Home > Lettera aperta a padre Alex su CES
Caro Padre Alex,
la cosa che mi stupisce di più ogni volta che ti ascolto (o che ti leggo, come in questo caso) è che trovo sempre molto attuale il tuo messaggio che ha sempre qualche suggerimento concreto per il qui ed ora.
Voglio ringraziare SCARP DE TENIS, la rivista di strada che ha voluto pubblicare la tua lettera di settembre 2005 circa il 20° compleanno del Commercio Equo e Solidale. Li ringrazio anche perchè non mi risulta (ma potrei sbagliarmi) che questo testo abbia raggiunto persone esterne ai circuiti ristretti e dedicati delle BDM e del CES e questo, ti confesso, mi fa pensare...... non bene.
Ma ringrazio soprattutto te che con autonomia, lucidità e libertà hai saputo dare corpo anche a temi che da qualche anno confusamente mi si agitavano dentro. Condivido quasi tutti i punti che esponi nella tua lettera (che allego, con le risposte di Dal Fiume di CTM e Poletti di Transfair) e non ripeto le argomentazioni da te esposte. L’unico che non condivido appieno è il punto 8, quello sul volontariato necessario in Bottega. Ho lavorato per tre anni nel CES con un progetto che tentava un rinnovamento ed un’allargamento di orizzonte per le Botteghe ed ora mi occupo dei GAS e dello sviluppo di Reti di Economia Solidale. E’ proprio da questa nuova prospettiva che, senza nulla togliere al pilastro fondante dei volontari in Bottega, mi pongo il problema di un sistema economico complessivo "diverso e possibile" nel quale non si può non fare i conti con il problema di posti di lavoro equi e solidali anche nel Nord del mondo. Penso, come del resto anche tu sottolinei, che si debba e si possa mantenere un’equilibrio tra lavoro ed impegno volontario in Bottega senza compromettere la causa.
Già, la causa. Partendo dalle tue osservazioni, vorrei continuare la riflessione, portandola in qualche modo "fino in fondo". Lo faccio anche perchè sono convinto che i settori del Commercio Equo, dell’Economia Etica, dei Gruppi d’Acquisto Solidali e, potenzialmente, le Banche del Tempo ed i Sistemi di Scambio Locali, sono i pilastri sui quali costruire in Italia Reti di Economia Solidale. D’altra parte tu stesso (punto 7, lavoro di rete) ti domandi se "non dovrebbero le botteghe di una stessa città essere le promotrici di reti locali che raccolgono tutte le realtà di resistenza al sistema?"
Allora, per il CES, di quale "causa" stiamo parlando? Alle origini, se ricordo bene, si trattava di dare una risposta non assistenziale ed emancipatoria (di "liberazione") a quello che allora si chiamava "sottosviluppo" per molti paesi del mondo, con i suoi tragici corollari di fame, miseria e guerra. Sullo sfondo c’era anche l’orizzonte della "promozione umana" per la quale una delle soluzioni fu quella di aprire nuovi canali commerciali tra paesi ricchi e poveri che mettessero al centro (anche del ragionamento economico) la dignità umana, l’emancipazione dei popoli sottomessi e (se e quando possibile) una qualche sensibilità ambientale. Per questo concordo con te che fino ad oggi il CES (ed anche le sue diverse declinazioni circa le quali non entro nei distinguo in questa sede) ha coperto un ruolo politico rilevantissimo per aprire una riflessione sul "mondo diverso e possibile".
Ma intanto, assieme al CES, è cresciuta anche la globalizzazione, eccome se è cresciuta! Un bel giorno ci siamo accorti che le medesime ricette del Fondo Monetario internazionale e della Banca Mondiale (ad esempio quella di privilegiare in tutti i modi le esportazioni dai paesi poveri a quelli ricchi) sono alla fine le stesse poste alla base del CES, pur con meccanismi regolativi di maggiore equità e solidarietà. Gli stessi movimenti "altromondisti" sono cresciuti, non solo in quantità ma anche in qualità di pensiero. Oggi si ragiona se il concetto stesso di "sviluppo sostenibile" non sia in fondo un’ossimoro inconciliabile. Ci si chiede come si possa ancora concepire la crescita economica in un contesto ambientale "limitato". Qualcuno comincia apertamente e provocatoriamente a parlare della necessità di una "decrescita" produttiva ed economica. Si indagano, come ci ricordi, i sentieri virtuosi della sobrietà, di una civiltà della sufficienza oltre che della eco-efficienza.
Il contrasto che tu rilevi tra questi scenari ed il consumismo di fatto alimentato dall’acquisto di prodotti CES nei supermercati è solo l’aspetto più eclatante ed appariscente, occorre andare forse più alla radice: stiamo chiedendo alle comunità del sud del mondo di conquistarsi dignità e benessere attraverso la vendita (e la corrispettiva coltivazione, spesso intensiva) di prodotti per noi prevalentemente effimeri (frutta esotica, spezie, artigianato, ecc.) attraverso (sempre più) i canali della grande distribuzione e, domani, come già ci segnali, le odiate multinazionali.......
In questa situazione, il primo problema è quello che Bebbe Grillo ci ricorda frequentemente: non possiamo più permetterci di fare finta che i trasporti non costino nulla e di scambiarci prodotti da una parte all’altra del mondo...... Che senso ha vendere succo d’arancia proveniente da Cuba? Ed il miele messicano?
