Home > La svolta contemporanea di Paul Cézanne
“Il primitivo di un’arte nuova” alla ricerca di nuove modalità di rappresentazione della spazialità contemporanea
di Gioacchino Toni e Gianluca Ruggerini

Dopo aver fatto tappa a New York (Museum of Modern Art) ed a Los Angeles (County Museum), la mostra “Cézanne et Pissarro 1865-1885”, che propone un interessante parallelo tra la produzione dei due pittori, sarà a breve allestita a Parigi presso il Musée d’Orsay (Salles d’exposition temporaire, dal 28 febbraio al 28 maggio 2006). In occasione dell’imminente apertura dell’esposizione parigina vale la pena insistere sulla sostanziale differenza esistente tra le proposte dei due artisti: ancora interno ad una logica moderna Pissarro, indirizzato nella ricerca di nuove modalità di rappresentazione della spazialità contemporanea Cézanne.
Tale breve scritto intende tratteggiare la portata delle novità cézanniane anche alla luce delle tante mostre organizzate negli ultimi anni che tendono, in qualche modo, ad annacquare la produzione dell’artista di Aix en Provence all’interno di una sorta di indistinta nebulosa impressionista che appare più utile a richiamare il grande pubblico che non ad un vero e proprio approfondimento.
Conseguenza diretta della Rivoluzione industriale, l’età contemporanea impone da subito una radicale revisione dei precedenti, consolidati statuti culturali. Sotto il peso delle nuove scoperte ed adozioni tecnico-scientifiche, già a partire dall’ultimo trentennio dell’Ottocento l’era moderna aveva evidenziato insanabili contraddizioni tra le proprie forme ed i nuovi contenuti, tra il proprio pensiero ed il nuovo vissuto, tra i propri schemi di decodifica e la nuova rappresentazione mentale del mondo.
Nel passaggio di testimone epocale, ancora una volta è la tecnologia - con la propria urgenza pratico-operativa e la propria immediatezza di ricaduta sull’immaginario collettivo - a segnare in modo forte le tappe di una corsa condotta simultaneamente al livello delle espressioni culturali, dei linguaggi rappresentativi, dei paradigmi identificativi. Anche l’arte, da par suo, partecipa in modo significativo all’avvicendamento, descrivendo, proprio a partire dalle istanze tecnologiche, un percorso di ricerca di nuove “forme simboliche” in cui riconoscersi e consolidare l’appartenenza collettiva. Vediamo come.
Appare evidente la correlazione delle arti con il livello “alto” (potremmo dire “ideale”) della cultura di una determinata epoca: si tratta spesso di un rapporto di emanazione diretta (si legga ad esempio la pittura romantica come espressione di una precisa riflessione di tipo filosofico e letterario). Meno evidenti, ma altrettanto profondi, sono i rimandi e gli attraversamenti con il livello “basso” (“materiale”) della medesima cultura, rappresentato dalla tecnologia. Verso la metà del Quattrocento, la nascita e la diffusione in pittura della Prospettiva scientifica - che per lo studioso Erwin Panofsky rappresenta la vera “forma simbolica” dell’intera età moderna - erano state implicitamente preparate e guidate dall’invenzione della stampa a caratteri mobili. In questo caso la tecnologia, a partire da un’innovazione pratica, aveva imposto un nuovo impianto concettuale: la combinazione dei caratteri mobili dettava alla pagina scritta un preciso schema di lettura spaziale, di tipo ortogonale, ove ogni singolo punto (ogni singolo carattere) era fissato ed individuato “esattamente” da una griglia di assi cartesiani. Lo studioso canadese Marshall McLuhan parla di “galassia Gutenberg” per sottolineare il ruolo trainante di questa tecnologia agente nell’ambito delle comunicazioni, capace di influenzare profondamente, in modo inconscio, la percezione dello spazio, restituendocelo come insieme di punti ordinati ed individuabili. La prospettiva avrebbe quindi evidenziato e formalizzato (nel senso di “dato forma a”) il nuovo tipo di commisurazione spaziale suggerito in modo subliminale dalla stampa.
In questa chiave di lettura tecnomorfa, la stampa a livello “basso” (gabbia tipografica) e la prospettiva a livello “alto” (gabbia prospettica) sono le due innovazioni rinascimentali che hanno definito l’intimo statuto dell’intera arte moderna occidentale. Ciò che da allora ha determinato il diversissimo sviluppo dell’arte occidentale rispetto a quella orientale, ad esempio.
