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Lessico del razzismo democratico

Publie le venerdì 21 marzo 2008 par Open-Publishing
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[Segnalando l’imminente pubblicazione del Lessico del razzismo democratico di Giuseppe Faso (DeriveApprodi, pp. 140, 10 euro) — di cui Carmilla ha già ospitato una voce in anticipo qui — proponiamo ai lettori l’analisi di tre lemmi diffusi a profusione nell’isteria giornalistica di questi tempi] A.P. [carmillaonline>http://www.carmillaonline.com/archives/2008/03/002578.html#002578]

Clandestino
Il buonsenso vorrebbe che si prendessero le distanze con severità
da chi innesta su una infrazione amministrativa (la mancanza di
documenti) uno stigma squalificante e sospettoso, il «clandestino»:
non una persona che lavora in mezzo a noi (e spesso nelle nostre
famiglie, come colf o assistente per la cura degli anziani), ma
uno infiltrato di nascosto per commettere chissà quale crimine.

Ma esistono anche tentativi di riabilitazione dell’uso di questo
termine, da fonti che sarebbero insospettabili, se non avessimo
ormai da tempo compreso quanto stia montando un socialismo
da imbecilli (il razzismo, secondo una blasonata definizione). Si
può, secondo tale cavillosa argomentazione, essere senza «permesso
di soggiorno» perché lo si aveva, e non si è riusciti a rinnovarlo;
o perché si è entrati in Italia con un visto turistico, che poi è
scaduto; oppure perché si è entrati in Italia di soppiatto. I primi
due sono «irregolari», quest’ultimo invece «clandestino». Cosa
cambia? I primi due hanno dato «contezza di sé» presso un ufficio
di polizia (come prescriveva il T.U. di polizia del 1931, anno X
dell’era fascista), il terzo no. Nessuno fra questi begli spiriti conclude
(con un minimo di coerenza) che dando a chiunque arrivi
in Italia un documento in questura, si debellerebbe la «piaga dei
clandestini»: ma la coerenza non è richiesta alla chiacchiera dell’uomo
della strada, e del suo rappresentante in accademia.

Messaggi

  • Integrazione
    Naturalmente si tratta di una parola innocente, che si presta a
    chiose rassicuranti: «integrazione» va inteso (ci si spiega sempre,
    dopo), come interazione, da pari a pari, in un tutto nuovo,
    visto come un intero in equilibrio. Naturalmente.
    E naturalmente i più colti ci sentono un che di sacro, il raggiungimento
    di una integrità che almeno da Orazio è figura positiva
    («integer vitae scelerisque purus»). I più colti.
    E naturalmente chi mette in guardia contro l’uso del termine,
    come ho sentito fare con molta precisione ad Alessandro
    Santoro, dà fastidio, anche a chi ha conquistato su altri nodi autonomia
    di giudizio e capacità di critica. Passa per esagerato.
    Non c’è nulla di più violento che la difesa di un’opinione irriflessa
    contro l’invito a pensare oltre, come ci ricorda una tradizione
    di pensiero eccessivo, da Hegel ad Adorno. Qui la violenza
    di chi fa fatica ad abbandonare il termine «integrazione» non
    si esercita soltanto nei confronti dell’esagerato di turno, quanto
    nella coazione a tornare con sempre maggior frequenza a un
    uso distorto, e fortemente retorico, di «integrazione». Evitare di
    dire «integrazione»? Non ci penso neppure…
    Ogni volta che ci si sieda a discutere di immigrazione, la
    maggior parte di chi sta dall’altra parte del tavolo, quella servita
    dal microfono, parla di integrazione. Non se ne rendono conto,
    i più, ma intendono «assimilazione». Come si dice «cultura» o
    «etnia» e s’intende «razza», si dice «integrazione» e si intende
    «assimilazione». Che stiano qui, alle «nostre» regole, che si
    adattino: nulla di più rassicurante, per una fetta (sembra, indecisa)
    di elettori.
    Apro a caso due colorati depliant che mi sono arrivati con la
    posta. La declinazione del termine non può dar adito a dubbi:
    «uno strumento per integrarsi: la lingua italiana», oppure «integrazione
    tra culture: le differenze culturali e religiose, le abitudini
    alimentari» (loro, s’intende). L’elenco potrebbe espandersi
    all’infinito. Non si parla mai di una società che ricompone
    a un livello più complesso i suoi settori, e perciò si integra, ma
    l’immigrato è sempre l’oggetto di una integrazione in un ambito
    preesistente, di cui non s’immagina una modificazione, un
    processo, quello sì, di inclusione.
    E quando, sempre più spesso, gli si chiede uno sforzo, e lo si
    invita a essere protagonista di questo adattamento forzato, il riflessivo
    è inevitabile: l’uso di «integrarsi» è come una cicatrice,
    il segno di una violenza che paternalisticamente promette un
    traguardo, a chi si sottomette da sé a certe regole, soggetto del
    suo diventare oggetto di accettazione. Se «ti» integri «ti» accetto.
    Ad assimilazione compiuta, la fatica è tutta tua. La fatica di
    integrarsi, come suona l’ironico titolo di una ricerca dignitosa
    che dovrebbe farci vergognare del nostro, ahimè quanto molesto,
    parlar male.

