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Le insanabili contraddizioni di Bernocchi tra pacifismo ed antimperialismo

Publie le lunedì 16 ottobre 2006 par Open-Publishing
4 commenti

di Franco Ferrari

La manifestazione di Roma del 30 settembre, promossa dai COBAS e da altri gruppi dell’area antimperialista ha suscitato una vivace polemica tra il portavoce dei promotori dell’iniziativa, Bernocchi e la senatrice Menapace del PRC.

L’insuccesso della manifestazione, riconosciuto anche da molti degli stessi partecipanti, potrebbe condurci ad archiviare la discussione e passare ad altro. Credo invece che sia utile riprendere alcuni dei temi sollevati, anche perché toccano elementi di analisi e di iniziativa politica di interesse sia per la politica della sinistra alternativa che del movimento pacifista.

Nella sua replica a Menapace, Bernocchi rivendica le ragioni dei promotori della manifestazione del 30 settembre e polemizza contro i suoi critici anche se ci si sarebbe aspettati una riflessione critica sul perché non si sia presentata all’appuntamento quella “marea di no-war non schierati” che lo stesso leader dei COBAS aveva evocato nel suo articolo del 28 settembre su Liberazione.

Se non vogliamo ricondurre tutto alla “sindrome del governo amico” che ormai sta diventando, a proposito e a sproposito, la spiegazione di ogni male, dovremmo partire innanzitutto dalla piattaforma della manifestazione del 30 settembre. Essa introduceva tre elementi di contrasto e di divisione con gran parte delle forze che hanno animato le grandi mobilitazioni pacifiste degli anni scorso, in particolare contro la guerra in Iraq. Elementi di contrasto già presenti prima dell’avvento del nuovo governo, tant’è che avevano portato a polemiche e divisioni anche in occasioni di precedenti iniziative (ricordo solo quella del Forum Palestina, prima delle elezioni).

La divisione più contingente è quella relativa alla missione UNIFIL in Libano sulla quale c’è evidentemente un giudizio non solo diverso ma sostanzialmente opposto. Bernocchi vede all’opera nella missione ONU la stessa strategia di guerra preventiva contenuta negli interventi militari a guida USA in Iraq e in Afghanistan. Questa strategia viene sintetizzata nella volontà americana di “occupare luoghi strategici in vista della feroce competizione con le nuove potenze emergenti (Cina in primis)”. Che si condivida o meno la missione in Libano, è evidente che siamo di fronte comunque ad una analisi superficiale. Altrimenti come si giustificherebbe la decisione cinese, non solo di approvare la risoluzione 1701 dell’ONU, ma di partecipare con un importante contingente alla forza di interposizione al confine con Israele? Come potremmo inquadrare la scelta della Cina di intrattenere stretti rapporti con il governo Karzai in Afghanistan? Scartata l’eventualità che la dirigenza cinese sia fatta di sciocchi e/o di masochisti è necessario mettere in campo una analisi che non sia così palesemente smentita dai fatti più elementari e più noti. Al di là dell’analisi, la vera ragione dell’opposizione degli antimperialisti all’UNIFIL è che questa possa indirettamente determinare le condizioni per il disarmo di Hezbollah, facendo venir meno le ragioni addotte da questo movimento per la sua presenza, ovvero la difesa del Paese dalle aggressioni israeliane. Ora qualunque sia il giudizio su Hezbollah, porre la priorità politica nella difesa del potenziale militare di questo movimento (scelta che peraltro dovrebbe spettare al popolo libanese) significa scommettere su uno scenario di guerra e non di pace.

Il secondo elemento di sostanziale dissenso della gran parte del movimento pacifista con la piattaforma della manifestazione di Roma riguarda il mancato riconoscimento del diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Varrebbe la pena, ma sarà per un’altra occasione, riprendere il tema di Israele, del sionismo, del punto di vista della sinistra sulla questione palestinese e così via, ma su questo punto non ci possono essere compromessi. La cancellazione dello Stato di Israele, oltre ad essere una prospettiva sbagliata, è una strada impraticabile. Pensare che la soluzione del dramma palestinese debba discendere dalla distruzione dello Stato ebraico vuol dire condannare i palestinesi a secoli di sofferenze. Inoltre è del tutto evidente e qui emerge un altro motivo di contrasto sostanziale della manifestazione del 30 settembre con la sensibilità pacifista, che una simile soluzione potrebbe passare solo attraverso una nuova e più sanguinosa guerra in Medio Oriente.

