Home > Lettera da Nadia Hasan
Traduzione dall’Inglese di Mary Rizzo, membro di Tlaxcala, traduttori per la diversità linguistica, e revisionata da Manno Mauro.
di Nadia Hasan
Oggi è il mio primo giorno ad Amman, beh, oggi è il primo di molti giorni che dovrò vivere in questa città. Mi sento un po’ paralizzata, non so da dove incominciare. Non so dove dovrei andare, nemmeno quello che dovrei fare.
Sento chiaramente, nella chiarezza relativa che si può avere riguardo ad un incerto futuro, che rimarrò qui tutto il tempo necessario. mi costruirò una nuova vita fino a quando non sarò in grado di riprendermi la mia vita, la vita che voglio, la vita che mi hanno costretta a lasciare. Oggi aggiungo il mio nome a quello dei milioni di palestinesi che vivono fuori dalla Palestina, che sono stati deportati, espulsi dalle loro case, ai nomi di coloro a cui sono stati negati il diritto fondamentale d’appartenenza, il diritto di essere legato ad uno spazio fisico, alle proprie radici, al diritto di vederle crescere queste radici e di vederle abbarbicarsi al terreno. La vita è questo, no? Cercare il posto dove senti di appartenere. Dove i tuoi piedi riconoscono le strade, e le strade riconoscono i tuoi passi. Tu puoi pure essere nato in un determinato paese, puoi passarci metà della tua vita, ma i tuoi sogni e il tuo sguardo saranno sempre rivolti altrove, ad un altro posto, ad uno spazio lontano di cui il tuo volto sente di far parte, dove esso sarà riconosciuto, dove si fonde con gli altri, dove sente di appartenere.
La Giordania è il paese dei deportati, dei rifugiati, dei palestinesi fuori della Palestina. Paese in cui frontiere fittizie impediscono loro di rientrare, dove barriere di apartheid tarpano i loro sogni del ritorno, i loro sogni di appartenenza.
La paura mi paralizza. La paura di fondere in questa massa d’indifferenza. Mi paralizza la sola possibilità di abituarmi ad una realtà che non mi piace, che mi disgusta, una realtà che rifiuto d’accettare. I palestinesi al di fuori della Palestina non vivono in un luogo, perché non esiste un luogo, fuori dalla Palestina, che sia veramente loro. Vivono nel tempo, le loro vite sono determinate dalle circostanze politiche, economiche o di una natura diversa, che indicano loro la strada che devono seguire. Si costruiscono una casa, si trovano un lavoro, si creano una famiglia, con l’intento di continuare, continuare a camminare. Ma, in ognuno di loro, la parola “attesa” porta un significato più profondo, è un’attesa che essi sognano possa trasformare il tempo in luogo, sperano di smettere di vivere nel tempo, e ricominciare a vivere in Palestina, vivere nel luogo che appartiene loro.
Oggi comincio a cercare una casa, cercare un lavoro, costruirmi una nuova vita. Ma capisco chiaramente che il sentimento che mi sostiene è quello dell’attesa, l’attesa che i miei passi riconoscano la terra che toccano. L’attesa che il mio volto nuovamente si sciolga in altri volti familiari. Ma, in quest’attesa, la lotta è più impegnativa, la sfida che l’Occupazione ci impone è ancora più grande, perché dobbiamo sfidare la memoria. Non possiamo dimenticare! Non possiamo permetterci d’essere sconfitti dall’indifferenza. Non possiamo dimenticare. Conservare i profumi, i sapori, i colori della nostra terra sarà sempre la lotta più difficile che dobbiamo condurre, per sfidare la dimenticanza e vincere le armi. Per smettere d’essere i figli di un’idea della Palestina, e diventare i figli della Palestina, perché finché ci sono i ricordi, c’è la memoria, anche la Palestina Esiste, anche la Palestina Resiste!