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La tragedia di Mineo, una scelta del liberismo moderno

Publie le sabato 14 giugno 2008 par Open-Publishing

La tragedia di Mineo, una scelta del liberismo moderno

di Marco Sferini

su redazione del 13/06/2008

www.lanternerosse.it

Ogni volta che scriviamo delle morti causate dalla poca o dalla totale mancanza di sicurezza nei posti di lavoro diciamo a noi stessi e agli altri che l’incidente di cui parliamo deve essere l’ultimo, che non è possibile trascurare ancora una politica di serio ed efficace intervento in merito, che ponga fine a questa guerra non dichiarata da alcun stato, ma da una classe ben precisa, dalla classe dei padroni, di quelli che detengono i mezzi di produzione e che vantano i loro profitti ad ogni stretto giro di posta di una finanziaria per dimostrare quanto valga il capitalismo italiano. Salvo poi, un attimo dopo, lagnarsi delle troppe tassazioni che vengono loro imposte e cercare un rapporto sempre più stretto con il governo di volta in volta in carica per fargli scrivere regole che disimpegnino l’impresa dal versamento all’erario di questa o quella tassa.

Che la produzione vada avanti, che proceda lesta, spedita e che la sicurezza - parimenti - faccia da sclerotico corollario all’unica cosa che merita l’osservanza, l’ossequio e l’impegno del mondo politico e della società tutta: la rendita che la produzione genera attraverso lo sfruttamento del lavoratore.

C’è chi pensa di poter dire che quegli operai morti a Mineo, sei vite finite in una cisterna nel disperato tentativo di salvare il proprio collega dalle esalazioni di qualche gas nemico dell’ossigeno, sono la conseguenza di una disattenzione, del fatto che non indossavano le mascherine o di una imprudenza dettata dal momento in cui si sono trovati a vivere in diretta una tragedia che è aumentata col passare dei secondi.

C’è chi si arroga il diritto di pontificare che la colpa, dunque, è di quegli operai non specializzati che si sono calati nella cisterna e che hanno trovato la morte per seguire un istinto di generosa dedizione alla vita, per cercare di trarre in salvo i loro amici e colleghi.

E’ vero, non portavano le mascherine. Ma non è forse questo un elemento che ci induce a riflettere sul fatto che il lavoro, qualunque lavoro operaio e non da tavolino, sia abbondantemente più a rischio di molti altri? Non esiste occupazione che sia al riparo da rischi: ogni lavoro comporta una responsabilità e, quindi, di contro comporta pure un impegno ad assolverla e, pertanto, ognuno deve fare fronte ad un tasso di rischio che varia a seconda del tipo di occupazione.

Ma non c’è giustificazione che tenga, non c’è alchimia verbale che ci si possa inventare e sciorinare nelle interviste televisive o sui quotidiani, che possa in un certo qual modo girare la frittata e attribuire a quei sei lavoratori la colpa della loro morte.

Quello che indigna è proprio l’indignazione pelosa di un governo che minimizza l’accaduto, che lo riduce ad un incidente gravissimo, ma pur sempre gestibile nei confini dell’attuale stato di cose che investe il mondo del lavoro, il cerchio nel cui stanno sia i profitti che i salari bassi, il cottimo e gli straordinari e il lavoro a chiamata per pochi giorni, la disoccupazione permanente e la destrutturazione del contratto nazionale di lavoro. Con buona pace anche di Cisl e Uil.

Nelle ore in cui morivano i lavoratori a Mineo, su un autostrada veniva falciato un operaio di un cantiere, in un’altra città di questo nostro Paese moriva un lavoratore agricolo sotto un trattore. E altri due perdevano la vita in circostanze non meno gravi, semplicemente - e crudamente - differenti.

E poi capita di sentire Emma Marcegaglia, la zarina di Confindustria, esigere dalla politica più libertà per gli imprenditori: libertà nel liberismo, liberismo selvaggio, onnivoro, capace di inghiottire gli uomini in mille modi, di annientarli come classe sociale individualizzando ogni cosa, ogni rapporto: sociale o di lavoro, politico o culturale.

L’esasperazione dell’egoismo moderno nasce proprio dalla difesa della propria piccola patria casalinga, dalla difesa della tragicomica realtà in cui viviamo: ciascuno, moschetto in mano, difende il fortino della propria disperazione, fatta di mille euro al mese, in moltissimi casi molto meno ancora..., fatta di mutui ventennali, rate infinite, debiti insormontabili. Con una apparenza sociale che comunque va salvata, perchè la società ancora una volta ripete il singulto di un lamentoso giudizio moralistico: se non sei alla moda, e anche se non esistono divisioni censoree legalmente istituite, discendi al gradino più basso.

