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La strategia della vendetta

Publie le sabato 30 dicembre 2006 par Open-Publishing
3 commenti

La strategia della vendetta

di VITTORIO ZUCCONI

CI SAREBBE voluto più coraggio a risparmiargli la vita che a spegnerla, ma la banalità della vendetta è stata ancora una volta più forte dell’intelligenza della politica. La scontata sentenza di morte contro Saddam Hussein al-Majid al-Takriti, prodotta apparentemente da quella parodia di Norimberga che è stato il suo processo e forse già eseguita, è stata scritta tre anni or sono, al momento della sua estrazione dalla tana di topo dove si era nascosto e niente avrebbe potuto più cambiarla.

L’aveva firmata, in quel dicembre del 2003, George Bush, il Presidente della nazione occupante, quando aveva dichiarato alla BBC subito dopo la cattura che soltanto "la pena ultima (la morte)" sarebbe stato il giusto castigo per questo "disgustoso tiranno".

Caso chiuso e Capodanno con il patibolo. Non sono serviti tribunali internazionali, giuristi e giudici di peso e di altre nazioni, come fu appunto a Norimberga. La sentenza era già stata depositata a priori. Tutto il resto, il processo con giudici destituiti e cambiati a piacere dall’immaginario governo di Bagdad, le procedure seguite un tanto a spanna verso il finale già scritto secondo le leggi scritte ancora dal Rais, la sentenza, l’appello farsa che ha richiesto ben 15 minuti di delibere, l’esecuzione, sono pantomime organizzate per dare una parvenza di legittimità giudiziaria alla vendetta finale del vincitore contro il vinto, soprattutto contro l’uomo che aveva "tentato di uccidere il mio papà".

Nella guerra insieme globale e privata che da quasi sedici anni, dalla Tempesta nel Deserto, vede in campo Stati Uniti e Iraq ma senza che mai l’Iraq abbia aggredito gli Stati Uniti, alla fine il clan texano dei Bush ha saldato il conto con il clan sunnita dei Takriti. E il figlio potrà finalmente esibire la testa del nemico al padre.

Nell’entusiasmo voglioso con il quale Bush ha seguito il processo e ha accolto la sentenza, "una pietra miliare" l’ha chiamata, e "una svolta", l’ennesima, nel sentiero di sangue verso la stabilizzazione dell’Iraq (sulla "democrazia" esportata in Mesopotamia oggi si preferisce sorvolare) c’è molto più della oggettiva, dura risolutezza giustizialista con la quale Winston Churchill, nel vertice di Teheran con Stalin e Roosevelt, invocò l’esecuzione sommaria di Hitler, nel caso fosse stato catturato vivo come sarebbe accaduto con Mussolini, contro il parere degli Alleati.

La personalizzazione dei conflitti, che è sempre la forma preferita negli Stati Uniti per definire le guerre e per "venderle" meglio a un’opinione pubblica refrattaria alle astrazioni, aveva chiaramente assunto, in questo duello a distanza fra i Bush e Saddam, un carattere predominante, se non ossessivo. Anche per questo, di fronte alle ultime ore dell’agonia di un tiranno oggettivamente disgustoso, anche se non più ripugnante di altri che sono morti o moriranno nel loro letto riveriti e finanziati, l’America di "main street", delle vie di tutti i giorni, sembra assai meno agitata dell’America della politica e delle elite intellettuali.

In una nazione che sta riesaminando le procedure, ma non la sostanza morale, della forca, non può essere l’impiccagione di un personaggio descritto da un decennio come la incarnazione dell’anti Cristo, come colui che possedeva sterminati arsenali da scatenare contro le città americane ed era stato complice dei massacratori delle Torri, a muovere e commuovere la gente in questa fine anno segnata ancora da notizie di morte e di lutti.

Le contorsioni morali appartengono tutte alla intelligentsija, agli "opinionator", esclusi naturalmente i "boia chi molla" sempre e comunque favorevoli alla violenza risanatrice, dunque felicemente assolti dai dubbi che scuotono i non fanatici.

"Se esiste la pena capitale chi può essere più qualificato di Saddam a riceverla?" si chiede riflessivo il direttore di New Republic, un periodico considerato di sinistra, il professore di Harvard Marty Peretz, che critica Romano Prodi e l’Europa per la nostra opposizione al patibolo. "Non è questione di colpevolezza, che è fuori discussione - lo contraddice il New York Times - ma di una opportunità perduta per creare uno spartiacque morale tra il passato che lui rappresenta e il futuro che si vorrebbe creare".

Invece, l’uccisione per procura del grande assassino di stato decisa dal grottesco remake di Norimberga, lascerà indifferente quell’opinione pubblica americana che si prepara a digerire la "mini escalation" che Bush le proporrà al ritorno dalla fuga natalizia nel Texas e ben difficilmente quella forca potrà essere una svolta in un Iraq che da tempo si suicida in un bagno di sangue settario che con il rais deposto e ridicolizzato ha più nulla che fare.

