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"Liberazione" il giorno dopo ......

Publie le domenica 10 giugno 2007 par Open-Publishing
2 commenti

Accade una coincidenza davvero particolare. Confezionando le rassegne stampa quotidiane, visito ogni mattina tutti i siti dei giornali italiani e non. Dopo mesi di ottimo funzionamento (tutti gli articoli online fin dalle prime ore), il sito di Liberazione oggi era introvabile fino a pochi minuti fa, ed ora mostra solo il giornale di ieri.

Sarà un guasto tecnico temporaneo, senza dubbio. Tuttavia, simbolicamente appare "ammutolito" il giornale del Prc, dopo le due differenti performances di ieri, in piazze diverse, a Roma.

Che brutta coincidenza...

Cari compagni di tutta la vasta area dei Cantieri per la Sinistra unita, non appena raffreddate le emozioni, bisognerà riflettere con intelligenza e lucida ragione.

Il 9 giugno romano ci ha mostrato fatti ineludibili: una crisi profonda tra classi dirigenti e popoli della sinistra.

C’è un deficit di comunicazione, oppure si tratta di un eccesso di governismo? E’ riuscito un complotto di Casarini contro Bertinotti, oppure le ragioni che reggono il sostegno a Prodi (sull’Afghanistan, ma non solo..) si stanno trasformando in un labirinto inestricabile?

Dopo il 9 giugno romano (da oggi), trovare il bandolo della matassa sarà un lavoro difficile, doloroso, ma indispensabile.

Adelante compañeros!

Messaggi

  • L’indirizzo sbagliato

    di Marco Bascetta

    Ospite è una parola molto particolare. Designa al tempo stesso chi ospita e chi è ospitato. Indica qualcosa che accomuna i due. Questo ha voluto dire, prima di tutto, il grandissimo corteo che ha attraversato le strade di Roma. Che tra la guerra di Bush e i suoi blandi correttivi «multilaterali» esiste al fondo una logica comune, una complementarietà. Che di questa logica il governo italiano è in qualche misura partecipe. E non solo quando si parla di guerra, ma anche delle compatibilità dell’economia globale, dell’immigrazione, della sicurezza, o della «pubblica morale».

    La manifestazione di ieri, sia pur galvanizzata da un tema estremo come quello della pace e della guerra, dove meno che mai le coscienze sono inclini a delegare, spazza via un equivoco di cui le forze politiche collocate all’estrema sinistra dell’attuale maggioranza si sono largamente nutrite. E cioè che i movimenti costituiscano una testimonianza, una domanda, quando non un «disagio» a cui i partiti dovrebbero saper rispondere, ma senza muovere un passo dai consueti dispositivi della sovranità. Riproducendo eternamente se stessi e le proprie prerogative.

    Concedendo la grazia dell’ «ascolto» ma rivendicando l’assoluta autonomia, o meglio trascendenza, della propria decisione. Certo, l’esercizio della sovranità ha le sue regole, le relazioni internazionali hanno le loro, ma vana è la pretesa di assecondarle senza aprire il conflitto tra governanti e governati, tra le regole e chi le rimette in questione.

    Questo non è un governo amico, dicono i manifestanti di Roma, non possono esistere governi amici. Non vi è una logica né una misura comune con cui giudicare le cose del mondo. Tra il misero raduno di piazza del Popolo e la marea di persone che hanno sfilato contro la guerra di Bush e i suoi supporti umanitari c’è una sproporzione enorme, evidente, indiscutibile. Come si poteva immaginare di imporre un galateo alla critica, di isolare il demone imperiale dagli angioletti «multilaterali» che gli svolazzano intorno, di chiedere ai governati, ai movimenti, alle persone perbene che detestano la guerra, di farsi carico delle contraddizioni, degli obblighi, dei vincoli autoimposti del mondo della politica? Di rinunciare alla libertà del proprio diverso linguaggio? Esistono le compatibilità, si capisce, ma esiste soprattutto un mondo assai grande che non vi è compreso e non intende esserlo.