Tra gli anni ’60 e ’70 del XIX secolo, alcune fondamentali scoperte tecnico-scientifiche avviano un processo di cambiamento epocale a partire dalle fonti energetiche. Quale fulcro d’innovazione viene posto lo studio - e la conseguente corsa alle possibili applicazioni pratiche - della forza sprigionantesi nello spostamento di cariche elettriche tra un polo positivo ed uno negativo. Vediamo le tappe di questa “rivoluzione energetica”. Nel 1860, il fisico Antonio Pacinotti mette a punto il suo famoso “Anello”: un dispositivo che, sfruttando l’azione combinata dell’elettricità e del magnetismo, riesce a produrre un lavoro meccanico (a muovere un corpo inerte). Nel 1866, la posa del primo cavo telegrafico tra Europa e Nord America evidenzia le possibilità offerte anche a livello di trasmissione delle informazioni dalla impressionante velocità delle onde elettromagnetiche (ben superiore a quella ottenibile con i mezzi meccanici, anche con i più sofisticati). Nel 1867, nel corso dell’Esposizione Universale parigina, i padiglioni di Inghilterra e Francia esibiscono con orgoglio le meraviglie dell’illuminazione elettrica. Quindi, nel 1873, James Clerk Maxwell teorizza definitivamente, nel suo Treatise on Electricity and Magnetism, i fondamenti matematici e i principi generali del “campo elettromagnetico”.
Di lì a poco, l’elettromagnetismo porterà ad un’ulteriore evoluzione della “civiltà delle macchine”, sostituendo progressivamente la propria “energia bianca” all’energia termica della combustione. Questo vento d’innovazione, oltre a ripercuotersi sugli aspetti pratici della vita dell’uomo di strada, comporta lo spostamento concettuale da un universo meccanico, rigidamente vincolato dalle leggi galileiane e newtoniane, ad un universo fluttuante, legato al divenire di un continuum energetico. Da una concezione atomistica, legata alla somma di entità spazialmente distinte, relazionantisi a distanza tramite le leggi gravitazionali, si passa ad una concezione sistemica, sviluppata sulle idee di flusso e di campo come luoghi della continuità e dell’interazione simultanea.
Uno dei primi artisti ad imboccare in modo inequivocabile la strada della “traduzione simbolica” dei nuovi contenuti è proprio Paul Cézanne (1839-1906). Se con lui crolla definitivamente l’illusione di una rappresentazione obiettiva (mimetica), a maggior ragione ne va colto il ruolo di detrattore della prospettiva quale strumento ordinante i rapporti spaziali. Cézanne recupera la visione anzitutto nel suo essere approssimativa (relativa), complessa (sistemica) ed in movimento (fluttuante), in altre parole non coglibile attraverso uno strumento rigido quale la prospettiva scientifica.
E’ il primo apporto alla ricerca di nuove modalità di rappresentazione della spazialità contemporanea: se la percezione è per sua natura ingannevole, ciò che ci circonda non è esattamente come ci sembra; tantomeno è necessariamente come lo rappresentiamo. La costruzione cézanniana dello spazio, ora, contestando la piramide prospettica e l’idea che ne consegue di profondità come dislocazione tridimensionale di punti fissi ed ordinati, di particelle distinte e localizzabili si richiama ad un particolarissimo conglobamento degli elementi nel campo percettivo, ad un nuovo tipo di visione: dinamica e “sferoidale”.
Il trapasso epocale è chiaro: da una spazialità certa, stabile, esattamente conoscibile e conosciuta, tangibilmente popolata da “corpi gravi” (definiti nelle proprie relazioni dalle teorie di Galileo, Cartesio e Newton), si passa ad una spazialità incerta, instabile, in continua e rapidissima trasformazione, percorsa da invisibili flussi energetici in grado di interagire con la struttura degli elementi, modificandola. Questo spazio “fluttuante”, legato all’imponderabilità dei “campi” intesi come sistemi di influenze, è lo stesso che ai primi del Novecento evidenzierà il limite epistemologico della Meccanica classica, aprendo alla “Relatività” di Albert Einstein e al “Principio di indeterminazione” di Werner Heisenberg (teorie che mineranno definitivamente le convinzioni assolute di venticinque secoli di riflessione filosofico-scientifica occidentale).
