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Lettera a Fausto Bertinotti

Publie le martedì 20 marzo 2007 par Open-Publishing
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Lo spazio pubblico senza rappresentanza
Pubblichiamo stralci della lettera che Marco Revelli ha scritto a Fausto Bertinotti la cui versione integrale si può leggere su Carta, oggi in edicola.
Caro Fausto, sono anch’io preda del dilemma irresolubile della scelta tra «due mali»: l’appoggio a una missione di guerra (perché, non raccontiamoci balle, questo è l’Afghanistan) e la caduta di un governo che non considero, personalmente, «amico», ma che lascerebbe il posto a uno certamente «nemico». La resa consapevole della politica alla guerra, e la resa forzata a un governo di guerra. Sinceramente, se fossi al vostro posto (in un qualche ramo del parlamento) non saprei su quale corno sciogliere il dilemma (l’unica cosa che mi viene in mente sono le parole di Fabrizio De André, in «Nella mia ora di libertà», rivolte ai giudici: «Se fossi stato al vostro posto/ma al vostro posto non ci so stare»).
Dunque non la scelta, dura, penosa, quale che essa sia, rischia di dividerci (comunque si paga un prezzo...). Quello che invece mi ha turbato, e ferito, nella vicenda, quello che trovo inaccettabile, e che mi pare contraddica tutti i passi avanti fatti insieme, è il modo con cui il tuo partito, e la stragrande parte delle forze politiche del centrosinistra, e dei giornali ad esso legati, ha affrontato e liquidato il problema: liquidandone i portatori. Scatenando un’ondata scomposta di contumelie e di denigrazioni sui pochi, pochissimi, che hanno sciolto il dilemma su un versante diverso da quello della subordinazione alla stabilità del quadro politico. Mi ha colpito, qui, il linguaggio (altro che «rottura linguistica»), in linea con la peggiore tradizione autoritaria-burocratica. è ricomparsa ad abundantiam (come il riso sulla bocca degli stolti) l’espressione - che speravo francamente estinta - «anime belle», rivolta ai fautori di un rifiuto della guerra «senza se e senza ma», usata con particolare acrimonia da tanti, troppi esponenti del Prc e dei Comunisti italiani; impiegata con un gusto particolare, come di chi, dopo averla per troppo tempo subìta, può finalmente scagliarla sul capo di un altro, ingenuo malcapitato, col gusto di essere finalmente tra i cacciatori anziché tra i cacciati. Di poter finalmente partecipare alla gara venatoria del realismo politico, dopo la mordacchia di un idealismo mal sopportato. E’ ritornata, con intento denigratorio, l’accusa di «testimonianza» per le posizioni minoritarie. D’irresponsabilità.
Sono ritornate le insinuazioni, le calunnie, le rivelazioni sussurrate nei corridoi. La tentazione della delegittimazione morale dei dissidenti, di compagni con cui si sono fatte infinite battaglie, e che di colpo diventano invece «nemici»: l’insinuazione della loro dipendenza da «centrali straniere», degli accordi sotto banco, di transazioni inconfessabili. E quegli orribili sorrisetti di sufficienza, come se l’ultimo peone senatoriale, per il solo fatto di essere dalla parte dei più, fosse di colpo nobilitato di fronte al reprobo infame (e infamato). Vien da chiedersi - si parva licet... e in forma certo paradossale - come avrebbero guardato (e trattato) costoro i «poveri» Karl Liebknecht e Otto Rühle («anime belle»?) che, nel dicembre del 1914, da soli, nel gruppo parlamentare della Socialdemocrazia tedesca, ruppero la disciplina e votarono contro i crediti di guerra.
Ecco, tutto questo, con l’essenza del discorso sulla «nonviolenza» non solo non c’entra nulla, e fa violentemente a pugni, ma segna un contraccolpo devastante: come se, dopo aver salito a fatica i gradini di una scala ripida, d’un colpo, in un paio di settimane di follia, si riprecipitasse al fondo. E tutto il lavoro conquistato fosse azzerato. Da questo punto di vista, credimi, sarebbe bene che, autorevolmente, venisse un segnale forte di arresto di una pratica che, lo sappiamo bene, esattamente come per la violenza, degrada più chi la mette in opera che chi la subisce.