Il terzo elemento di divisione che ha ristretto drasticamente l’arco delle forze promotrici della manifestazione del 30 settembre riguarda il sostegno alla resistenze armate “libanese, palestinese, iracheno e afgana”. Bernocchi ammette che si tratta sostanzialmente di movimenti “reazionari” (naturalmente non usa questo termine) ma -dice - sono queste forze ad essere realmente in campo per contrastare la guerra preventiva americana e dobbiamo sostenerle anche se non ci piacciono. In realtà anche qui è innanzitutto l’analisi ad essere sommaria. Queste sono le forze che contrastano la politica degli Stati Uniti ponendosi sullo stesso terreno della guerra e del conflitto armato. E questa non è una scelta neutrale o obbligatoria, viene consapevolmente perseguita perché su questo terreno essi possono imporre la loro egemonia e cancellare le forze democratiche, progressiste o semplicemente secolariste, presenti in questi paesi e in generale in Medio Oriente. Quanto alla definizione degli obbiettivi, gran parte del movimento pacifista ritiene che questi movimenti (Hamas, Hezbollah, gruppi della guerriglia irachena jahidisti e non, Talebani), vadano valutati anche nel merito dei valori che propugnano, degli obbiettivi per cui si battono e dei metodi che utilizzano. Per questo non si può cancellare la profonda distanza che ci separa da loro.

Da questi, che sono i principali elementi di divisione tra il pacifismo e le correnti antimperialiste che si sono radunate nella manifestazione del 30 settembre, emerge una differenza sostanziale, direi “strategica”, nella quale poco c’entra la questione del “governo amico”. Per il pacifismo (e questo indipendentemente che si riconosca o meno nel principio della nonviolenza) gli obbiettivi devono portare a privilegiare la soluzione pacifica dei conflitti, ad utilizzare tutti i mezzi utili, anche parziali, per smilitarizzarli, a favorire e sostenere principalmente quelle forze che contestano la guerra, e quindi in primo luogo la guerra preventiva di Bush e dei suoi ideologici neoconservatori, uscendo dal terreno della guerra.

E’ evidente che la piattaforma di Bernocchi e della manifestazione del 30 settembre si muove lungo un’altra prospettiva ed è quella della inevitabilità della guerra, e quindi che la politica degli Stati Uniti si combatte stando interamente e necessariamente sul terreno del conflitto armato. Gli alleati del movimento antimperialista nei conflitti in corso in Medio Oriente, a differenza di quanto avviene per il movimento pacifista, sono selezionati a prescindere dai contenuti politico-sociali di cui sono portatori ma esclusivamente in quanto agiscono sul terreno militare. Da questo si comprende anche perché il leader dei COBAS si schieri contro la possibilità, ipotizzata da Menapace, che dalla guerra in Afghanistan (come anche dalle altre) si esca con una soluzione contrattata dalle parti in conflitto. “La guerra è guerra”, verrebbe da dire, completando il ragionamento di Bernocchi, e va combattuta - peraltro da altri e sulla loro pelle - fino in fondo.

Con queste premesse e questi obbiettivi è inevitabile quindi che la coalizione del 30 settembre si sia ristretta come una pelle di zerbino a quelle forze residuali che si sostengono su qualche elemento di analisi terzinternazionalista sulla inevitabilità della guerra o di terzomondismo in eterna attesa di un nuovo vento dell’Est . Senza fare i conti con i limiti che quelle analisi hanno storicamente dimostrato e con il profondo mutamento di contesto internazionale in cui i soggetti statuali, politici e istituzionali si trovano ad agire oggi. Anche per questo chi è “contro la guerra senza e senza ma” non ha risposto all’appello dei promotori della manifestazione del 30 settembre. A ragione, secondo noi.