Nell’indagine spaziale di Cézanne, trova posto un’ulteriore riflessione microstrutturale sulla materia, improntata all’espressione di un continuum ove i singoli elementi letteralmente si compenetrano, si mescolano (il cielo “entra” nella montagna, il prato nella casa, e via dicendo). Il colore-forma degli impressionisti lascia il posto ad un colore-sostanza dotato di una valenza analitica particolare. La pennellata diventa l’unità di misura di una con-fusione in cui si perdono definitivamente i confini materici delle cose. In questo agitato “mosaico”, ogni singola tessera cromatica (ogni tocco di pennello), incarnando a livello molecolare la struttura degli elementi, tende ad animarsi di vita propria, a porsi come unità minima plausibile. Anche in questa volontà, la ricerca dell’artista si configura come decisamente contemporanea, prefigurando nell’interessantissimo parallelo con l’ultimo Monet (quello delle Grandi Ninfee) i futuri esiti di molta pittura di lì a venire (dal filone “astratto” a quello “concreto”).
Nato ad Aix in Provenza nel 1839, Paul Cézanne si affianca cronologicamente alla compagine degli impressionisti, essendo praticamente coetaneo di Alfred Sisley (1839-1899) e Claude Monet (1840-1926) e di solo una decina di anni più giovane di Edouard Manet (1832-1883) e Camille Pissarro (1830-1903). La sua vicenda umana ed artistica incrocia in più occasioni le loro, ma difficilmente i rispettivi esiti avrebbero potuto risultare più distanti. Mentre infatti gli impressionisti portano a compimento il ciclo della modernità - evidenziandone in ultima analisi anche il “limite”, come abbiamo visto -, Cézanne, muovendosi in tutt’altra direzione, apre la strada all’arte contemporanea (di cui a buon diritto può essere considerato il vero padre).
Di fatto, Monet e compagni, anche se con una pittura del tutto nuova, attenta ad evitare il confronto diretto con la prospettiva scientifica e pronta a sovvertire le modalità di rappresentazione fin lì praticate, partecipano ancora alla grande stagione moderna. Ne sposano gli intenti di mimesi della realtà, portando l’ideale rinascimentale dello “sbirciare la natura dal buco della serratura” al suo estremo, con una resa pittorica che, ora, vuole farsi addirittura pura percezione. La pittura viene a coincidere con l’osservazione, praticamente annullando il proprio ruolo di mediazione tra l’osservante e l’osservato, tra l’occhio e ciò che gli sta davanti. Diventa “impressione” in presa diretta, alla stregua dell’impressione esercitata dal riflesso degli oggetti sulla retina oculare (o sulla lastra fotografica). In ciò viene sancita la convinzione di poter padroneggiare visivamente la realtà, di poterne cogliere sensorialmente l’intima essenza.
Ecco dove collocare il “non ancora” che separa gli impressionisti dall’arte contemporanea: la loro pittura si pone pur sempre in termini di rappresentazione della realtà, cerca di fissarne delle istantanee assecondando una percezione ritenuta “esatta” (senza filtri culturali, elementi letterari o di posa). Il loro non essere più moderni sta invece nell’evitare l’impianto spaziale e concettuale della prospettiva (fin lì emblema stesso della rappresentazione) e nell’introdurre, con il colore atmosferico (colore luce), un’idea di materia quale commistione e continuità (di cielo, terra, acqua...).
Cézanne parte da quel “già più” e progressivamente supera la lezione impressionista, arrivando a spostare l’attenzione da una realtà data, coglibile così com’è, ai meccanismi percettivi con cui ci si pone in relazione con essa. Non sono più in questione il grado di verosimiglianza della rappresentazione, l’essenza intima delle cose, il loro purovisibilismo. Anzitutto l’artista ricrea una plausibile distanza tra l’osservatore e l’osservato, dopodiché la analizza, la studia, la indaga, la riempie di nuovi significati ma anche di nuovi dubbi.
