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Lasciatemi parlare di Mumia

Publie le domenica 12 dicembre 2004 par Open-Publishing

di Silvia Baraldini

Oggi Mumia Abu Jamal inizia il suo ventiquattresimo anno di detenzione
nel braccio della morte dell’istituto penale statale SCI Greene nello
stato della Pennsylvania. Costruito nel 1996, SCI Greene è basato sul
sistema dei pod, moduli che isolano totalmente i detenuti. Mumia vive in
una cella di 8 piedi per 12 (2,5 metri per 3,7), ermeticamente
sigillata, totalmente bianca ed asettica. Nessuna immagine, fotografia o
ricordo può inquinare la asetticità dell’ambiente ed il letto, il tavolo
ed il piccolo armadio di metallo sono fissati al muro. Il tutto ideato
per comunicare a lui, o a qualsiasi altro individuo imprigionato nelle
stesse condizioni, un senso di impotenza, la deprivazione della
possibilità di poter determinare anche gli aspetti più insignificanti e
banali della propria esistenza.

Dal lunedì al venerdì gli è permesso
un’ora d’aria in un piccolo cortile collegato alla sua cella, coperto da
una rete metallica e circondato da quattro pareti di cemento. Questo non
avviene il sabato e la domenica. Tre volte alla settimana gli è permesso
di comunicare con il mondo esterno per quindici minuti. Tutte le
comunicazioni sono controllate e registrate. I colloqui avvengono una
volta a settimana attraverso un muro di plexiglas.
Sono passati tre anni da quando il giudice federale William Yohn, in
seguito ad un appello fondato sulla dottrina del’habeas corpus
(petizione di terminare l’illegale detenzione del corpo stesso di un
detenuto da parte delle autorità giudiziarie) ha ribaltato la sua
condanna a morte. Yohn ha giudicato incostituzionali le istruzioni del
giudice Sabo alla giuria e ha ordinato una nuova sentenza per Mumia.
Purtroppo il giudice ha confermato la condanna originale.

Immediatamente il procuratore ha presentato un appello alla decisione e
la corte ha sostenuto la sua richiesta di continuare la detenzione di
Mumia nel braccio della morte, mentre l’appello prosegue nel suo lento
iter. La Corte d’appello del Terzo distretto federale ha due opzioni:
confermare la sentenza del giudice Yohn o condannare Mumia nuovamente
alla pena di morte. Nella prima istanza il procuratore ha già dichiarato
la sua intenzione di chiedere l’ergastolo senza la possibilità di
qualsiasi sconto. Purtroppo per via della legge contro il terrorismo del
1996 firmata dall’allora presidente Clinton, Mumia, come ogni condannato
a morte negli Stati Uniti, ha diritto ad un solo appello.
Come molti sostenitori di Mumia temevano, l’impatto della sentenza di
Yohn, che non ha messo in discussione l’impianto accusatorio né ha preso
in considerazione le divergenti testimonianze oculari emerse negli
ultimi anni, ha influito negativamente sulla mobilitazione nazionale ed
internazionale che si era formata in sua difesa. I giorni delle grandi
mobilitazioni sono finiti ed oggi sono in pochi ad occuparsi ancora di
questo caso. Anche la campagna diffamatoria da parte della famiglia di
Daniel Faulkner e del sindacato della polizia ha avuto l’effetto di
spostare il dibattito dal rapporto tra polizia e comunità afroamericana
e le sue conseguenze sul caso stesso, sul fatto che Mumia debba provare
la sua innocenza. Un’impostazione che favorisce l’accusa ma contraddice
il principio basilare della giurisprudenza anglosassone: la colpevolezza
deve essere stabilita beyond a reasonable doubt (oltre ogni dubbio)
dall’accusa e non l’innocenza provata dall’imputato.

Ma quali furono le circostanze che portarono all’arresto di Mumia? La
notte del 9 dicembre 1981 Mumia intervenne in difesa di suo fratello che
veniva malmenato dalla polizia di Philadelphia. Durante lo scontro sia
Mumia che il poliziotto Daniel Faulkner furono feriti, in seguito
Faulkner morì. Mumia fu immediatamente accusato di avergli sparato,
anche se alla sua pistola calibro 38, per la quale possedeva il regolare
porto d’armi, non sono mai stati attribuiti gli spari che hanno ferito
ed ucciso il poliziotto. Inoltre le testimonianze oculari parlano della
presenza di un altro individuo dileguatosi nella confusione e mai
identificato. Non so se a distanza di ventitrè anni sarà mai possibile
chiarire le circostanze di quell’avvenimento o dissipare tutti i dubbi
sollevati dai colpevolisti.

Ma rimane incontrovertibile che fin dalla sua gioventù Mumia Abu Jamal
si è trovato nel mirino della polizia di Philadelphia, vittima di una
campagna repressiva a causa del suo coinvolgimento nel movimento di
liberazione degli afroamericani. In un primo momento per il suo
attivismo come membro delle Pantere Nere, poi come giornalista
indipendente e difensore mediatico della comunità afroamericana di
Philadelphia e poi come sostenitore di Move, l’organizzazione fondata da
John Africa, la cui ideologia sosteneva un totale rigetto del
capitalismo e la costruzione di comunità alternative imperniate su uno
stile di vita biologico. Mumia era stato licenziato dalla radio, dove
lavorava, per aver duramente condannato gli sgomberi di Move dalle loro
case da parte della polizia.

In particolare aveva guadagnato l’odio del potente capo della polizia,
successivamente anche sindaco di Philadelphia nel ‘81, Frank Rizzo, che
aveva guidato la repressione contro le Pantere Nere. Nel suo ultimo
libro, We Want Freedom (Vogliamo la nostra libertà), Mumia racconta come
Rizzo dopo lo sgombero della sede principale del partito avesse
costretto tutti i presenti a sfilare per le strade del quartiere a
marcia indietro, completamente nudi e con le mani alzate. Bisogna
ricordare che nel 1984 per "stanare" i ribelli di Move le autorità
municipali avevano scelto di bombardare il quartiere dove si trovavano
le abitazioni dell’organizzazione distruggendo ben 66 case e radendo al
suolo interi isolati.

Mumia non ha mai esitato a denunciare questi soprusi ed a utilizzare la
sua professione per segnalare le violazioni dei diritti umani da parte
del governo americano, da Philadelphia all’Iraq. Particolarmente
efficace sono stati gli articoli scritti da Mumia dopo le foto di Abu
Grahib nelle quali aveva riconosco una guardia carceraria di SCI Greene
tra gli aguzzini. Il luogo era cambiato ma non il comportamento.
Per quanto fisicamente isolato continua la sua denuncia da dietro le
"sbarre". E’ la sua voce che deve essere messa a tacere a tutti i costi.
Negli Stati Uniti del dopo 11 settembre il prezzo del dissenso e della
opposizione si è elevato e non è impensabile che l’esecuzione di Mumia
diventi di nuovo un obiettivo prioritario. Ma anche l’alternativa di
lasciarlo languire nell’isolamento del suo pod non è accettabile.
E non paga riporre speranza che il tanto screditato sistema di giustizia
americano possa riconoscere che nel caso di Mumia Abu Jamal sono stati
commessi errori di metodo e di sostanza. Questo anniversario deve essere
l’occasione di riattivare in Italia la campagna a suo favore e di
muoversi per ottenere una soluzione politica, quale la concessione della
grazia da parte del presidente americano.

http://www.liberazione.it/giornale/041209/R_PEZZO.asp