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Le forme della violenza bellica in territorio iracheno : la decapitazione
Publie le domenica 21 novembre 2004 par Open-PublishingA cura di Ivan Jutzi
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Con un articolo strutturato attorno a una particolare espressione d’umana ferocia prende avvio una serie di approfondimenti concernenti le forme della violenza manifestatesi durante il conflitto iracheno ancora in corso.
In merito, si ritiene che la propensione alla brutalità e alla desacralizzazione del cadavere costituiscano delle tendenze storicamente ricorrenti che non si profilano quali peculiarità distintive del nostro tempo e che - agli antipodi di una superficiale condanna - debbono essere analizzate affinché se ne possano comprendere le funzioni nonché ricontestualizzate per ovviare all’azione essenzialmente disorganizzante che ha contraddistinto le testate giornalistiche di massa.
Profondamente ancorata nell’immaginario collettivo di una società globale ossessionata dalla sicurezza, la convinzione che il trascorrere del tempo comporti un incremento della violenza - percepita quale fardello sempre più gravoso ereditato dal passato - provoca, in primo luogo, un’ansia persistente cristallizatasi attorno al fantasma di un’epoca buia.
In secondo luogo, una mancanza di obiettività favorita da media tendenti a soffermarsi esclusivamente sugli episodi di cronaca rivelati al pubblico sotto forma di meri bollettini che fanno riferimento ad un determinato numero di morti e feriti.
In quest’ottica, la credenza in un progressivo allontanamento da un’originaria età dell’oro felice ed incontaminata nonché la persuasione di esistere in una misera epoca del ferro contemporanea ove regna l’anarchia collocano la violenza in una vera e propria dimensione mitologica¹.
La soglia di tolleranza
A guisa d’introduzione alla serie di articoli, è opportuna innanzitutto una riflessione relativa al parossismo in ambito di crudeltà conflittuale e non. Ogni società definisce un limite oltre il quale una condotta è considerata brutale e intollerabile.
Concretamente, quelle decapitazioni perpetrate dalla resistenza irachena nei confronti di cittadini stranieri vengono reputate in Occidente disumane o bestiali, mentre non si ha assolutamente la sensazione che esse siano fermamente condannate dalla nazione occupata e dalla comunità mussulmana, soprattutto quella meno moderata.
A tale proposito, occorre ricordare che il Corano - un testo sacro che cita esattamente il verbo di Allah - fornisce delle chiare regole di comportamento sociale e delle precise sanzioni punitive per chi le infrange²:
La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra (V, 33).
Tagliate la mano al ladro e ala ladra per punirli di quello che hanno fatto e come sanzione da parte di Allah. (V, 38).
In merito, va precisato che simili condanne non vengono sempre applicate, ma gli esempi di attuazione risultano essere molto numerosi. Ciò significa che - in territorio iracheno - la soglia di tolleranza si situa ad un livello superiore rispetto a quella occidentale.
A meno di una vasta penetrazione del pensiero democratico, la prima è destinata all’invariabilità, poiché la parola coranica che regge la collettività islamica risulta essere immutabile.
La seconda, sprovvista di implicazioni a carattere religioso, ha subito nel corso dei secoli numerosi cambiamenti dettati dal contesto storico e dalla variabile sensibilità sociale.
A titolo esemplare, i supplizi pubblici organizzati in Francia all’epoca di Francesco I costituivano degli eventi straordinari ai quali la popolazione divertita e ammonita partecipava in massa.
La pena della ruota, l’amputazione degli arti e il taglio delle teste successivamente collocate su aste o lance erano parte integrante di un gradito spettacolo ritualizzato che esponeva il tormento e la morte.
L’Illuminismo e la rivoluzione francese apportano un cambiamento rilevante. Si cercherà infatti di “umanizzare” l’esecuzione, abbandonando il supplizio in favore di una pena brutale ma rapida. Fu così che nel 1791 l’Assemblea Nazionale approvò il progetto del dottor Guillotin.
Privilegio riservato ai criminali dalle nobili origini sino al 1790, la decapitazione venne accettata quale solo metodo appropriato di soppressione esistenziale, e la ghigliottina fu celebrata quale simbolo del progresso civile.