    Ora dovrebbe essere chiaro: non sono mai esistite due piazze, ma una. Non c’era proprio nulla che dovesse confluire, fondersi, amalgamarsi. C’è una contraddizione che sta nelle cose, un conflitto che non si lascia ricomporre. Ci sono forme della politica troppo vecchie, non dico per superare questa differenza, ma almeno per comprenderla. C’è un mucchio di persone che non considera la Folgore la migliore vetrina d’Italia e non è bastato il timore di un impatto con le forze dell’ordine, che pur c’è stato senza travolgere gli argini, a impedirgli di andare a gridarlo.

    da "il manifesto" 10/6/07

  • La settimana nera di Rifondazione comunista

    Marco Revelli "Il Manifesto" 16.6.07

    Su ciò che è accaduto a Roma una settimana fa si è discusso ampiamente. Sul palcoscenico di piazza del Popolo è andata in scena, con la plasticità degli eventi simbolici, la «caduta» di Rifondazione comunista: il fallimento della sua linea politica, non solo degli ultimi mesi ma degli ultimi anni. Dico di Rifondazione comunista, anche se non è l’unica a aver allestito quella piazza, perché è stata la formazione politica che più di ogni altra aveva puntato sul «rapporto con i movimenti» (per usare l’espressione di rito) e insieme che più aveva dato per far nascere e sostenere il governo Prodi. Ora, nel vuoto di quella piazza - e nel pieno delle strade «alternative» circostanti - poteva constatare con quanta rapidità almeno un quinquennio di lavoro «con il sociale» (diciamo: da Genova in poi...) fosse stato azzerato da poco più di un anno di presenza nell’esecutivo.

    Il sabato nero della «sinistra radicale di governo» - si può dire così? - non può essere tuttavia separato da ciò che è avvenuto la settimana successiva, e che ha riempito le prime pagine di tutti i giornali. Intendo la devastante crisi d’immagine che ha colpito i massimi vertici dei Ds con la diffusione delle intercettazioni relative alle scalate bancarie. Che non è questione di «complotti», di «follia italiana», di gossip o di malcostume informativo: forse c’è anche questo, ma non è la questione principale. E neppure un aspetto secondario - di «costume», appunto - di una lotta politica che si svolge su ben altri terreni. E’, al contrario, la prova desolante del livello di degrado politico, etico, persino linguistico e - l’espressione è estrema, ma non ne trovo un’altra adeguata - «antropologico» di quel pezzo di classe politica a cui buona parte degli elettori di sinistra aveva pensato (illudendosi) di poter affidare il risanamento morale del nostro paese.

    E’ la fine di quella residua legittimazione morale che aveva costituito l’ultimo, tenue filo di continuità di un’Italia che continuava a credere nella politica perché s’immaginava e l’immaginava «altra» rispetto alle orge del potere berlusconiane. Il lessico degli «intercettati», gli argomenti usati, gli uomini con cui e di cui parlano (avete presente il «compagno» Ricucci?), la superficialità e l’arroganza che trapelano, la logica affaristica che esprimono, il piglio da «razza padrona» che denunciano, non costituiranno di per sé (almeno per ora) prove di reato. Ma ragione di una delegittimazione politica totale (da «sen vajan todos»), questo sì, almeno da parte di chiunque non condivida un realismo e un cinismo di tipo tardo-bolscevico alla Ferrara.

    Le due sinistre

    Può dunque apparire come una terribile beffa del destino che, nel corso della stessa settimana, entrambe le «due sinistre» italiane cadano insieme. Che mentre esplode la crisi della più importante componente della «sinistra moderata» impegnata a convergere drasticamente e definitivamente verso il centro, contemporaneamente imploda la linea politica del partito che più avrebbe potuto «capitalizzarne» gli esiti, o comunque contribuire alla nascita di una più vasta alternativa organizzata a sinistra lungo un percorso di dialogo col «sociale». E che per anni si era preparato a questo momento. Né mi sembra, sinceramente, che la voragine che si va aprendo «in alto» possa essere riempita, in tempo utile, da ciò che si muove «in basso».
    Il corteo che sabato scorso ha attraversato Roma è stato grande, non c’è dubbio, bello, multicolore e polifonico (almeno nella sua stragrande maggioranza e fino a cinque minuti dalla fine). Ha dimostrato che un nucleo ampio, massificato, di partecipazione attiva contro la guerra e per l’autodifesa dei territori non si lascia intossicare dai miasmi che escono dal palazzo.