Nell’affrontare questa messa in scena della percezione (perché di questo si tratta, nelle sue complesse dinamiche), Cézanne utilizza il dato oggettivo quale pretesto per parlare di quanto e come, in realtà, ne siamo esclusi. Quello che ci resta è l’arbitrarietà e la coscienza di dipendere da essa. Cade definitivamente l’illusione di una rappresentazione obiettiva, e con questa viene apertamente messa in discussione la prospettiva quale strumento ordinante i rapporti spaziali. La visione viene recuperata anzitutto nella sua approssimatività, dettata sia dallo sfasamento del punto di vista a causa dello sguardo bifocale, che dalla distorsione sferica delle linee in prossimità dei limiti del campo percettivo (la “coda dell’occhio”); quindi nella sua complessità, legata alla sovrapposizione al dato retinico di saperi, geometrie, strutture che, dati a priori nella mente, vanno automaticamente a “correggere” la percezione delle forme (“l’occhio vede ciò che la mente sa”). Non ultimo, viene rapportata ad un tempo (la sensazione, per quanto istantanea, ha una durata, un’estensione da cui finisce ipso facto per essere influenzata) e ad uno spazio (il punto di vista, oltreché binoculare, è in continuo spostamento, data la mobilità dell’occhio e della testa). Sulla base di queste stesse considerazioni, la Psicologia contemporanea elaborerà l’idea che la realtà sta alla percezione che ne abbiamo, come il diametro di un proiettile sta al diametro del foro che questo lascia nel bersaglio (ove intervengono diverse variabili ad alterare la sovrapponibilità delle due misure).
La formazione di Cézanne passa inizialmente per l’adesione a tematiche di stampo letterario e mitologico. L’artista inizia a dipingere nella villa aristocratica acquistata dal padre nei pressi di Aix, dimostrando tuttavia un interesse secondario per il soggetto di natura. La sua maggior ispirazione, più che dal paesaggio, è data dagli spunti museali desunti dai ripetuti soggiorni parigini; frequentatore assiduo del Louvre, infatti, Cézanne ammira i Maestri veneziani (Tintoretto e Veronese), Rubens, gli spagnoli, Michelangelo e Delacroix.
Nel corso del suo primo breve soggiorno parigino (1861), il pittore ha modo di conoscere Émile Zola, con cui instaura un solido rapporto di amicizia. In questa fase, il Cézanne alterna significativi incontri personali (Amand Guillaumin e Camille Pissarro) a rifiuti da parte della cultura artistica ufficiale (è respinto dall’Ecole des beaux-arts perché reo di “dipingere con eccesso”, così come vengono regolarmente rifiutati i ritratti che invia ai Salon tra il ’64 e il ‘70).
La pittura di Cézanne è fin qui caratterizzata da una tavolozza a dominanti cupe, veicolata da un impasto denso, sovente steso a spatola. È soprattutto la figura umana ad interessare l’artista, mettendolo nelle condizioni di poter sviluppare una personalissima ricerca plastica: i volumi fisici, le masse corporee, si dilatano e si contraggono ben al di fuori delle leggi anatomiche e di qualunque presupposto di verosimiglianza. I corpi assumono una volumetria funzionale in tutto e per tutto alle leggi generali dello spazio che li ingloba e li ordina; sono come attratti, risucchiati e deformati dagli invisibili vortici energetici che percorrono la scena. Già da qui, la ricerca di Cézanne esprime la propria opposizione ad uno spazio convenzionale, giocato sullo sfondamento prospettico, sulla convergenza delle linee di fuga (schema visivo della piramide rovesciata). Lo spazio che ci viene restituito dai suoi dipinti è caratterizzato tanto dall’appiattimento e dal ribaltamento del secondo piano sul primo (propri della dimensione sferica, chiusa com’è su se stessa e volumetricamente legata ad un diametro limitato e limitante), quanto dalla fluidità e dall’instabilità (come se fosse attraversato da tempeste elettromagnetiche che ricombinano in continuazione gli elementi basilari, le strutture molecolari). Sono rappresentative di queste tensioni opere come Autopsia (1867-1869) e Colazione sull’erba (1869-1870).
Tra il 1872 ed il 1873, Cézanne si confronta in modo diretto con le modalità pittoriche degli impressionisti; lavora in Ile de France con Camille Pissarro, dal cui stile e dalla cui personalità si lascia profondamente influenzare (“l’umile e colossale Pissarro”, come lui stesso lo definirà). Sull’esempio del nuovo amico, il Nostro schiarisce la tavolozza, accorcia il tocco pittorico e si accosta al plein air, ricavandone una nuova attenzione ai riflessi della luce.
