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La ragazza da un milione di dollari e il (suo) sogno americano

Publie le lunedì 14 marzo 2005 par Open-Publishing

Dazibao Cinema-video - foto

Divenire boxeur

di Katia Rossi e Fabrizio Violante

C’è un’America che non è quella di Bush, e neanche piange la sconfitta elettorale di Kerry, un’America che non pensa all’Iraq, e al dramma della guerra permanente, l’America che vive nei trailer park, che nei ricordi di bambina ha solo l’immagine di un cane semiparalitico pietosamente fatto fuori e sotterrato lontano; l’America dove tutto è al contrario, come nella box dove ‘per vincere bisogna a volte perdere, per gioire bisogna a volte soffrire, per continuare a vivere bisogna a volte morire’.

Quell’America senza eroi si ritrova nella squallida palestra di boxe Hit Pit, ai margini di una Los Angeles irriconoscibile, in una periferia anonima ai limiti del deserto... una specie di ‘baselunarealfa’ dove atterrano gli alieni, un ragazzino esile e un po’ tonto arrivato dal Texas (che per tutto il film vedremo imperterrito tirare pugni nell’aria, in un improbabile allenamento per sfidare un campione in realtà ritiratosi da anni), e soprattutto la protagonista del film, la white trash Maggie Fitzgerald (Hilary Swank, Boys Don’t Cry, 1999).

La Hit Pit (ricostruita in un vecchio magazzino dall’ottantanovenne scenografo Henry Bumstead), palcoscenico esatto per questa storia triste, il luogo giusto dove vincere o morire non fa differenza, è tenuta dal vecchio allenatore Frankie (Clint Eastwood) e dallo ‘sgualcito’ custode Eddie ‘ferrovecchio’ (Morgan Freeman), un ex pugile con 109 incontri sulla pelle e un occhio perso in combattimento, voce narrante del film, che snocciola perle come: «a volte per tirare un colpo vincente bisogna arretrare, ma se arretri troppo non combatti più». Maggie fa la cameriera nei drugstore da quando aveva 13 anni, ha una mamma di 140 chili, un fratello in galera, e un sogno che non la fa affondare, che la fa galleggiare nella sua vita di bistecche mangiate a metà da clienti frettolosi, di monete in un barattolo di vetro, di sveglie all’alba, la sua vita senza televisione né videoregistratore, senza amore... il sogno: diventare una campionessa di boxe, e per questo vuole Frankie come allenatore. Lei, con la sua incredibile forza nonostante tutto, diventerà a poco a poco la sua figlia persa (a cui da anni scrive lettere puntualmente respinte al mittente); lui, suo malgrado, ne farà una irresistibile professionista del ring fino alla fatale sfida per il titolo.

Tratto dalla raccolta di racconti Lo sfidante di F. X. Toole, magnificamente scritto dallo sceneggiatore Paul Haggis, il film si muove all’interno del mondo della boxe, ma non è un film sulla boxe; piuttosto è un film che parla di dolori e di perdite, della vita insomma, e di quell’unica occasione che questa ti concede e che Maggie, Frankie e ‘Scrap’ cercano, o hanno cercato, nella boxe: «la boxe è la magia di uomini nell’atto di combattere, la magia della volontà, della capacità, e del dolore, e di rischiare il tutto per tutto, così che uno possa rispettare sé stesso per il resto della sua esistenza» (F. X. Toole).

E nel combattimento è concentrato il senso del film, un combattimento che Maggie intraprende come una sorta di corsa al disastro, in un movimento di fuga in avanti che non è da intendersi soltanto come un sistema di difesa rispetto al suo iniquo destino, ma come il tentativo di vivere fino in fondo il combattimento tra le forze che dentro di lei si agitano. Maggie è infatti costretta a lottare anche contro se stessa, con quell’ingenuo bisogno di riconoscimento che si ostina a cercare nella sua famiglia. Il combattimento è allora anche quello fra le parti che la costituiscono, tra le forze che la soggiogano - la necessità piagnucolosa di essere amati - e quelle che sono soggiogate - la sua capacità di amare e di desiderare.

Di qui la bellezza delle sequenze che descrivono il ring: le difese e gli attacchi, le schivate, le parate, gli anticipi di un colpo che non sempre si vede arrivare e di un nemico che non sempre si riesce a inquadrare. Di qui l’importanza delle posizioni assunte da un corpo glorioso che non è tanto l’emblema di un ‘combattimento-contro’ quanto quello del ‘combattimento-fra’, un combattimento che determina la composizione delle forze del combattente, nel disperato tentativo di impadronirsi di una forza per farla propria, in un ‘divenire-boxeur’ che si può ottenere soltanto sul ring.