    Può sopravvivere all’asfissia dei piani alti. Ma non prefigura ancora un’altra «politica possibile». Non rappresenta neppure tutto l’esteso tessuto partecipativo che si era materializzato a Genova nel 2001, con i centri sociali e le parrocchie, i militanti della sinistra radicale e i boy scout, la rete Lilliput di Alex Zanotelli e la Fiom di Claudio Sabattini tutti fusi insieme... Ne costituisce solo l’anima «politicamente organizzata», più una sorta di partito in pectore che non il «movimento dei movimenti». Per questo, la legittima soddisfazione dei suoi organizzatori, se travalica in gioia trionfale mi ricorda un po’ chi celebri una festa di compleanno nella sala da ballo del Titanic.
    Il fatto è che lo spettacolo (inguardabile e terribilmente triste) a cui stiamo assistendo in questi mesi è quello di una sinistra che «viene giù» tutta insieme. Che cade in tutte le sue componenti, nel quadro di una più generale «crisi della politica». Di un mutamento genetico delle caratteristiche stesse del «politico» - dei suoi ambiti spaziali, delle sue forme espressive e organizzative, dei suoi valori di riferimento e delle sue concrete possibilità di azione - che fa venir meno il contesto stesso in cui l’identità della sinistra si era strutturata.

    E’ cioè la politica del «moderno» - quella fondata sulla centralità della «forma-stato» e della sua sovranità su base nazionale, sulla relativa autonomia della decisione politica, sulla responsabilità territoriale dei diversi attori sociali e politici, sulla possibilità di localizzarne i conflitti e di regolarne le forme - che cade. E trascina con sé nella crisi il proprio primogenito legittimo, la «sinistra» appunto, colpendo mortalmente uno dei cardini della sua esistenza come entità «politica»: il principio di rappresentanza. La possibilità stessa di tradurre le domande e i conflitti sociali in forma politica.

    E’ questo, oggi, il capo delle tempeste di ogni sinistra: questa difficoltà a tener fede all’imperativo della responsabilità dei rappresentanti nei confronti dei propri rappresentati, che riproduce su scala allargata l’immagine, reale, della «casta» chiusa. Dell’oligarchia dominante. Del «ceto» mosso più da solidarietà (affinità, complicità...) interne e «orizzontali», che non da un qualche rispetto per i propri elettori a cui chiedono una legittimazione tradita.

    Ho detto «difficoltà» a tener fede, e avrei anche potuto chiamarla «impossibilità», e non «cattiva volontà» o «indisponibilità», per sottolineare il carattere in buona misura «obbligato» della patologia. Il suo stare nell’ordine (o nel disordine) delle cose, in un contesto dai confini labili, in cui i vincoli di coalizione e delle relazioni trans-nazionali sono feroci, e tagliano spesso le connessioni verticali con la propria gente e i propri territori.

    Interlocuzione lobbistica

    Non è che i «politici di professione» non ne siano consapevoli. La destra lo sa benissimo, e trova in ciò conferma della propria affermazione totalitaria dell’esistente come unica idea regolatrice, e della propria conclamata «passione per gli interessi». A sinistra, una parte ha evidentemente pensato di far fronte alla crisi sciogliendovisi dentro, e puntando (quasi) tutto sull’interlocuzione lobbistica e sul tentativo di «comprarsi» una parte di sistema economico per ripartire di lì a ridisegnare il profilo del capitalismo italiano (quello che hanno fatto da sempre gli «altri»). Un’altra parte, logorata la rappresentanza, ha giocato le proprie carte sulla rappresentazione di sé come icona simbolica di un’identità altrove introvabile. Ma sono state, entrambe, risposte di corto respiro: l’una destinata a incagliarsi nell’intrico delle cordate e nelle loro implicazioni giudiziarie. L’altra a inabissarsi sulle piazze.

    Un pensiero piccolo di fronte a eventi grandi - «epocali» suggerisce qualcuno -, è rovinoso. E credo che sia proprio dal pensiero, dall’elaborazione di un linguaggio e di una rete di categorie capaci di reinterpretare il presente, che si dovrebbe ripartire, se non si vuole che anche l’ultima chance offertaci oggi, la costruzione di un’ampia area politica, sociale e culturale non conciliata con l’esistente ma capace di pesarvi e dire la propria, si disfi nelle mani di chi vi lavora, prima ancora di vedere la luce.