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La storia non è finita nell’89 e ci riserva ancora grandi sorprese

Publie le martedì 28 ottobre 2008 par Open-Publishing

La storia non è finita nell’89 e ci riserva ancora grandi sorprese

di Alberto Burgio

Una risposta a Marcello Cini

Una premessa: penso che questa discussione sia importante e considero il contributo di Marcello Cini assai utile, anche per la chiarezza con cui espone le proprie tesi . Queste valutazioni rimangono intatte nonostante le distanze che ci separano. Vengo al merito delle questioni.

Mi pare che Cini adduca due ordini di ragioni per non dirsi più comunista. Il primo è prevalentemente storico e politico e fa riferimento all’esperienza del «socialismo reale» e, più in generale, all’«epoca» nella quale il comunismo ha prodotto fatti politici concreti. Cini considera la vicenda dell’Urss un «fardello così pesante» da pregiudicare qualsiasi impresa politica la richiamasse a qualsiasi titolo; a sua volta, la storia del Novecento gli pare ormai lontana, tale da risultare incomprensibile alle generazioni che non l’hanno vissuta in prima persona.

Confesso di avere qualche difficoltà a replicare su questo terreno, che coinvolge giudizi di valore (per definizione legittimi) e opinabili questioni di opportunità “tattica”. Mi limito a dire che, per quanto gravata da errori e tragedie, la storia del movimento comunista non mi sembra riducibile a un fardello (condivido in proposito il giudizio più articolato di Eric Hobsbawm). Aggiungo che noi italiani – se pensiamo alla storia dell’antifascismo, alla Costituente e alle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta – abbiamo qualche motivo in più per non identificare il comunismo con la vicenda del «socialismo reale». E per non ripetere, diciott’anni dopo e proprio mentre il capitalismo conosce una crisi strutturale di inedite proporzioni, l’errore commesso da chi, nel rottamare il Pci, perse completamente di vista l’eccedenza rappresentata dal marxismo teorico rispetto al piano della pratica politica concreta.

Quanto alle giovani generazioni (che peraltro mi pare mostrino di avere a questo riguardo idee positive e ricche di futuro, connesse probabilmente a riferimenti in parte diversi da quelli ai quali siamo abituati), penso che la loro lettura del passato – il suo grado di intelligibilità ai loro occhi – dipenda in qualche misura anche da noi. Forse non è una buona idea abolire una parola (dichiararla «indicibile») invece di sforzarsi di dare il proprio contributo a un confronto critico su quanto di buono o di cattivo è storicamente accaduto. Oltre a ciò, la giusta preoccupazione di «contestualizzare» comporta qualche rischio di «egocentrismo generazionale». L’ottica di chi ha oggi sessanta o settant’anni non è differente soltanto da quella di chi ne ha trenta o quaranta di meno, ma anche da quella delle generazioni precedenti. Ciò tuttavia, per fortuna, non ha mai impedito la trasmissione di esperienze, la condivisione di obiettivi, la comune partecipazione alla lotta politica.

Il secondo ordine di ragioni addotte da Cini è squisitamente teorico. Egli propone di accantonare il comunismo in considerazione dei mutamenti intervenuti nei processi di produzione e di valorizzazione del capitale per effetto dello sviluppo della produzione di «beni non materiali». A questo riguardo distingue due Marx: quello del Capitale (che studia un capitalismo ancora basato sulla produzione materiale) e quello dei Grundrisse (che, benché precedente, immagina anche fasi ulteriori dello sviluppo). Secondo Cini, quest’«altro Marx» riflette su un capitalismo incentrato sulla produzione di beni immateriali; dunque «parla di noi», consapevole dell’inadeguatezza della propria teoria del valore, riferita a una fase precedente dello sviluppo delle forze produttive.

Premesso che nessuno è obbligato a ritenere Marx ancora attuale (tornerò su questo punto), non mi pare che tali affermazioni trovino conforto nei testi. È vero, quello del Capitale è il capitalismo industriale. Ma questo vale anche per i Grundrisse e certamente per il brano (tratto dal celebre e controverso «frammento sulle macchine») citato da Cini. Qui Marx non fuoriesce dal contesto della produzione materiale. Parla esplicitamente di «grande industria» e cerca di immaginare le conseguenze dello sviluppo scientifico e tecnologico applicato alle macchine. Sono precisamente queste conseguenze (lo straordinario incremento della produttività del lavoro oggettivato) a indurlo a prevedere la crisi potenziale dei criteri quantitativi di misura (quantità di lavoro e tempo di lavoro immediato) della produzione della ricchezza.

Ciò comporta un corollario di grande rilievo. Cini considera un grosso guaio che non venga adeguatamente colta la «differenza tra oggetti materiali da un lato e beni immateriali dall’altro». E ritiene che la battaglia contro il «dogma» dell’equivalenza di tutte le merci dovrebbe essere un «compito primario della sinistra». La prospettiva di Marx è tuttavia antitetica a questa. È interessato al funzionamento complessivo della formazione sociale, alla logica unitaria della riproduzione del capitale (il che – a scanso di ricorrenti equivoci – non implica affatto ignorare o sottostimare altre contraddizioni, ambientali, culturali o di genere: nulla impone che il «genoma» di una società, il motore dinamico del suo sviluppo, sia l’unico o il più importante fattore di conflitto). Per questo si sforza di porre in evidenza ciò che rende il lavoro produttivo dal punto di vista del capitale, e sottolinea che è produttivo il lavoro (tutto il lavoro) che «produce plusvalore per il capitalista».