E siccome, oggi come ieri - e forse anche di più - il figlio dell’operaio osa studiare per fare il dottore o l’avvocato, osa oltrepassare la povera condizione in cui hanno vissuto i suoi genitori, e siccome, ancora, i suoi genitori hanno tuttavia formato la loro vita in un’epoca migliore di quella dei vecchi che avevano fatto addirittura la guerra, ebbene l’elevazione del figlio di oggi sul genitore di ieri è due volte difficile.

Il capitalismo moderno gioca sul piano finanziario per quanto riguarda i movimenti di grandi aziende e sulla precarietà assoluta del lavoro e del suo rapporto "sociale" e sindacale.

La condizione precaria abbraccia così anche la sicurezza: che limite minimo può avere la sicurezza di un lavoro che è instabile, che non ha un futuro, che è gestito alla giornata e che fa leva su un tasso di disoccupazione che, anche se decresce, non fa diminuire quella disperazione che citavamo prima. Perchè i nuovi occupati lo sono per un tempo sempre e solo determinato, o con contratti di collaborazione che assomigliano più a fenomeni di vero e proprio ricatto che a regolari patti tra padrone e lavoratore.

Chi muore di lavoro ogni giorno, muore perchè non c’è nessuna protezione a valle di tutto ciò. Manca qualunque forma di contenimento dell’arroganza padronale, fomentata da una fase congiunturale che è certamente favorevole e vittoriosa per un turbocapitalismo forsennato, anche straccione, ma che gioca a caso le sue carte e, qualche volta, vince.
Ma vince giocando sempre più sporco, giocando con la vita di quegli operai che salgono sulle impalcature e che vi cadono perchè un ponteggio ha ceduto o una rete di protezione non ha tenuto abbastanza.
Vince perchè non esiste più, almeno nell’oggi e nel prossimo domani, una coscienza di classe che era stata costruita con grandi lotte nell’arco di decenni e che aveva visto marciare accanto operai e studenti, impiegati e metalmeccanici, uniti nella speranza di far avanzare quei diritti che sono stati scritti nella Legge 300, quelle conquiste cancellate come la Scala mobile o quelle che si vorrebbero del tutto cancellare come l’articolo 18.

A questa operazione di depauperizzazione dei diritti partecipa con grande vigore anche l’erede della tradizione socialista - democratica italiana: il Partito democratico, la stampella più fedele della borghesia odierna. Il volto politico presentabile, guidato dai consigli giuslavoristici del professor Ichino, di un moderno rinnovamento della proposta riscaldata in più salse della "pace sociale". Oggi Veltroni la chiama "patto tra i produttori", ma è solo l’ultima trasformazione nominalistica di un cedimento strutturale totale di quello che rimaneva della sinistra e che, con l’operazione politica centrista del PD, ha dichiarato finito il tempo dell rivendicazioni e aperto quello della concertazione a tutto tondo con le esigenze profittuali dei signori confindustriali.

Se ci può essere una via di uscita da questo circolo vizioso, questa sta non in una vocazione alla speranza, in una proposizione etica di una giustizia che deve venire. La ricomposizione dei valori di uguaglianza e solidarietà in una sinistra veramente plurale, dove i comunisti siano il motore di accelerazione primo ma non unico, è la soluzione: ma lo è solamente se si ricrea una simbiosi propositiva tra la politica e la società, se non si trascura nemmeno un elemento, una parola, una persona, un’azione che cerca di venire fuori dal coro della rassegnazione e dell’egoismo campanilistico della disperazione.

La "rifondazione comunista" non è morta, anche se è in uno stato vegetativo non certo piacevole, e non può morire, non può delegare ad un partito unico della sinistra tutto questo perchè il suo compito non è esaurito, perchè i comunisti non sono delle mummie o degli zombie, perchè i nostri simboli - la falce e il martello - sono ancora i simboli del lavoro e lo possono, lo devono rappresentare.

E questo va fatto soprattutto in un tempo in cui i lavoratori ci rifiutano, ci dicono che difendiamo solo "i froci e i negri e gli zingari", perchè vuol dire che si è smarrita una concezione sociale solidaristica che è alla base della società democratica e almeno un poco civile. La società di Giuseppe Di Vittorio che, mi hanno sempre detto, aveva insegnato ai braccianti del Sud a non togliersi più il berretto quando davanti a loro passava il padrone.
Ora tocca a qualcuno di noi insegnare ai padroni, e agli amministratori, che non si può morire abbracciati in una cisterna di cinque metri di altezza con trenta centimetri di fango addosso.