Un Saddam umiliato dal coraggio civile e dalla lungimiranza di vincitori davvero forti e non soltanto forzuti, cioè da quei sentimenti che lui aveva ignorato nel suo regno del terrore e della, appunto, vendetta, sarebbe stato un segnale forse sconvolgente, nell’universo dei clan e delle sette arabe dominate da quella "legge del taglione" alla quale ora anche il Grande Liberatore venuto da Occidente si è golosamente adeguato.

La sua morte sarà perciò un atto banale, scontato, inutile, superato nel momento stesso in cui accade, un altro cadavere sopra quella montagna di morti che si alza ogni giorno nel caos fra il Tigri e l’Eufrate, come una nuova Torre di Babele. Il clan dei Texani avrà la vendetta che cercava dal 1991 e ora si guarda con inutile sgomento non alle possibili rappresaglie, in un luogo dove immaginare peggioramenti è arduo, ma alla ulteriore dimostrazione di miopia e di ottusità di questa presidenza americana quasi finita costituzionalmente e morta politicamente, ma ancora incapace di uscire da una ostinazione che scambia per "strategeria", come disse George Bush in uno dei suoi celebri lapsus.

"E’ affare che riguarda il popolo iracheno" ha avuto l’improntitudine di dire il portavoce di Bush a Crawford, mentre si contavano le ore dell’agonia del condannato sempre rimasto per tre anni saldamente incatenato in un campo militare americano, e mai affidato alle autorità irachene se non al momento dell’impiccagione, a riprova della fiducia che Washington nutre verso il governo e il sistema giudiziario locali.

George W. Bush ha avuto la "pietra miliare" che ha comperato con la vita di 2.992 soldati uccisi, 42 mila feriti e 600 miliardi di dollari, ma anche questa somiglia tristemente soltanto a un’altra pietra tombale.

(30 dicembre 2006)

http://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/esteri/iraq-104/comme-zucconi/comme-zucconi.html

Messaggi

  • Se quel tiranno diventa un martire

    di GILLES KEPEL

    L’annuncio dell’esecuzione di Saddam Hussein ha dato luogo a un intrigo di dichiarazioni delle diverse fazioni irachene, ma anche negli Stati Uniti e su tutti i media. Annunciato come prossimo dagli uni, inappropriato dagli altri, nel momento nel quale 2,5 milioni di pellegrini si riuniscono alla Mecca e i musulmani di tutto il mondo celebrano la festa del sacrificio sgozzando un montone, la messa in atto della condanna è criticata in quasi tutte le capitali europee che si oppongono alla pena di morte.

    Proprio quando il numero dei soldati americani morti in Iraq supera quello delle vittime dell’11 settembre, approssimandosi alle 3000 unità, e mentre gli iracheni muoiono a decine nei quotidiani attentati suicidi l’esecuzione di Saddam rischia di apparire come un atto politico uguale ad altri, e di perdere così il valore simbolico che dovrebbe invece avere, annacquandosi nella vicenda giornaliera del paese.

    La condanna del tiranno decaduto responsabile di così tante atrocità durante il suo regno sia contro la sua stessa popolazione così come quella dei vicini iraniani e kuwaitiani, è oggi diluita dalle atrocità che si sono moltiplicate dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti. Essa è anche oscurata in parte dagli annunci contraddittori della vigilia dell’impiccagione che ne sembrano fare uno scambio politico piuttosto che un atto sovrano di giustizia.

    Il personaggio Saddam Hussein aveva perso la popolarità anche tra i sunniti iracheni, i quali oggi lo considerano responsabile del loro proprio declino con l’ascesa degli sciiti al governo. Tanto che hanno l’impressione di pagare oggi, come comunità, i crimini del raìs e lo considerano primo responsabile delle loro disgrazie.

    Ma, nel mondo arabo sunnita in generale, mentre la virtù pedagogica della guerra contro il terrore ha cessato di avere peso ormai da tempo, la democratizzazione del Medio Oriente tanto celebrata dai neo-con, non è riuscita a creare un modello alternativo: giustiziato Saddam, egli può divenire una figura di martire tale da chiamare presto altre vendette.

    Per sciiti e curdi la morte di Saddam è invece il risultato atteso da molti anni dopo i crimini che ha commesso contro di loro; ma la sua messa in atto sembra una vendetta e non la giustizia, e ciò rischia di attizzare ancora una volta la fitna, la guerra dentro l’Islam tra le diverse comunità.