In questa prospettiva, articolare l’analisi in base alle caratteristiche delle merci è precisamente il contrario di quel che si deve fare. Non è certo casuale che, nel fare esplicito riferimento a forme della valorizzazione poste «fuori della sfera della produzione materiale», Marx puntualizzi come nella relazione tra capitale e lavoro «non cambi nulla» se il capitalista ha «investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione» (in una scuola, dove gli «operai» sono gli insegnanti) «invece che in una fabbrica di salsicce». Ciò che conta (e che unifica il campo del salariato, ponendo le premesse materiali della possibile soggettivazione di una «classe operaia» inclusiva di tutta l’area del lavoro subordinato) è soltanto che il processo produttivo consenta al capitale di «autovalorizzarsi».
Detto questo, Cini ha naturalmente tutto il diritto di pensare in prima persona e anche di usare Marx come un semplice pre-testo (benché talvolta assonanze e contiguità ostacolino la chiara definizione dei diversi schemi teorici). Nella fattispecie, se ho ben capito, egli mostra di condividere l’ipotesi negriana secondo la quale l’incremento della produzione di beni immateriali e il «crescente contributo della scienza e della tecnologia» che lo sottende permetterebbero al capitale di valorizzarsi parassitando la cooperazione sociale «spontanea e gratuita», la produzione del general intellect.

Se le cose stanno così, vorrei rassicurare Cini. Per quel pochissimo che possa interessargli, non ho alcuna riserva di principio nei confronti di questa ipotesi, per quanto distante possa essere dal Marx «tradizionale» che, secondo lui, è il mio irrinunciabile riferimento. Al contrario, considero importante questa come altre linee di ricerca e meritorio lo sforzo teorico di approfondirla (magari chiarendo che ne è oggi della tesi – sostenuta qualche tempo fa da qualche economista legato a questa linea – secondo cui oggi l’autovalorizzazione del capitale si esplicherebbe attraverso la finanziarizzazione e i nuovi prodotti derivati sarebbero la prova provata della creatività del capitalismo). Ho solo due obiezioni, che non mi sembrano neutralizzate dall’appello a rinnovare i quadri teorici.
La prima. Si dà il caso che in tutti questi anni non si sia riusciti (e non credo che la responsabilità pesi sui marxisti ortodossi) a chiarire come concretamente avverrebbe la valorizzazione del capitale in assenza di rapporto salariale. Siamo tutti d’accordo sulla pratica parassitaria del capitale, che da sempre si appropria dei risultati del lavoro sociale, «capitalizzandoli». Ma immaginare un processo di produzione che genera plusvalore senza erogazione di lavoro subordinato è altra cosa, ed è rilevante che non si sia mai riusciti a descriverlo analiticamente. Vi è piuttosto una circostanza che sembra sfidare questa teoria. Come spiegarsi che – benché riesca ormai ad autovalorizzarsi prescindendo dalla relazione con il lavoro vivo – il capitale continua a investire su tale relazione (ben più onerosa economicamente e socialmente) e sulla produzione materiale, invece di scaricarla sulla collettività?

La seconda obiezione. Coerentemente con le sue ipotesi, Cini ritiene plausibile che il lavoro subordinato pesi meno che in passato nel conflitto con il capitale. Tende a spiegarsi così l’eclisse della classe operaia. E suggerisce di rivalutare le teorie mutualistiche (invero non nuove di zecca) del socialismo utopistico, che si potrebbero maliziosamente rappresentare come teorie del «socialismo in un solo quartiere». Qui in effetti Cini ed io viaggiamo lungo percorsi molto distanti tra loro. Come ho detto, la ricerca di altre chiavi di lettura è sempre benemerita. Ma davvero non mi sembra molto saggio gettare alle ortiche le teorie precedenti solo perché «tradizionali» e ancora prima che quelle «nuove» siano state compiutamente elaborate e adeguatamente verificate.
L’eclisse politica della classe è indubbiamente un problema gigantesco. Per i comunisti è il problema fondamentale. Ma piuttosto che addebitarla a una (presunta) mutata natura della riproduzione, credo sia più corretto ricondurla a fattori di ordine politico, culturale e sociale, a cominciare dal nesso che in quest’ultimo trentennio ha saldato, in tutto l’Occidente capitalistico, la sconfitta del movimento operaio (o, se si preferisce, lo sfondamento operato dalla «rivoluzione» neoliberista) alla mutazione genetica (ideologica e politica) delle organizzazioni della sinistra (partiti e sindacati) e alla loro sostanziale subordinazione al punto di vista dell’avversario. Questa diagnosi raccomanda, a mio giudizio, di evitare con cura il passo che Cini e altri in questo momento suggeriscono.

Non si tratta affatto di chiudere definitivamente con il comunismo. Occorre, al contrario, por fine a decenni di sradicamento e di subalternità facendo sì che la cultura operaia (la coscienza anticapitalistica di classe) ridivenga senso comune. È facile? No, è difficilissimo, come è sempre difficile rimontare sconfitte rovinose. Ma la difficoltà non è mai un buon metro dei torti e delle ragioni. E d’altra parte ci conforta sapere che in questo cimento non siamo soli. La crisi sistemica del capitalismo apre scenari imprevedibili ed evoca duri conflitti. Ma se gettiamo lo sguardo al di là di quest’angolo di mondo, scorgiamo importanti movimenti e possenti forze politiche che ancora si richiamano al comunismo. La storia non è finita nell’89 e ci riserva ancora, con ogni probabilità, grandi sorprese.