A tale proposito, va rilevato che la folla costituiva un elemento essenziale della teatralizzazione orchestrata dall’autorità al governo. In effetti, soprattutto durante il Terrore, il condannato doveva percorrere una sorta d’itinerario infamante che lo esponeva al pubblico disprezzo, al furore di una massa esaltata accorsa per assistere al suo decesso ed in cui spiccavano le “furie della ghigliottina”, cioè quelle donne particolarmente attratte dallo spargimento di sangue originato dalla decollazione.
Lo stato d’animo degli spettatori è brillantemente descritto da Jacques-Claude Beugnot:
Degli applausi, dei battiti di piedi, delle risa convulse, esprimevano il feroce piacere di questi cannibali all’arrivo di una nuova preda.
(tratto da: Rémy Bijaoui, Prison et prisonniers de la Terreur, Paris, Imago, 1996. Trad.mia)
Relativamente alla decapitazione di Jean Sylvain Bailly - una dimostrazione che in casi particolari si fece intenzionalmente soffrire il condannato prolungandone l’esecuzione - segue quanto scritto da Sanson:
[Vedendo] il fango che sporcava la sua camicia ed il suo viso, e il graffio sulla sua fronte da cui fuoriusciva qualche goccia di sangue, era evidente che la frenesia di questi selvaggi si era spinta sino a colpirlo.
Tutto ciò che il delirio della ferocia può inventare [quanto ad imprecazioni] gli era sputato in faccia da megere ubriache di fiele; gli uomini non erano meno accaniti; alcuni alzavano il pugno sullo sventurato le cui mani erano legate; altri cercavano di raggiungerlo con un bastone al di sopra delle teste dei loro vicini [...] Cadeva una pioggia d’autunno fine e ghiacciata. Sul suo corpo, Bailly non aveva che la sua camicia, ridotta a brandelli e, qua e là, lasciava intravedere le carni violacee.
(Tratto da: Charles-Henri Sanson, Journal de C.-H. Sanson, in La révolution française vue par son bourreau, par Monique Lebailly, Paris, Ed. de l’Instant, 1988. Trad.mia)
In Occidente, a più di due secoli di distanza, la soglia di tolleranza in materia di violenza, crudeltà o brutalità si è spostata verso il basso. Come già affermato marginalmente, i motivi di tale variazione vanno ricercati - oltre che in una palese evoluzione della sensibilità sociale - nel particolare contesto storico in cui ci troviamo.
Quest’ultimo è caratterizzato da un’intensa attività informativo-mediatica, di natura soprattutto televisiva, tendente a mostrare ogni manifestazione di aggressività sotto forma di stereotipi visivi - quali tracce di sangue, feriti evacuati, individui in lacrime, ecc. - che, da una parte, attenuano il potenziale impatto sullo spettatore consentendogli soltanto di immaginare quanto avvenuto in una verità fattuale plasmata o addolcita e, pertanto, distante.
Dall’altra, esprimono una volontà di occultare la reale distruttività della violenza originando un fenomeno di banalizzazione esemplarmente dimostrato dalla quieta attività nutrizionale che sovente contraddistingue chi guarda il telegiornale.
Curiosamente, l’assorbimento di dosi massicce di una crudeltà mimetizzata che non genera turbamento riesce a convincere la massa dell’onnipresenza dell’aggressività, gettandola così in un grottesco stato di apprensione sfruttato - tra gli altri - da chi a suo tempo ha avviato la campagna bellica in Iraq per delle fantomatiche armi di distruzione di massa, per proteggere preventivamente la patria da un attacco immaginario che esisteva nella mente della prole dell’11 settembre.
La decapitazione
In un quadro conflittuale che oppone il Bene al Male, la decapitazione esprime il proposito di distruggere l’avversario, di sottrargli la natura umana, di renderlo dissimile dalla figura del Creatore e - quindi - di evidenziarne quella diversità o difformità che costituisce la radice dell’odio.
Come la falce admantina che sezionò il collo di Medusa - intesa quale incarnazione del Male - le lame dei terroristi, nel corso di un rito simbolico dall’azione standardizzata, procedono alla soppressione del Demonio.