Siamo giunti così al cuore della nostra «verifica». Avevi - scusa se continuo a citarti - formulato il concetto in modo esemplare a Venezia quando, a proposito della «ricerca» avviata, avevi affermato che «noi viviamo il tempo della crisi della politica». E subito dopo aggiunto: «Far finta che questa dimensione non esista e continuare per la nostra strada indifferenti a questa presa di coscienza, vuol dire andare a sbattere contro un muro, correre il rischio della separazione dei movimenti dalla politica e della morte sostanziale della politica stessa». Giustamente facevi centro sul concetto di «separazione», come nucleo profondo di quella crisi. Sul rischio di una frattura incomponibile, tra i «movimenti» e la «politica», dicevi. Io preciserei: tra la società e la politica. Tra i «cittadini», nella loro dimensione culturale più generica, e la «sfera politica». Tra i territori e quello che sempre più assomiglia a un «ceto» separato e lontano, che decide ma non ascolta. Che parla un linguaggio gergale e autoreferenziale, e non produce più identificazione e senso. Quel fossato, in questi tre anni, non si è ristretto. Si è allargato a dismisura. Né l’alternanza istituzionale del 2005 ha migliorato le cose. Per certi versi le ha peggiorate. C’è una solitudine dei territori e delle «persone» (quelle vere, in carne e ossa, che nei territori spendono e tirano a fatica le loro vite, non quelle della rappresentazione virtuale istituzionale e mediatica), che inquieta e spaventa.
Personalmente l’ho chiamata: «crisi della rappresentanza». Rottura di quel residuo cordone ombelicale che, nell’altro secolo, aveva dato ossigeno alle nostre democrazie. Che faticosamente, stentatamente, aveva tradotto e riprodotto dentro l’arena istituzionale del «campo politico», umori, interessi, passioni e sentimenti che si agitavano nelle pieghe della società. Mi pare che quel cordone si sia spezzato. Che - come ho scritto sul manifesto - sempre più ai rapporti «verticali» tra rappresentanti e rappresentati, tra governanti e governati, orientati a una pur debole logica di mandato, si vadano sostituendo i legami «orizzontali» dei governanti fra di loro, nell’ambito delle coalizioni di governo e nelle diverse agenzie transnazionali, orientati a solidarietà di ruolo, a conformità funzionali. Non risponde forse a questa logica l’editto di Bucarest, con cui Prodi ha liquidato le ragioni di un intero territorio e di una buona fetta dei propri elettori in forza di un labile, labilissimo «impegno internazionale», evidentemente ritenuto più «vincolante» e «imperativo» di quello assunto con i propri cittadini? E non ne è clamoroso esempio il caso della Val di Susa e della Tav, imposta con ogni mezzo, senza reale attenzione e ascolto, con arrogante presunzione, dall’alto, con la semplice motivazione che l’Europa (quale?) ce lo chiede? C’è, mi pare, un «vincolo» posto sul vertice della piramide, una sorta di «blocco» della partecipazione, un sequestro delle facoltà decisionali nelle mani degli esecutivi, che taglia alle radici il rapporto di rappresentanza. E lo sostituisce con una degradata logica di «rappresentazione», in cui ceto politico e ceto giornalistico, poteri istituzionali e poteri mediatici si fondono, inestricabilmente, nell’elaborare il medesimo racconto sociale, l’unico dotato di corso legale, l’unico accettato come «realtà».
Bisognerà ben imparare, prima o poi, a «governare» questo inedito «multiversum» spaziale. A regolare i rapporti tra questi tre livelli del nostro spazio pubblico, accettandone la polifonicità. La molteplicità dei discorsi e dei racconti. E anche dei valori di riferimento. Nasce da questa incapacità di gestione del pluralismo spaziale buona parte degli equivoci che ci dividono in queste ore: la sensazione - espressa di recente, con alzata d’orgoglio, da Lidia Menapace - che anche un solo appello al rifiuto assoluto della guerra, formulato da chi sta nel «terzo spazio», in quello «presbite» dei movimenti globali, suoni a imposizione autoritaria (e tendenzialmente violenta) sulla autonomia dei parlamentari (di chi abita il «secondo spazio»). O la percezione di chi sta nel «primo spazio», in quello dei luoghi e dei territori, di essere fisicamente violentato dalle logiche decisionali di chi - ministro della Repubblica - si presenta in televisione a proclamare decisioni ultimative che mettono in gioco vite e esistenze, assunte a porte chiuse nel «secondo spazio» O, ancora, la sensazione di chi abita il «terzo spazio» di essere ricattato, e inquinato, dalle «responsabilità orizzontali» di chi, nel «secondo spazio», dice di volerne rappresentare le istanze ma poi, in realtà, finisce per scaricare sulle spalle dei movimenti orientati a valori «globali» responsabilità, e carica di aggressività competitiva, proprie dello spazio politico nazionale.
Un caro saluto.
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/17-Marzo-2007/art53.html