Messaggi

  • In molti paesi, in queste ore, sfilano importanti manifestazioni ma in Italia questa manifestazione ha una valenza particolare
    perchè si muove in un contesto in cui tutte le sinistre italiane, anche quelle che si definivano radicali, alternative,
    antagoniste, anticapitaliste, quelle che avevano giurato sul no alla guerra, assumendola come un elemento pubblico della
    propria identità, hanno finito per dare un sostegno determinante alle missioni militari. Per capitolare alla guerra, per
    capitolare al proprio militarismo, per capitolare al proprio imperialismo. Il quadro è ancor piu’ terrificante, per molti
    aspetti, dalle analisi fatte precedentamente. Perchè qui, a differenza di altri paesi, assistiamo ad una comunità attorno alle
    missioni militari. Fino a poco tempo fa l’unità era presentata come un perimetro da difendere per recintare e impedire uno
    slittamento a destra. Oggi vediamo che, in omaggio alla politica e al programma del centrosinistra nel campo della politica
    estera, si sviluppa una unità nazionale larghissima che va da Fini a Bertinotti. Da Fini e cioè l’erede dell’Olocausto, della
    cultura di guerra, del colonialismo fascista, a Bertinotti e cioè il predicatore gandhiano della non-violenza.
    Parlano di un "valore assoluto" ma solo per i popoli resistenti e non gli stati dominanti, i loro carri armati, i loro
    bombardieri, perchè le missioni degli stati dominanti si possono sostenere e votare nel nome della non-violenza. Così abbiamo
    visto questa unità nazionale dispiegarsi su tutti i tasselli della politica estera. Persino sull’Iraq si è finito per gestire
    unitariamente un ritiro concordato con il precedente governo Berlusconi. Nei tempi e nei modi con l’amministrazione americana,
    nei tempi e nei modi voluti da Berlusconi e quindi nei tempi e nei modi compatibili con la continuità del saccheggio economico
    e dell’occupazione militare dell’Iraq e oggi vediamo tutti, a destra come a sinistra, fare il plauso bipartisan alle truppe
    italiane delle quali viene lodata la professionalità di pace. Ma se poi queste truppe, come avviene in Iraq, si sono macchiate
    di crimini coloniali, hanno annichilito ambulanze, hanno ammazzato donne e bambini, come dicono le stesse interpellanze
    parlamentari, come riconosce la stessa magistratura, questo poco importa perchè il tricolore militare ha riunito tutte le
    rappresentanze politiche di questo Paese. Lo stesso dicasi dell’Afghanistan, come abbiamo visto, dove tutto il Parlamento
    rivota missioni di guerra, proprio nel momento della precipitazione massima di quelle missioni e l’abbiamo visto ancor piu’ con
    il Libano. L’enormità della questione Libano non è solo nel fatto che tutto il Parlamento sostiene la piu’ grande spedizione italiana del secondo dopoguerra, dentro una missione internazionale il cui obiettivo è sostanzialmente lo stesso obiettivo di fondo della guerra che l’ha preceduta, a partire dal disarmo della resistenza libanese. L’enormità sta nel fatto che la cosiddetta sinistra radicale ha finito con l’assumere questa missione come modello di riferimento, come modello umanitario, come la propria missione. Non una missione come quella in Afghanistan, che si sostiene opportunisticamente obtorto collo e su cui si finge una opzione critica ma la missione militare per eccellenza, quella che viene indicata da imitare per le
    missioni future. Questa sarebbe la sinistra radicale di questo paese. Tutto questo non accade per caso, tutto questo non accade
    per errore o deviazioni politiche piu’ o meno gravi di questo o quell’altro gruppo dirigente.
    Questa è una ricollocazione di campo di tutti i gruppi dirigenti della sinistra italiana. Una sinistra che ha utilizzato i movimenti quando era
    all’opposizione, per salire al governo ma oggi, che è al governo, governa a vantaggio delle classi dirigenti e contro i movimenti e facendosi ammortizzatore sociale e politico delle loro reazioni. Cintura protettiva della politica del governo anche nel campo della politica estera. Questa manifestazione oltre i suoi numeri ragguardevoli è una importante manifestazione.
    In questa piazza, c’è un campo di forze, certamente diverse ma accumunate da un punto: c’è una sinistra che non ha piegato la
    testa, che non si è accodata all’unità nazionale, non si è accodata alla retorica tricolore, non si è accodata al nuovo
    imperialismo, una sinistra che non vuole difendere ministeri, sottosegretari, la presidenza della Camera, ma ha da difendere
    solamente i diritti dei popoli oppressi, le richieste dei lavoratori, una prospettiva di trasformazione. Questo campo di forze
    è un investimento sul futuro, del movimento operaio e dei movimenti di lotte in questo paese. Quindi la necessità che abbiamo
    oggi non è di recintare il nostro perimetro di dissenso ma di investire questo campo di forze in campo aperto, in una vera e
    propria battaglia di massa, capace di intercettare il senso comune di tanta gente semplice che non si riconosce in queste
    missioni e capace di intercettare il malumore di tanti lavoratori colpiti in queste ore da una legge finanziaria che destina
    alle spese militari e alle missioni militari parte dei servizi sociali e delle spese sociali. Anche quei settori del mondo
    pacifista che forse non condividono la nostra piattaforma giustamente antimperialista ma fortunatamente non hanno chinato il
    capo alle celebrazioni di Assisi, a quelle del militarismo umanitario. Dobbiamo riuscire ad investirci in una interlocuzione
    larga con tutte queste forze, per costruire il piu’ largo fronte di opposizione di sinistra al governo dell’Unione. Credo che
    un punto sia centrato: non ci troviamo di fronte ad un governo che non ci è amico ma il punto è che non è neanche un mancato
    governo amico magari su cui premere per esercitare una correzione o mandare un avvertimento e lanciare una speranza. No, ci
    troviamo di fronte ad un governo che sta dall’altra parte della barricata. Ci troviamo di fronte ad un governo della settima
    potenza imperialista del mondo. Ricostruire una opposizione a questo governo è un problema morale e politico e anche il piu’
    grande atto di solidarietà che possiamo avere verso le lotte di liberazione dei popoli oppressi di tutto il mondo.

