubblicate delle liste di mestieri «aperti» all’immigrazione, quelli dove c’è difficoltà a trovare manodopera e il 29 maggio Sarkozy ha deciso di anticipare di un anno la libera circolazione per i lavoratori dei nuovi paesi membri. Con 5 stati africani sono stati firmati accordi sui flussi.

La «direttiva ritorno» approvata ieri, che per molti paesi è più repressiva delle leggi nazionali, per altri rappresenta paradossalmente un passo avanti, con l’istituzione della protezione giuridica e persino con i 18 mesi di permanenza massima nei cpt. In otto stati, difatti, il fermo nei centri temporanei è illimitato (Danimarca, Estonia, Finlandia, Lituania, Olanda, Gran Bretagna, Svezia e Cipro). In Germania è già di 18 mesi, in Polonia di 12. In Francia, invece, è di 32 giorni, in Spagna di 40 e in Portogallo e Irlanda di 60.

su Il Manifesto del 19/06/2008