Tuttavia, l’ossequiosa fedeltà al dettato pissarriano si esaurisce con il dipinto La casa dell’impiccato (1873). Nelle opere successive, pur rimanendo ancora legato alla sensibilità per il dato di realtà, Cézanne recupera la propria originalità nella ricerca spaziale, non tanto evitando l’imbarazzo di un confronto troppo diretto con la prospettiva, come già diversi impressionisti prima di lui, quanto contravvenendo in modo palese alle sue regole. Si osservi, ad esempio La casa del dottor Gachet ad Auvers (1873). Nel dipinto, la rappresentazione della strada diventa pretesto per un insistito ribaltamento bidimensionale, decisamente contrario alla convergenza delle linee verso un punto di fuga.
Con le opere successive, la pennellata impressionista diventa sempre più marcata, acquisisce autonomia rispetto al soggetto con cui si rapporta, si traduce in vero e proprio “tassello” cromatico, portatore di un riconoscibile valore materico. Ne consegue una rappresentazione “sfaccettata”, come filtrata da un ipotetico “occhio di mosca”.
Tra il 1874 e il 1877, l’artista alterna i propri soggiorni tra Aix e Parigi, partecipando alla prima ed alla terza esposizione degli impressionisti. Rifiuterà di prendere parte alle successive edizioni, preferendo tentare maggior fortuna presso il Salon. È del ’78 l’opera Vasca al Jas de Buffon, che segna il passaggio dell’artista alla fase “costruttivista”. Ormai l’uso del colore, generando spigoli, piani spaziali, angoli di rifrazione della luce, definisce plasticamente la volumetria delle figure, a loro volta “costruite” secondo una semplificazione per forme geometriche basilari (e per ciò stesso caratterizzate da una certa monumentalità).
Cézanne elabora una propria realtà attraverso il filtro geometrico, tanto a livello microstrutturale (visione sfaccettata, dettata dalla combinazione di tessere cromatiche coincidenti con le unità minime della materia) quanto a livello macrostrutturale (spazialità sferica, popolata da figure solide). Egli stesso arriverà a sottolineare la necessità di «trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono».
Dello stesso periodo sono opere come La signora Cézanne in una poltrona rossa (1877) e Il buffet (1873-1877). In quest’ultima in particolare, si può osservare come le “forme a priori” cézanniane (il cilindro, la sfera, il cono, appunto) arrivino ad ordinare il gioco delle percezioni, influenzandone gli esiti. L’artista parte da una precisa consapevolezza: «nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello, ed entrambe devono aiutarsi tra loro». Su questa base, la sembianza finale dell’oggetto è data dalla sintesi tra l’impressione che ne hanno i nostri sensi e ciò che inconsciamente “sappiamo” dell’oggetto stesso (ad esempio, che il bordo di una tazza è perfettamente circolare). Ecco dunque che Cézanne esagera volutamente la “correzione” degli ipotetici contorni; gli elementi della natura morta presenti sulla credenza accentuano oltre il lecito la regolarità della loro forma. Essi si propongono allo spettatore quasi in sezione ortogonale, ribaltati su di un piano sempre più bidimensionale, atto a restituirne un prospetto in pianta e non più in scorcio. Le tazzine da caffè, il bicchiere, le mele, il piatto ed i biscotti - questi ultimi, in particolare, completamente slegati da qualunque gerarchia spaziale - diventano depositari di valori formali “assoluti”, che trascendono la contingenza del momento, della scena, del punto di vista.
In questa come in altre opere di Cézanne, la compresenza di diverse angolature all’interno del dipinto rappresenta il decisivo punto di partenza a cui si rifarà la “scomposizione analitica” dei cubisti.
Dopo i numerosi spostamenti tra Marsiglia, l’Estaque, Aix, Parigi e l’Ile de France (Melun e Pontoise), gli anni ’80 iniziano per Cézanne con un atteggiamento retrospettivo, di recupero delle esperienze precedenti. L’artista perviene tuttavia ad una tecnica nuova: il tocco acquista un orientamento unitario, i piani visivi si fanno sempre più complessi ed il colore sempre più intenso.
A fianco di temi di natura quali Il ponticello (1882-1885) e il Grande pino (1885-1887), ove il pittore ora si concentra maggiormente sull’analisi microstrutturale della materia - codificando la compenetrazione tra elementi terrestri ed elementi atmosferici con l’onnipresenza dei tocchi d’azzurro -, tornano le composizioni di figura.