    • Degrado
      Giornalisti, amministratori, politici fanno ricorso sempre più
      spesso al termine «degrado», per indicare una situazione urbana
      segnata dalla presenza di prostitute, lavavetri, zingari, immigrati
      costretti a condizioni abitative assai disagevoli. Dal momento che
      lavavetri e buona parte delle prostitute e degli zingari sono (non)
      persone migrate in Italia, la categoria «immigrato» fa presto a inglobarli.
      Così un luogo comune diventa un fatto sociale, e alla categoria
      costruita si affibia la responsabilità di un danno, un attentato
      al pubblico decoro. E scattano «misure anti-degrado» di vario
      genere, fino alle recenti grida sui lavavetri a Firenze.
      In casi simili piccole incursioni fuori dalla nostra provincia
      spazio-temporale possono aiutare a decostruire processi di categorizzazione
      in funzione discriminatoria.
      Degrado, infatti, non è che debba voler dire proprio quello,
      in italiano. Il «Grande dizionario della lingua italiana» diretto
      da S. Battaglia, al vol. IV, riporta solo tre usi letterari, tutti nel
      Settecento, due di Scipione Maffei e uno di G.B. Graziani, col significato
      di umiliazione o di «riduzione di spessore» (dei muri).
      Altri dizionari ne registrano un timido uso a partire dal 1950, e
      Migliorini avverte che «Non è term. solo di caserma, ma anche
      di tecnici, ingegneri ecc.». Se ne deduce che pochi anni fa il termine
      veniva sentito come burocratico e da caserma, ma poteva
      avere una funzione tecnica.
      Una semplice ricerca ottiene così un effetto di spaesamento:
      e il degrado nel senso di «deterioramento del paesaggio urbano
      dovuto alla presenza di strati marginali della popolazione, con
      l’insicurezza che tale presenza comporta»? Nessuna traccia,
      fino a pochi anni fa. Come per «badante» (altro neologismo discriminatorio),
      la ricerca va perciò spostata a quelli che costituiscono
      gli unici dizionari di molte persone (non sempre analfabeti,
      visto che vi ritroviamo molti amministratori).
      Il più raffinato studioso della costruzione dell’insicurezza,
      Marcello Maneri, pochi anni fa («Rassegna di sociologia». n. 1,
      2001), ha dato conto dell’uso di «degrado» su alcuni quotidiani.
      Da una parte, si assiste al dilagare di questo termine, prima rarissimo
      e poi invece frequente; dall’altra, a uno slittamento semantico,
      per cui mentre negli anni Ottanta il significato oggi
      più consueto di «degrado» copriva meno del 5% delle sue occorrenze,
      a metà anni Novanta si arrivava a circa il 25%, per poi
      giungere alla fine del secolo a un circa 55%. In altre parole, è
      stato costruito con una rapidità impressionante e un uso martellato
      un significato di «degrado» dove l’offesa al decoro e la minaccia
      alla sicurezza si mescolano in una identità sinonimica:
      tornassimo indietro di vent’anni, probabilmente non capiremmo
      quest’accezione: era il paradiso terrestre?
      Non è la prima volta che ci troviamo di fronte a un conflitto
      che per ridisegnare il mondo dei valori trasforma, impoverisce
      e mistifica l’uso delle parole. Sarebbe bene rendersene conto,
      decidere da che parte stare, e come contribuire alla negoziazione
      del linguaggio, visto che i suoi effetti ricadono sulla regolazione
      delle pratiche sociali.

      Pubblicato Marzo 21, 2008