Messaggi

  • Un gruppo di metalmeccanici, di precari e di pensionati e i privilegi della classe politica

    appello da La Spezia 24/3/2007

    Lettera aperta a firma di lavoratori, pensionati, precari della provincia di La Spezia

    Oggi chi a sinistra, si dichiara profondamente deluso di questo governo, rischia di essere accusato di fondamentalismo, di antipolitica.

    Se un lavoratore o un pensionato dice che non ce la fa’ a reggere il costo della vita e non arriva a fine mese, se qualcuno ricorda che la precarietà non è diminuita, che la sanità, la scuola, i trasporti funzionano male come prima, se uno dice di aspettarsi dalla prossima “Riforma previdenziale” una nuova mazzata, se c’è chi mette in discussione scelte e decisioni sulle questioni internazionali, insomma se un elettore di sinistra è insoddisfatto del governo ecco che viene rappresentato come pericoloso radical-estremista, affossatore del governo “amico “.

    Noi lavoratori, pensionati, precari, disoccupati ragioniamo con semplicità e giudichiamo chi ci governa dalla giustizia sociale che crea o che non crea: se i ricchi continuano a non piangere e i poveri sono rimasti tali, vuol dire che i segnali di discontinuità o sono assenti o sono tanto deboli che non si avvertono nella vita quotidiana.

    E non ci consola affatto leggere analisi, approfondimenti, studi e dibattiti sulla “ crisi della politica “, perché ci sembrano persino, questi studi, un diversivo per non affrontare le questioni reali: i salari, il costo della vita, la precarietà del lavoro, la salute dei cittadini, l’evasione fiscale …… Basterebbe, invece, per chi governa, guardare dentro il vivere quotidiano delle persone, ascoltare il malumore e la critica, colmare la distanza tra le promesse fatte e le decisioni prese, tra le parole e i fatti, sapendo che per rendere efficace la politica, per governare, occorre non rinchiudersi nei luoghi dove si decidono le leggi, ma essere lì dove vive la gente e risolvere i problemi.

    Recentemente autorevoli giornali e servizi televisivi hanno denunciato i privilegi della classe politica. E basta fare un po’ di conti, sommando alle centinaia di milioni di euro l’anno per le pensioni dei deputati e dei senatori, le indennità dei parlamentari in carica, dei ministri, dei sottosegretari, consulenti, collaboratori e via via degli assessori, consiglieri, portaborse (per poi scoprire che sono tenuti in nero) nelle Regioni, Province, nei Comuni, fino alle circoscrizioni. Ne viene fuori una bella cifra di miliardi di euro che, qualora fosse dimezzata, servirebbe ad abolire alcuni ticket sanitari o l’aumento del bollo delle vecchie auto.

    Cinque anni di carica parlamentare rendono 3108 euro al mese indipendentemente dalla presenza in parlamento, persistono le pensioni-baby, la rivalutazione automatica, il cumulo tra pensione di parlamentare e indennità di incarico ministeriale, estensione dei privilegi anche ai familiari e conviventi.

    Ecco la vita in Parlamento (ma anche in Regione) fino a 20 mila euro al mese, cifre che un operaio e un pensionato non si sogna di raggiungere neppure in un anno.

    Fuori dal Parlamento ci sono lavoratori e anziani che aspettano con paura la quarta o la terza settimana del mese, ci sono i morti ogni giorno sul lavoro nei cantieri nelle ditte, i licenziati e i precari, quelli che si ammalano in fabbrica, i disperati per il lavoro perso, gli immigrati espulsi perchè non trovano o hanno perduto il lavoro.

    Il governo però assicura che sta’ operando per risolvere i problemi. Ma nessuno se n’è accorto, perché non è vero.

    Noi siamo convinti che per dare ai più poveri bisogna togliere ai ricchi, che non può esserci sviluppo se non ne beneficia la collettività, che la questione sociale è strettamente collegata alla questione morale, cioè anche all’abolizione dei privilegi.

    La classe politica cominci ad eliminare i propri privilegi, cominci a riformare se stessa. La sinistra cominci a fare qualcosa di sinistra anche nei propri confronti. Darebbe un segnale decisivo al Paese, sarebbe una spinta importante per cominciare ad affrontare i nodi della giustizia sociale, sarebbe uno strumento per riconquistare consensi.

    Lavoratori metalmeccanici

    Lavoratori precari,

    Pensionati.

    Seguono firme.

    Rita Ghiglione, Rita Mamino, Manuela Frau, Nadia Lombardi,Giuseppe Bernardini , Giuseppe Gattoronchieri, Piero Baldoni, Ivan Ferrari, Mario Veneri, Micaela Benedetti, Stefano Peroni

    seguono altre 40 firme.

    www.coordinamentorsu.it