    Per il movimento jihadista radicale di Al Qaeda e dei suoi emuli, Saddam Hussein non rappresenta un eroe particolare poiché essi dispongono dei loro propri martiri, ma la sua morte può essere recuperata per tentare di convincere i sunniti, privi di una leadership simbolica nell’Iraq attuale, e far perciò apparire lo jihadismo globale come un’alternativa valida per continuare la guerra contro l’occupazione americana e divenire dunque una figura carismatica per i gruppi estremisti sunniti.

    Infine un ennesimo simbolo se l’esecuzione che si attende avrà luogo nella prigione di Abu Ghraib, come è stato annunciato, l’effetto politico sarà ancor più criticabile, poiché in questo carcere tanti iracheni sono stati pubblicamente umiliati dai soldati americani mostrando che in Iraq oggi la nozione di giustizia oggi è purtroppo un concetto assai relativo.

    (testo raccolto da Stefano Citati)

  • La stessa vendetta che alla fine del Fascismo è stata attuata nei confronti dei peseudoFascisti, solo che quella volta erano dei semplici cittadini che neanche sapevano cosa era un processo.... Mi aspettavo da parte vostra una critica di questa tipo. Perche non avete fatto sentire la vostra voce anche quando il libro di Panza a messo in evidenza le atrocità della giustizia sommaria dei "Compagni " del tempo? Dovete essee più coerenti con voi stessi. La pena di morte e comunque una cosa atroce e sbagliata......

    • Riposto, più che per il coglione forzaitaliota o fascistoide di turno ( che almeno imparasse l’italiano, si dice Pansa e non Panza) per il fatto che nella pulizia più generale ( in gran parte giustamente ai danni del coglione suddetto) era sparito, un mio intervento di qualche giorno fa, che entra nel merito anche della questioni del 1945.

      Keoma

      Che dire ?

      inviato da: keoma · il 30/12/2006 · alle: 16:07 · email:

      Che dire ?

      > Sul piano strettamente politico, credo basti e avanzi quanto dichiarato
      > ieri da Marco Pannella, cioè da uno che della guerra irakena è stato un
      > sostenitore tenace e convinto ....uno che non può certo essere sospettato
      > di preconcetto "antiamericanismo" .....
      >
      > 19:00 Pannella: "Un martire del terrorismo"
      >
      > "Senza l’esecuzione, magari con la sua sospensione, Saddam avrebbe dovuto
      > rispondere ad altri processi, più gravi di quello, sospetto e iniquo, che
      > gli è stato fatto". Così Marco Pannella, che prosegue lo sciopero della
      > sete e della fame contro la morte dell’ex raìs: "Senza l’esecuzione voluta
      > da Washington, da Bush, si sarebbe potuto ancora ascoltare dalla difesa di
      > Saddam storie e storia, in primo luogo quelle delle complicità
      > ’insospettabili’ delle quali il dittatore poté godere o dalle quali è
      > stato istigato e armato. In tal modo si regala un martire al terrorismo
      > internazionale. Ma si chiude la bocca al complice".
      >
      > www.repubblica.it 29.12.06
      >
      > Per il resto, appare evidente che ci troviamo di fronte ad una società
      > globale ormai in se "mortifera" ....
      >
      > Ovviamente, non sto certo piangendo lacrime amare sulla sorte di Saddam
      > Hussein, uno che - si tende a dimenticarlo - negli anni sessanta si
      > macchiò, come vice-capo del Baath, anche del genocidio degli appartenenti ( ed erano moltissimi) al
      > Partito Comunista Irakeno, genocidio che non ha avuto nulla da invidiare a
      > quelli messi in piedi da Pinochet, dai generali argentini e da altri
      > regimi fascistoidi, compreso il ventennio italiano.
      >
      > Ma se la mitragliata che sbrigativamente giustiziò Mussolini, oltre alla discutibile
      > esecuzione anche della Petacci e al discutibilissimo scempio di cadaveri
      > in Piazzale Loreto, dava almeno l’idea della fine di una guerra, di un
      > regime, di un massacro, l’esecuzione di Saddam rischia invece di essere
      > l’inizio ( e la scusa) di una nuova serie di stragi, massacri, bassa
      > macelleria di corpi umani, non solo in Irak .....
      >
      > E anche su questo, brilla l’assenza di quello che fu il più grande
      > movimento contro la guerra dell’ intero pianeta, quello appunto italiano.
      >
      > E’ vero, anche se sono rimaste in Afghanistan ed ora sono anche in Libano,
      > che le "nostre" truppe in Irak per fortuna non ci sono più - unica
      > promessa veramente mantenuta, anche se tardivamente, dal cosidddetto
      > governo "amico" - ma non è che questo abbia risolto la questione .....
      >
      > E comunque, non per fare a tutti i costi il "reduce", ma quando ci si
      > mobilitava per il Vietnam non si aveva certo bisogno, per farlo, di una
      > presenza di truppe italiane su quel territorio .....
      >
      > Ha qualche senso dire "buon anno" ?