L’atmosfera, e i dialoghi, potrebbero essere quelli di un western, ambientato in una Los Angeles città di frontiera, città effimera rubata al deserto, dove tutto è sul punto di morire inghiottito dal ‘big-one’: l’America di Eastwood è ancora quella dei suoi vecchi film dove la vita si decide a colpi di colt, dove non si deve mai abbassare la guardia, voltare le spalle all’avversario; e non è diversa dall’America armata raccontata da Moore, dove ancora se un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto...

Frankie non fa che ripetere ai suoi pugili che bisogna proteggersi, evitare i colpi dell’avversario; e per questo, come nella vita, il titolo si gioca una sola volta, ma non si è mai davvero pronti. Lui vorrebbe difenderli i suoi ragazzi, ma non può evitare che tutti, anche Maggie, si giochino fino in fondo la propria occasione. Il sogno americano, la grande occasione (anche solo il warholiano quarto d’ora di celebrità televisiva), tiene tutti al mondo, anche i tre milioni di nuclei familiari che vivono nei trailers (cassoni in alluminio e polistirolo montati su ruote gommate e parcheggiati per sempre in campi di periferia), come Maggie e la sua orribile famiglia.

Non è un caso forse che la nostra eroina tragica, talmente votata al suo destino da ricordare un personaggio dei film di Lars von Trier, coltivi il suo sogno nella boxe, sport da poveri e da neri. Alla fine anche lei, novella Rocky, si troverà di fronte un cattivo imbattibile da «spiezzare-in-due», anche se qui, passata ormai la paura comunista (il nostro presidente del consiglio però ancora non ci crede), non si tratta di una bolscevica war-machine, ma di una scorrettissima ex prostituta di Berlino Est (!), in cerca di riscatto a suon di pugni a tradimento.

Clint Eastwood è un vero moralista, ci racconta tutto con una regia asciutta e rigorosa (mai la macchina da presa indugia in virtuosismi, mai nelle scene dei combattimenti si muove nervosa in cerca del sangue come farebbe uno Scorsese), denuncia (forse) senza mai prendere posizione: si finisce col pensare che non accusi e non perdoni mai davvero nessuno dei suoi personaggi e il mondo in cui si muovono (o sono costretti a muoversi). Il suo film, comunque, è una lezione di cinema, da parte di un vecchio leone che oggi è uno dei pochi (almeno tra quelli che parlano al grande pubblico) a scavare a fondo nella società americana e le sue ipocrisie, parlando di temi come la famiglia, la religione («Cos’è la Trinità? Pane, burro e marmellata buttati insieme in un sacchetto?»), l’eutanasia. Sì, perché alla fine Maggie vince: dopo aver assaporato quella potente vitalità che ha attraversato il suo corpo, vissuto fino in fondo il rapporto tra il corpo e le potenze impercettibili che se ne impadroniscono o di cui esso invece si impadronisce, non può tollerare di gettare la spugna. Dopo la resa dei conti con la famiglia brutta sporca e cattiva, resa finalmente possibile grazie al suo ‘divenire-boxeur’ che l’ha trasformata per sempre, Maggie è in grado di chiedere a Frankie di andare contro le leggi di quel Dio che lui non è ancora riuscito ad afferrare, ora meno che mai...

Gli attori sono straordinari, e soprattutto Hilary Swank, che si è allenata per mesi, seguendo una dieta rigorosissima e ingurgitando frullati di proteine anche di notte, tanto da girare tutti i combattimenti senza controfigura; perfetta nella parte della protagonista, il cui sorriso disarmante rimane dentro anche dopo il film. Perché se è vero che il suo personaggio non vuol essere ‘rappresentativo’ - il suo problema è sopravvivere, non cambiare il mondo - la via di fuga che si è a fatica (e quanta!) costruita ci riempie di potenza come l’eroina di Kill Bill, regalandoci la sensazione che si può non aver paura di niente, nemmeno della morte.

Insomma un film bello, d’altri tempi si direbbe, lontano dai ritmi esagitati di tanti film di Hollywood, che racconta una storia amara con un montaggio che chiude ogni scena appena in tempo, senza mai scadere nel pietismo. La fotografia ’non lavata’ e vecchio stampo, le note di steel guitar, la vecchia palestra, tutto è fuori moda, come una vecchia ballata folk: «anche se il film è ambientato nel presente, io ho cercato di dare la sensazione che la vicenda potesse svolgersi in un altro periodo storico - magari negli anni ’40, o ’50, o ’70. Volevo che avesse una dimensione senza tempo»... degna di John Ford.

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