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di GABRIELE POLO
C’è uno strano paradosso a sinistra: al massimo di unità politica per battere Berlusconi corrisponde il massimo di divisione su cosa debba essere la sinistra. Il paradosso prosegue nella vaghezza dei contenuti programmatici di una eterogenea coalizione che si ripromette di liberare l’Italia dal mostro di Arcore (con il rischio di non liberarcene affatto) e nell’eludere il nodo dell’identità (sociale in primis) da cui dovrebbe nascere quella «nuova sinistra» che tutti, per altro, auspicano. Certo i vincoli del sistema maggioritario e le sue semplificazioni non aiutano ad affrontare il merito dei problemi, ma questo non basta a spiegare il confrontarsi di opzioni che si dibattono soprattutto sulle formule.
Che si sprecano (federazione, contenitore, area, ecc), mentre è più difficile affrontare il nodo da sciogliere, cioè la crisi della democrazia rappresentativa smantellata dai colpi della globalizzazione capitalistica. Sorge il sospetto che ognuno - a sinistra - sia preoccupato soprattutto della propria sorte e abbia ancora in mente antiche forme di egemonia politica. E poiché l’obiettivo - l’egemonia dentro la sinistra - è impossibile (non fosse altro perché non sapremmo dire cosa sia oggi la sinistra), ci si accontenta del minimo comun denominatore: uniti nell’Ulivo per battere la destra e poi si vedrà; nel frattempo ognuno continuerà a curare il proprio orto. Eppure - i paradossi non finiscono mai - tutti a sinistra dicono che nessuna delle attuali forme di rappresentanza politica è adeguata, ma, poi, su tutto prevale la contingenza, i congressi da fare, le primarie, i fragili equilibri interni a ciascun partito.
Se ci si affida ai rapporti tra gruppi dirigenti non se ne esce, se non c’è uno scatto che affermi che di una nuova sinistra c’è bisogno perché la sinistra è ormai una formula di vaga sostanza, non si va da nessuna parte. Perché non si tratta di unificare, federare, coagulare ciò che esiste in parlamento o nelle sedi di partito, ma di rimettere tutto in discussione - fatta salva la necessità di battere Berlusconi e di por rimedio a ciò che ha fatto - di rimettere in moto le intelligenze e le energie che in questi anni sono riapparse nei movimenti, nelle lotte sociali, nelle resistenze alla crudeltà liberista. Ma per far questo bisogna alzare lo sguardo, ripensarsi come identità autonoma dalla globalizzazione capitalistica e a essa contrapposta, rifiutare di ridursi a infermieri politici delle fratture che il liberismo provoca nel corpo sociale (e questo sarebbe già un elemento di distinzione dall’area moderata del centro-sinistra).
In fondo questo obiettivo è già nella testa di molti - vi allude Bertinotti con l’ipotesi di «nuovo contenitore» - e questo è il problema di fondo che ha posto Asor Rosa ieri sulle colonne di questo giornale: non accontentarsi di ciò che vediamo come già definito davanti a noi, ma imboccare il sentiero di una rivoluzione culturale (se il termine non suona eccessivo). Lasciando libere le rappresentanze politiche di interrogarsi sul proprio destino, senza interferenze organizzative, ma liberi noi di incalzarle sul merito di una democrazia cancellata, di una politica internazionale trasformata in guerra, di lavoratori ridotti a merce, di risorse e persone privatizzate. Per far sì che l’anno e mezzo che ci separa dalla scadenza elettorale non sia solo fatto di primare, un (necessario) programma, credibili liste elettorali; ma prepari davvero le basi di una cultura comune della «nuova sinistra».
Anche perché - solo per restare alle «piccole» cose di casa nostra - per battere Berlusconi può bastare una coalizione unita e un programma minimo plausibile, ma per farci riemergere dal berlusconismo (o dal bushimo, o dal blairismo) serve molto di più: idee e pratiche alternative a un capitalismo che per sopravvivere ci distrugge. E’ su questo che varrebbe la pena aprire un confronto limpido e pubblico: non sarebbe né rituale, né accademico, ma profondamente politico.
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/24-Ottobre-2004/art5.html