    Marco Ferrando

    • Mi sembra francamente che nell’articolo iniziale vi siano alcune esagerazioni.

      Come il dipingere i Cobas come assertori della "distruzione di Israele" ... cosa che può valere per qualche componente minoritaria ( e spesso anche politicamente ambigua) del cartello che ha indetto la manifestazione del 30 settembre, ma decisamente non può essere attribuita a Bernocchi e ai Cobas.

      Insomma qui mi sembra che si stia facendo, da una parte e dall’altra, a chi la spara più grossa.

      Da un lato si nega spudoratamente l’oggettivo fallimento dell’ iniziativa, dall’altra si attribuiscono alla parte più significativa dei promotori posizioni che questi non hanno mai espresso.

      La "sindrome da governo amico" sicuramente c’entra, ma nemmeno può essere la spiegazione di tutto.

      E rimango comunque convinto che il sostanziale fallimento della manifestazione in questione non vada attribuito tanto ad un "sabotaggio" della cosiddetta "sinistra radicale di governo", che pure ha avuto il suo peso.

      Ma vada invece attribuito soprattutto alla presenza, tra i promotori, delle realtà politicamente ambigue, addirittura un pò inquietanti, di cui parlavo prima.

      Presenza che ha tenuto lontani dal corteo anche molti compagni e situazioni che pure condividevano la sostanza della piattaforma su cui era stata indetta la manifestazione.

      Keoma

    • La questione del riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele e della validità della parola d’ordine, dal significato inequivocabile, dei "due popoli, due stati" è notoriamente contestata da una parte delle organizzazioni della sinistra.
      La piattaforma della manifestazione del 30 settembre escludeva, ritengo non casualmente, quella parola d’ordine, inoltre prevedeva il sostegno ad organizzazioni che propugnano la distruzione di Israele. Hamas considera il conflitto arabo-israeliano come "una lotta religiosa tra Islam e Ebraismo che può essere risolta solamente per mezzo della distruzione dello Stato di Israele". Anche Hezbollah sostiene nel suo programma originario "la necessità della distruzione di Israele".
      Io ho tratto delle conclusioni dal contenuto della piattaforma e dai numerosi interventi provenienti da una parte se non da tutte le organizzazioni partecipanti alla manifestazione del 30 settembre, parlando di proposta di "cancellazione" o "distruzione" di Israele. Può darsi che il termine possa apparire troppo truculento o esagerato come dice Keoma. Se è così si dovrebbe chiarire senza fumisterie e ipocrisie, qual è la conclusione politica da trarre dalla piattaforma e dagli interventi politici che mettono in discussione l’esistenza di Israele.

      Franco

    • Si può argomentare all’infinito sulla manifestazione del 30 dove nessuno, e io ero presente, si è sognato di affermare, nelle conclusioni programmatiche, la necessità di vedere Israele cancellato o altre stronzate similari.

      Il punto è la Mission Unifil2.

      Non ce l’ha ordinato il medico di metterci in prima fila a fare i salvatori, strumentalizzati o meno.

      Ora c’è il problema della Finanziaria e dei tagli alla scuola.

      Ci potevamo permettere economicamente di affrontare una spesa simile che ricade sui lavoratori e segna profondamente l’impostazione della Finanziaria?

      Allora ecco che tutti gridano allo scippo
      http://www.liberazione.it/notizia.asp?id=4025

      Ora i Cobas si possono permettere, tramite Bernocchi di affermare: «Se fanno sul serio, che aderiscano allo sciopero del 17 novembre».

      Quindi finiamola di menarla con discorsi infruttuosi su incoerenze o altro ma facciamoci due conti.....