La diffusione dei filmati relativi alle esecuzioni rivela una volontà di rendere di pubblico dominio il dolore e la sofferenza, di attribuire alla decollazione una funzione esemplare e dissuasiva, poiché essa si rivolge allo spettatore, ad un potenziale nemico o invasore.
In ambito estremistico o resistenziale - invece - il messaggio visivo assume un altro significato, in quanto - dimostrando la mortalità dell’antagonista - s’intende spronare al combattimento contro un aggressore tecnologicamente superiore ma caratterialmente inferiore.
In effetti, la divulgazione degli appelli dei prigionieri alla mobilitazione, alla comprensione ed alla pietà si propone di rivelarne la debolezza e riveste un valore denigratorio, poiché volta ad umiliare, a relativizzare l’ardore di un avversario che - contrariamente allo Shahid o martire ed ancorché semplice civile - non è pronto a morire.
In quest’ottica, risultano esemplari alcune parole pronunziate prima del decesso da Kim Sun-il: “I want to live”, cioè “voglio vivere”. Agli antipodi di tale attitudine assolutamente comprensibile si vorrebbe collocare - in un tentativo celebrativo-eroicizzante - la persona di Fabrizio Quattrocchi, della quale si narra esser scomparsa dicendo: “Vi faccio vedere come muore un italiano”.
In merito, è interessante rilevare che quest’affermazione fu menzionata per la prima volta dal ministro degli Esteri Franco Frattini, il quale - inserendo il sopracitato agente di sicurezza in una dimensione mitico-leggendaria - ha così cercato di strumentalizzare la morte di un individuo al fine di forgiare un modello o figura esemplare in cui un’intera nazione potesse riconoscersi.
Obliati contrasti e divergenze, i cittadini italiani nuovamente affratellati si sono riuniti per glorificare la memoria dell’eroe perito per la patria, per una causa giusta. Così, se non fosse stata inventata l’epopea di un martire, la morte di Fabrizio Quattrocchi sarebbe risultata vana, assurda ed ingiustificabile come quella guerra in cui il governo ha creduto.
Infine - senza entrare nei dettagli - un approccio cronologico è suscettibile di spiegare una successione di esecuzioni per decapitazione che la propaganda mediatica occidentale ha completamente dissociato da fatti precedenti a cui si attribuisce un valore di causa scatenante: le sevizie, le mutilazioni e gli omicidi perpetrati dai soldati alleati ad Abu Ghraib e altrove.
Le similitudini sono a tal punto evidenti che il comportamento di parte della resistenza irachena si configura quale reazione proporzionale ai crimini commessi dalla milizia occupante:
– Così come le truppe della coalizione hanno arrestato e torturato dei civili innocenti, fra cui delle donne, gli estremisti islamici catturano degli ostaggi sprovvisti di legami con il mondo militare
– I documenti visivi circolati fra i soldati alleati e poi parzialmente presentati alla pubblica opinione rivestono le stesse funzioni dei filmati relativi alle decollazioni
Pertanto, nel circolo vizioso della violenza, la brutalità e la barbarie palesata dall’uomo occidentale - di cui tanto si decanta la civiltà - non potevano che richiamare furore e crudeltà.
Note
¹ Cfr. Jean-Claude Chesnais, Mythologie de la violence, in Histoire de la violence en Occident de 1800 à nos jours, Paris, Robert Laffont, pp.391-408.
² Cfr. Giovanni De Sio Cesari, Fra Islam e Cristianesimo: Shari’ha la legge islamica
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Bibliografia
Testi
Bijaoui Rémy, Prison et prisonniers de la Terreur, Paris, Imago, 1996
Jutzi Ivan, Les formes de la violence dans la révolution française, Université de Lausanne, juin 1999
Rauch André, Violence, brutalité et barbarie, in Ethnologie française, n° XXI, 1991/3
Sanson Charles-Henri, Journal de C.-H. Sanson, in La révolution française vue par son bourreau, par Monique Lebailly, Paris, Ed. de l’Instant, 1988
Video delle decapitazioni
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