In quest’ambito, Cézanne affronta a più riprese il soggetto del nudo femminile. Le Tre bagnanti (1875 ca.) e le Cinque bagnanti (1885-1887) segnano la progressione numerica delle figure all’interno della scena, progressione che culminerà con le tredici presenze delle Grandi bagnanti (1905 ca.). Nell’intero ciclo, i corpi femminili sono dichiaratamente sottratti a qualunque pretesa anatomica. La loro plasticità semplificata, distorta e geometrizzata, li trasforma in puri volumi - privi di qualunque caratterizzazione personale -, buoni per assecondare il gioco delle quinte arboree nella definizione di uno spazio “curvo”, “sferico”, ripiegato su se stesso.
Quest’effetto di gravitazione della scena attorno ad un punto centrale (l’ideale centro della sfera), di incurvamento delle schiene come conseguenza di un’invisibile quanto irrefrenabile forza centripeta, torna puntualmente in un’altra celebre serie iniziata in questo periodo, quella dei Giocatori di carte (1885-98). In questo caso, il medesimo tema è sviluppato a distanza di anni attraverso almeno cinque dipinti e numerosi studi preparatori. Parallelamente alla produzione artistica, a queste date, la vicenda personale del pittore vede una frequentazione sempre più assidua con Renoir, coincidente con l’allontanamento da Zola, reo di averlo inquadrato come fallito nel suo L’oeuvre dell’86.
Con la piena maturità di Cézanne arrivano anche i primi riconoscimenti da parte della critica. Nel ‘94 Monet lo presenta a Gustave Geoffroy, che rimane favorevolmente impressionato dalle sue opere; l’anno successivo, l’artista tiene la sua prima, significativa mostra personale presso Ambroise Vollard, mentre, sul finire del decennio, espone al Salon des Indèpendants e la Galleria nazionale di Berlino acquista due sue tele.
Nei ritratti Signora Cézanne sulla poltrona gialla (1890-1894), La signora Cézanne in rosso (1890-1894) e Donna con caffettiera (1890-1895), osserviamo di nuovo come anche le linee rette - quelle sopravvissute alla deformazione sferica - sfuggano a qualunque tentativo di impaginazione convenzionale: si rifiutano di convergere verso un punto di fuga, ma allo stesso tempo evitano accuratamente pure il parallelismo con i margini del quadro. Rinnegata la profondità come sfondamento prospettico, anche nella strutturazione di un piano di sfondo bidimensionale le linee assecondano una nuova volontà pittorica, che non si riconosce più nei “simboli” della modernità (l’angolo retto in primis). Qualora ce ne fosse stato ulteriore bisogno, nel loro porsi obliquamente - disassando letteralmente la composizione -, esse decretano il definitivo superamento di un sistema di impaginazione di tipo cartesiano.
Fino al 1906, anno della sua morte, Cézanne si confronta ripetutamente anche con un altro tema: La Montagna St. Victoire. La visione si apre in questo caso ad una composizione per pure chiazze di colore, ove i volumi delle cose coincidono ormai interamente con la pennellata, con la scaglia cromatica (che si fa casa, tetto, albero). Unica geometria “fenomenica” distinguibile è il triangolo dell’imponente montagna, chiamato a fungere da tramite per la reciproca contaminazione di cielo e terra, secondo le già analizzate modalità di compenetrazione cromatica.
“Sono il primitivo di un’arte nuova”, affermerà Cézanne negli ultimi anni. Con questa pionieristica consapevolezza, la sua ricerca era fin lì avanzata mirabilmente in bilico tra una dimensione “micro” ed una “macro”. Nelle sue opere, la realtà fenomenica - e la percezione di essa - è costantemente analizzata ad entrambi i livelli (nelle proprie componenti minime e nei rapporti spaziali tra unità complesse). Tale sintesi rimarrà peraltro una peculiarità tutta cèzanniana: una volta svincolatasi dall’obbligo della mimesi, infatti, l’arte successiva non riuscirà più a tenere una significativa posizione mediana, dovendo scegliere di volta in volta tra l’indagine macrostrutturale - come nel caso delle Avanguardie cubo-futuriste - o l’indagine microstrutturale (come per la stagione dell’Informale). A partire da queste considerazioni, oggi non è azzardato constatare come nella pittura di Cézanne, in realtà, siano già contenute le basi di buona parte delle linee di sviluppo dell’arte contemporanea.
FONTE: www.carmillaonline.com