Il secondo problema è proprio legato alla visione dello sviluppo territoriale: pretendiamo di allargare le quote di mercato per prodotti per noi superflui (banane, ananas, arachidi, ecc.) dimenticando che la loro coltivazione toglie oggettivamente terra, tempo, lavoro necessarie ad un’agricoltura di sussistenza che possa rendere possibile un mercato endogeno nei territori di quelle comunità. La suggestione delle "Comunità locali autosufficienti" (punto 8) è una grande sfida per noi ma non può essere diversamente per i popoli poveri. Non possiamo continuare a sostenere un loro "sviluppo" che colonizza di fatto la loro autodeterminazione nell’uso della terra e delle risorse. Alcuni segnali positivi in questo senso ci stanno venendo proprio da alcuni paesi..... in uscita dalla povertà. Pensiamo al Sudafrica ed al Brasile in rapporto all’autoproduzione di farmaci anti AIDS, all’Argentina dove milioni di persone utilizzano monete complementari, allo stesso Brasile che adotta carburanti eco-compatibili alternativi al petrolio.......
C’è poi un problema culturale: nella città in cui sono nato c’era una Bottega che ogni anno a Natale, facendo rete con altri soggetti, apriva in centro città una tenda della solidarietà dove si vendevano, accanto ai prodotti CES anche libri, musica ed altro. Al di là dell’incentivo propriamente consumista, l’impatto culturale e di visibilità era certamente significativo: i soggetti CES e della solidarietà sono capaci di unirsi e di offrire un consumo diversamente finalizzato..... Quest’anno la stessa BDM, in partnership con CTM, decide di aprire una seconda bottega nel pieno centro della città (in una posizione commercialmente ineccepibile), una sorta di "boutique" dell’artigianato CES, molto elegante, dove per gli acquisti di alimentari si rimanda alla vecchia bottega..... Per aprire e lanciare la seconda bottega, non vi sono forze sufficienti per la tenda della solidarietà che..... non viene più fatta. Morale della favola: è più redditizio concentrare le energie per la vendita di artigianato alle classi agiate (si tenga conto che pare che la stessa CTM abbia deliberato l’elininazione del limite di ricarico, precedentemente al 40%, per tutti i prodotti dell’artigianato) che continuare in un’azione culturale, se non di base almeno di "medio". A noi non servono boutique bensì botteghe "dove si sperimenta la gioia dello stare insieme, della celebrazione, dell’incontro anche interculturale e in-terreligioso. L’anima di ogni bottega dovrebbe essere una piccola comunità che ama ritrovarsi, far festa, danzare la vita. Ogni comunità dovrebbe essere una comunità alternativa alla cultura dominante."
Quando i commercianti di via vicini alla nostra Bottega eco-solidale ci hanno chiesto un contributo per le luminarie natalizie, noi abbiamo rilanciato chiedendo loro di rinunciare alle luci ma di raccogliere la cifra equivalente per destinarla ad un progetto di solidarietà. Abbiamo anche spiegato loro che non avremmo venduto nelle domeniche natalizie, come in nessuna delle festività dell’anno. I più stupiti di questo furono proprio alcuni volontari della Bottega che mi chiesero "Ma non siamo qui per garantire un reddito dignitoso ai produttori? Così venderemo molto meno...." Io risposi che il nostro impegno era per un mondo dove potessero "vivere bene" (bem-vivir, E.Mance) sia i produttori che i consumatori, garantendo le dignità di ambedue.
In conclusione vorrei dire che il CES meriterebbe oggi un ripensamento complessivo, a partire dalle contraddizioni che emergono e mi permetto di avanzare qualche proposta strategica:
1) Se sullo sfondo occorre porre la domanda nuova: come favorire la nascita di nuovi mercati locali ed endogeni nei paesi poveri? In una fase transitoria (probabilmente ancora lunga) bisognerebbe concentrarsi e privilegiare le produzioni che effettivamente ci sono necessarie, come ad esempio il cotone, l’elettronica (ormai molta della produzione è delocalizzata nei sud del mondo) e le calzature (si pensi all’esperimento portoghese di Adbusters), abbandonando gradualmente per prime le produzioni "insostenibili" (succhi di frutta, miele, ecc.) ed in secondo luogo quelle effimere e superflue;
2) Le BDM dovrebbero divenire i punti di visibilità ed aggregazione per i consumatori critici e consapevoli effettivi, simpatizzanti e curiosi (a macchia d’olio....) privilegiando i consumi di beni quotidiani afferenti non solo dal CES ma anche dalle piccole produzioni locali e privilegiando tra queste cooperative ed imprese sociali (occorre poter trovare in bottega anche latte, formaggi, verdura, detersivi, prodotti igienici....)
3) Il settore del Commercio Equo complessivamente inteso dovrebbe cominciare ad accostare il progetto RES e dei Distretti Locali di Economia Solidale per giocare, senza autoreferenzialità ed a pari dignità, il proprio prezioso ruolo nel campo distributivo.
Spero di aver trasmesso l’intento puramente costruttivo di queste righe ed auguro di cuore a te ed al CES
Pace, forza e gioia!
Sergio Venezia